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Il settimo oracolo
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E-book249 pagine3 ore

Il settimo oracolo

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Info su questo ebook

«L'evoluzione del genere più venduto da Le Carré a Dan Brown.»
Il Giornale

Codice Fenice Saga

Un grande thriller

Dall'autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati

La fine del mondo è già cominciata.
Esiste un modo per fermarla?

Due bambini barbaramente uccisi e con la bocca cucita: è questo il macabro delitto su cui è chiamato a investigare Nigel Sforza dell’Interpol. Aiutato dal diplomatico Nicolò Nobile e dal colonnello Hannibal Gutierrez, l’esperto ispettore segue le tracce dell’assassino fino a Istra, una cittadina a nord di Mosca. È lì, nei pressi dell’enigmatica Wardenclyffe Tower, la torre di Tesla voluta negli anni Settanta dal governo sovietico, che la vicenda sembra abbia avuto inizio. Le indagini portano quasi subito a un’inquietante scoperta: dietro all’installazione si nasconde un laboratorio segreto, impegnato a proseguire i più abietti esperimenti nazisti in campo eugenetico. Intanto, un altro indizio viene rinvenuto nella piana delle piramidi, il luogo in cui negli anni Sessanta era stata scoperta la mummia del primo faraone d’Egitto, il dio Osiris. Un misterioso, ancestrale vaticinio, il Settimo oracolo, sembra stia tirando le fila dell’intera vicenda… 

Qual è il rapporto tra una nuova epidemia e un’importante scoperta archeologica?
E chi è il fantomatico Settimo oracolo?

Un nuovo enigma da risolvere per l’investigatore Nigel Sforza

«Un libro che non lascia un secondo di respiro. Bello l’intreccio e il tema sullo sfondo fa riflettere: il rapporto tra i vaccini e le multinazionali.»

«Un nuovo magistrale romanzo in cui l’autore ha delineato come l’attualità può convergere con il narrato… Un libro che consiglio vivamente.»

«Notevole la sequenza dei fatti che coinvolge il lettore che non riesce a smettere per scoprire quanto viene in seguito.»
G. L. Barone
È nato a Varese nel 1974 e si è laureato in Giurisprudenza. Appassionato di economia, nel tempo libero suona in un gruppo heavy metal. Con la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I manoscritti perduti degli Illuminati. Dopo La settima profezia e Il settimo enigma, Il settimo oracolo è il capitolo conclusivo della Codice Fenice saga. È anche autore del serial ebook Il tesoro perduto dei templari e di uno dei racconti della raccolta Sette delitti sotto la neve. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola.
LinguaItaliano
Data di uscita20 apr 2018
ISBN9788822719287
Il settimo oracolo

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    Anteprima del libro

    Il settimo oracolo - G. L. Barone

    Nota storica

    Nel 1961 un’équipe dell’Accademia Sovietica delle Scienze, scortata da militari e agenti del KGB, fu inviata nella piana delle Piramidi di Giza per investigare sul ritrovamento di un antico sepolcro.

    A seguito di tale spedizione, che prese il nome di Progetto ISIS, l’impegno dell’URSS in Egitto aumentò esponenzialmente. Negli anni Sessanta quasi il cinquanta percento delle risorse russe per i Paesi in via di sviluppo fu destinato alla terra del Nilo. Il dispiegamento di forze militari arrivò a raggiungere oltre ventimila uomini.

    Se si esclude un video trasmesso negli anni Novanta da una TV americana e alcune testimonianze, non esistono a oggi documenti ufficiali sulla spedizione. I pochi presenti giurano tuttavia che oggetto del ritrovamento fosse la mummia del dio Osiris, primo faraone d’Egitto, risalente al 10.000 a. C.

    Cosa aveva di tanto particolare tale sepoltura da spingere l’URSS, in piena guerra fredda, a destinare al Progetto ISIS un tale massiccio impiego di uomini e denaro?

    – Ulybka Corporation –

    Laboratori

    Livello -1: Mensa e locali comuni

    Livello -2: Alloggi del personale

    Livello -3: Laboratori di genetica

    Livello -4: Magazzini e sale server

    Livello -5: Alloggiamenti dispositivi di AW

    Piante sotterranei

    Prologo

    Piana delle Piramidi di Giza, Egitto.

    1961.

    Il beduino accese un fiammifero e lo accostò al suo sigaro. Mentre teneva le mani a coppa, per evitare che qualcuno riuscisse a vederlo nell’oscurità, si voltò verso occidente.

    La piramide di Cheope, rischiarata dalla luna piena, si stagliava come un’immensa nube sotto il cielo stellato. Tutt’attorno, aleggiava una pallida nebbia che avvolgeva il tempio a valle di Micerino, il luogo dell’appuntamento.

    «Magbarat Alzoar?», lo interrogò un giovane, avvicinandosi lentamente. Era solo, avvolto in un’uniforme scura e con una sigaretta tra le dita.

    Il beduino lo scrutò nell’oscurità. Serrò le labbra attorno al cheroot e annuì. «Aveva appuntamento con qualcun altro?», sussurrò in russo quasi perfetto, la voce baritonale.

    Il giovane si sollevò il cappello militare e sorrise. Una dentatura bianca risaltava sugli occhi color della pece. «È spiritoso. Credo che andremo d’accordo».

    «Ha portato i soldi?», fece l’anziano, passandosi una mano all’altezza della cintura della galabìa, il lungo abito bianco caratteristico del luogo.

    «Non pensavo che voi foste attaccati al denaro come un qualunque capitalista».

    Il cammello del beduino emise un bramito e lui si limitò a muovere le labbra, senza dire nulla. Poi cambiò idea: «Vendere carne e tappeti non frutta più come una volta… Le informazioni valgono di più!». Fece una pausa, un sorriso sardonico sul viso. «E come sa, l’ospitalità è il cardine della cultura della mia gente».

    «Parlami dei due uomini della tua tribù», tagliò corto il giovane.

    «Sono al Cairo. In ospedale».

    «Questo lo so», ringhiò. «Sono già stati interrogati dai nostri agenti ma sono in stato confusionale».

    «Le esalazioni del sepolcro, pare…».

    «Sei certo che le tue informazioni siano attendibili?».

    Il beduino sorrise nuovamente alla luce rossiccia del sigaro. «Non saresti qui se non lo pensassi».

    Il ragazzo scosse il capo.

    «Sono entrati nella tomba l’altro ieri notte, sono stati male un bel po’ dopo», lo rassicurò l’egiziano, tirando un’altra boccata. «Naturalmente abbiamo parlato prima…».

    «Conosci il luogo?».

    Un’ora più tardi, un convoglio di undici mezzi cingolati, alcune jeep e tre vecchi carri armati T-28 attraversò la necropoli. Procedettero lentamente, sollevando cumuli di sabbia millenaria livellata dal vento e sobbalzando sul terreno sconnesso.

    Il sole si stava alzando a oriente e la foschia polverosa mattutina incorniciava l’inconfondibile profilo delle tre piramidi principali. Il caldo era già asfissiante e il terreno ondulato era forato in più punti: segno inconfondibile della presenza di tombaroli notturni.

    I mezzi si fermarono esattamente dove aveva indicato il beduino: la strada aveva il consueto colore ambrato e a pochi passi dal ciglio, su una lieve altura, era stata posizionata una cerata scura, sorretta da travetti di legno. Al di sotto, si vedevano alcuni gradini ricavati nel suolo, che scendevano di un paio di metri nel cuore della terra.

    «Compagno generale, ben arrivato». Il giovane militare tese la mano, fissando l’esposizione di mostrine e medaglie dell’uomo che gli si stagliava davanti.

    «Buongiorno», si accigliò quest’ultimo, il fiato corto per la scarpinata. Sotto la rigida uniforme sfoggiava un addome prorompente e un fisico corpulento e sudato. «Lei si chiama?»

    «Compagno Michail Rodchenko», replicò il giovane, annuendo lentamente. «Dottor Michail Rod-

    chenko».

    «Ah, è lei…».

    «In persona: quando ci siamo resi conto che i due beduini che hanno trovato il sepolcro erano in stato confusionale, ci siamo rivolti a un membro del loro clan». Indicò un uomo su un promontorio poco lontano, la caratteristica kufiyya a cingergli il capo. «Prima che si sentissero male ha parlato con i due beduini che hanno trovato la tomba».

    «I due del Cairo hanno vuotato il sacco con qualcun altro oltre a noi?»

    «Assolutamente no. Li ho interrogati personalmente, sotto la supervisione dei compagni agenti del Comitato, ma non sono in condizioni di parlare».

    Il generale sospirò. Secondo gli ordini che aveva ricevuto direttamente da Mosca, doveva presenziare personalmente all’apertura del sarcofago.

    «È pericoloso?», si informò, abbassando il capo per riuscire a sbirciare sotto la cerata. Accanto a lui c’erano alcuni militari che indossavano maschere antigas: «Mi dicono che i beduini sono stati male proprio dopo essere entrati nel sepolcro».

    «Ho verificato di persona la salubrità dell’aria», rispose Rodchenko. «Qualunque cosa ci fosse appena aperta la tomba, adesso si è dissolta».

    Il generale puntò lo sguardo indagatore sul dispositivo che il giovane medico teneva tra le mani. Assomigliava a una radio a transistor, su cui campeggiavano grosse manopole e lancette. Dalla sommità fuoriusciva un lungo tubo che terminava in un piccolo apparato dalla forma di una maniglia.

    «L’aria è respirabile», proseguì il medico, accennando con lo sguardo proprio al dispositivo, «tuttavia, poiché non sappiamo cosa troveremo all’interno del sarcofago, suggerisco di usare ugualmente le maschere antigas».

    Il generale annuì e una volta indossato il dispositivo scese lungo la scaletta appoggiandosi alle pareti di tufo.

    L’ingresso alla stanza del sepolcro era basso e sormontato da un altorilievo raffigurante un oggetto alato.

    «Procediamo», ordinò, una volta dentro.

    La stanza mortuaria era quadrata e relativamente piccola. Sulle pareti erano affastellati ideogrammi sulle tonalità del rosso, in gran parte scoloriti. Si notavano diverse nicchie, all’interno delle quali vi era tutto un fiorire degli oggetti più cari del defunto: gioielli, papiri con formule magiche, un bastone da passeggio, uno scrigno dorato. Il soffitto era a volta, appena accennata, anch’esso colmo di incisioni raffiguranti le divinità dei morti. Il sarcofago, completamente in pietra e privo di qualsiasi incisione ornamentale, si trovava invece al centro della camera.

    Uno dei militari più giovani, dotato di pala, fissò il generale e si limitò ad annuire. Si chiamava Nikolaj Pavlovic e benché in quel periodo non si azzardasse a rivelarlo, i suoi genitori lo avevano chiamato così in onore dello zar Nicola I di Russia.

    Infilò la lama nell’incavo del sarcofago e fece leva. Ma non ottenne alcun risultato apprezzabile. La lastra, troppo grossa e pesante, non si mosse di un millimetro. Occorsero diversi minuti, affinché con l’aiuto di altri numerosi addetti del luogo, impacciati dalle maschere antigas, si riuscisse a sollevare il coperchio. Qualcosa però andò storto e mentre il mastodontico blocco di granito veniva fatto scorrere, uno dei manovali perse la presa. Il masso si sollevò come scagliato in alto da una mano invisibile e poi cadde pesantemente sopra le gambe di Nikolaj, che si accasciò, tramortito.

    «Cattivo presagio!», sbraitò qualcuno, tentando di sorreggerlo. Ma non fece in tempo: seguirono attimi di concitata agitazione che non dettero modo ai presenti di rendersi conto di ciò che stava accadendo. Una nuvola di polvere si innalzò quasi all’istante dall’interno del sepolcro aperto. Sembrava una mattina di nebbia sopra una palude e per un attimo tutto si perse nel grigio. Quando la nube polverosa si diradò, la visione del corpo mummificato colpì tutti presenti.

    Le dimensioni dello scheletro erano minute, simili a quelle di un bambino. Ciò che lasciò però perplessi gli archeologi russi furono le forme anomale della testa. Le orbite erano ampie, la fronte spaziosa e il capo allungato, proteso all’indietro. Tra le bende logorate dal tempo, si intuivano degli zigomi sporgenti e una bocca minuscola: sulla mandibola erano incastonati piccoli denti seghettati, che davano l’impressione di essere incastrati gli uni sugli altri.

    «La tomba del visitatore», si lasciò sfuggire uno dei manovali che avevano aiutato a sollevare il coperchio. Blaterando qualcosa in arabo, fece cadere lo sguardo terrorizzato sul corpo esanime di Nikolaj Pavlovic. «Il ritorno degli dèi alati!».

    Michail Rodchenko non si lasciò impressionare da quelle leggende, che in un modo o nell’altro richiamavano teorie strampalate sugli alieni. Non era certamente quello il suo campo: la sua mente di medico si concentrò invece sulla fisionomia della mummia. Quella strana espressione compiaciuta da cartone animato, con i denti superiori uniti a quelli inferiori, gli fece rimbalzare in testa una parola in russo: улыбка, ulybka, sorriso.

    Non poteva sapere che grazie a quello stesso sorriso sarebbe diventato uno degli uomini più potenti di Russia.

    1

    Nel cuore della foresta equatoriale amazzonica,

    17 settembre.

    Tre settimane dopo l’inizio del contagio.

    Poco dopo il tramonto.

    La giovane indio Stella Lucente attraversò in silenzio il villaggio Awá e si diresse verso la tapãí, la sua tettoia di foglie di palma. Teneva tra le dita una noce di cocco colma di una speciale resina: come tutte le donne della tribù l’avrebbe utilizzata per decorare i capelli di suo marito con piume di avvoltoio reale.

    Attorno a lei, sotto la volta della foresta, i fuochi scoppiettavano e fervevano i preparativi per il rituale della luna piena. Gli uomini avrebbero lasciato il mondo terreno e si sarebbero incamminati verso Iwa, la dimora degli spiriti.

    La sua tribù celebrava quel rito, che onorava l’unione tra gli antenati e la foresta, da quando ne aveva memoria. Nonostante negli ultimi anni i taglialegna abusivi avessero deturpato la giungla che gli dava il sostentamento, gli Awá erano rimasti uno dei popoli più isolati al mondo.

    Se distruggi la foresta, distruggi anche gli Awá, diceva un vecchio detto. Ciò nonostante, l’invasione, come l’avevano definita, aveva distrutto le loro terre più di qualunque altra area tribale dell’Amazzonia.

    Gli Awá, a volte con l’aiuto della stagione delle piogge, altre con quello delle loro irapara, le frecce, si erano opposti come avevano potuto. Erano rimasti nomadi e, negli ultimi anni più che mai, si erano spostati in continuazione. Portavano con loro solo ciò di cui avevano realmente bisogno: funi di vite, archi, piccoli animali, cesti di foglie intrecciate. Per tale ragione, i loro villaggi erano costruiti attorno a robuste amache protette da semplici tettoie.

    Sotto una di queste sedeva Sasso Grigio, sciamano e marito di Stella Lucente. Era completamente nudo, fatta eccezione per la testa inghirlandata di piume e per i pennacchi cuciti attorno ai tricipiti.

    «La caccia sarà fortunata», le disse, sottovoce, appena la vide avvicinarsi.

    «Iwa è la dimora degli animali della foresta», assentì lei, con il suo tono suadente. Cominciò ad armeggiare con maestria rimescolando la resina, lo sguardo su Piccola Libellula. La bambina giocava rumorosamente con un cucciolo di tamarino. Come tutti gli hanima, i membri della famiglia, avrebbe partecipato al rito osservando gli uomini cantare fino all’alba e poi addormentandosi al chiaro di luna.

    Lentamente, Stella Lucente applicò sui capelli neri del marito alcune piume candide. Si fermò spesso, controllando e ricontrollando che il copricapo ornamentale fosse perfetto come si confaceva al suo uomo. Aveva quasi terminato quando una voce allarmata giunse sguaiata dal capanno di caccia.

    «Sasso Grigio», strillò un giovane, nudo ma con una collana tribale a cingergli il collo. Sulle sue spalle si agitava una scimmia cappuccina. «Sasso Grigio. Il karaí!».

    Karaí, il non-indio, lo straniero.

    L’uomo si alzò di scatto, la luce del fuoco che gli danzava sulla fronte corrucciata. «Si è svegliato?».

    Il giovane, visibilmente scosso, annuì ripetutamente.

    «Andiamo!», ordinò lo sciamano.

    Con passo spedito attraversarono il villaggio, passando davanti alle altre tettoie dove ogni moglie stava decorando il capo del marito. Raggiunsero una costruzione circolare, dalla vaga forma bitorzoluta. Era fatta di rami e ricoperta di paglia ed era sufficientemente spaziosa da farvi entrare una decina di uomini.

    «Ha aperto gli occhi!», annunciò un altro giovane di guardia, in piedi davanti all’ingresso con il suo arco tra le mani.

    Sasso Grigio gli poggiò una mano sulla spalla e si abbassò per entrare.

    All’interno del capanno aleggiava un’aria stantia, ammorbata dal fumo acre del focolare alimentato dalla resina.

    Lo sciamano si avvicinò lentamente all’ikaha, l’amaca costituita da fibre di palma, ed esaminò l’uomo: era madido di sudore ma con gli occhi neri aperti.

    «Dove mi trovo?», chiese quest’ultimo, in inglese.

    Sasso Grigio accennò un sorriso, mostrando una dentatura priva degli incisivi.

    «Parla la mia lingua?», provò ancora il karaí.

    Lo sciamano si limitò a toccargli le tempie. Non scottava più, la febbre era passata. Era fuori pericolo. Distolse lo sguardo e studiò il bendaggio del costato: un insieme di foglie di tabacco era tenuto assieme con corde di vite.

    «Dove mi trovo?», insistette lo straniero, concentrandosi meglio sulla capanna. L’interno era spoglio: una fievole fiammella, due piccole giare accanto alla porta, e uno schieramento di indios alle spalle di quello con cui stava parlando.

    Sasso Grigio tornò a guardarlo in viso. I capelli color argento erano schiacciati e la fronte era imperlata di sudore e piena di graffi ed ecchimosi. «Tu al sicuro!», lo rassicurò, in inglese, annuendo lentamente con la testa.

    «Chi siete?»

    «Sarà tempo per domande», lo zittì Sasso Grigio. Gli carezzò la fronte con un panno, tamponando le ferite: «Prima tu devi risposte».

    L’uomo cercò di alzarsi sul gomito: «Quali risposte?»

    «Io Sasso Grigio». Si toccò il costato con il pugno. «Tu?».

    Il karaí sorrise appena. In effetti, a pensarci bene non avevano neppure fatto le presentazioni. Non era stato molto educato nei confronti degli indigeni che con ogni probabilità gli avevano salvato la vita.

    «Ha ragione», bofonchiò, passandosi la lingua sulle labbra aride. «Vengo dall’Italia. Mi chiamo Veneziani, Zeno Veneziani».

    2

    Il Cairo. Poco dopo.

    Ora locale 14:05.

    Dragan Sauer era come un leone in gabbia. Sdraiato sul letto della suite dell’hotel Akhenaton fissava mestamente il notiziario egiziano trasmesso in TV.

    Era già stato più volte in quell’albergo, poco distante dal caotico ponte Kasr Al Nile, ma l’atmosfera che si respirava in quel momento era totalmente diversa. Gli schiamazzi della strada, le urla, gli scoppiettii dei motorini, delle auto anni Sessanta, i richiami dei venditori ambulanti: tutto era scomparso, sostituito dal macabro silenzio di una città fantasma.

    Il virus era arrivato anche lì: come i venti impetuosi di un tornado, si era insinuato dal deserto fino ai vicoli animati della capitale. La gente, quella che aveva potuto, era fuggita verso il Sinai. Era stato un esodo biblico che avrebbe dovuto portarli al sicuro, in una delle zone che erano state dichiarate Ebola free. La maggior parte della popolazione invece, seguendo le linee guida dell’OMS, si era fatta vaccinare e se ne stava rinchiusa in casa, in attesa che il peggio passasse.

    Anche per Sauer gli ultimi giorni non erano stati affatto facili: dopo il rientro da Manaus, assieme a Ylenia aveva scortato padre Gonçalo Fernandes fino a un laboratorio alla periferia di Giza. Il lavoro si sarebbe dovuto concludere così, ma quando stavano per imbarcarsi su un volo EgyptAir per gli Stati Uniti, lo spazio aereo egiziano era stato chiuso. L’aeroporto internazionale era stato posto in quarantena e Sauer era stato costretto a tornarsene in città.

    L’Akhenaton, con le sue eleganti aree comuni e l’accogliente caffetteria Baymen, era diventato il suo rifugio. Dal terrazzo panoramico si riuscivano a scorgere piazza Tahrir, che con il passare dei giorni diventava sempre meno caotica, e il Museo di antichità egizie. La cosa più importante era che a pochi isolati da lì c’era l’ambasciata statunitense: il motivo principale per il quale assieme alla sua fidanzata aveva scelto quell’hotel.

    Sauer sospirò.

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