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E-book414 pagine5 ore

Non colpevole

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Info su questo ebook

Un grande giallo italiano

C’è una lettera bianca accanto alla vittima...

Vincenzo Lipari, finito sul lastrico, si è suicidato. Il viceispettore Perticone, titolare dell’indagine, trova accanto al cadavere una lettera bianca. Sembra un dettaglio di poco conto, ma quando altre persone cominciano a dichiarare di aver ricevuto lettere simili, quel particolare si fa interessante. Soprattutto nel momento in cui un’analoga missiva viene recapitata anche a un pezzo grosso, Delfino, il vicepresidente dell’associazione industriali. Eppure, nonostante la scoperta di una firma criptata sulle lettere, gli inquirenti non fanno alcun passo avanti. Perché? Perticone si rende conto che deve esserci una talpa in questura: il criminale che stanno cercando continua ad anticipare le loro mosse. Solo scovando chi fa il doppio gioco, il piano folle dell’omicida potrà essere sventato.

Dall’autore di Il profanatore di biblioteche proibite, oltre 40.000 copie in Italia

Hanno scritto dei suoi libri:

«Davide Mosca fonde abilmente i materiali storici e iconografici con gli aspetti più leggendari […]. In un’indagine che si muove tra reperti, tombe profanate, libri perduti e biblioteche sotterranee.»
Corriere della Sera

«La verità sulla fondazione della Città Eterna è in mano a una setta. L’avventura del professor Lazzari tra libri perduti, tombe ed enigmi.»
la Repubblica

«Come un profanatore di alchimie, Davide Mosca, studioso di storia antica, nel suo nuovo romanzo non concede attese.»
Il Messaggero
Davide Mosca
È nato a Savona e vive a Milano, dove dirige la libreria Verso. Editorialista di «Riza Psicosomatica», ha scritto una decina di romanzi. Con la Newton Compton ha pubblicato Il profanatore di biblioteche proibite, La cripta dei libri profetici, L’ultimo Cesare, un racconto contenuto nell’antologia Giallo Natale e Non colpevole.
LinguaItaliano
Data di uscita19 apr 2016
ISBN9788854194335
Non colpevole

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    Anteprima del libro

    Non colpevole - Davide Mosca

    1

    La lettera

    Quando gli giunse una busta con all’interno una lettera completamente bianca, Vincenzo Lipari pensò che si trattasse di uno scherzo. Non sapeva che nelle settimane successive non avrebbe riso neppure una volta.

    Cominciò l’indomani, e andò avanti per trenta giorni.

    Il trentunesimo Lipari indossò il suo abito preferito e si impiccò a una delle travi a vista della cucina della sua villa, nell’esclusivo quartiere di Castelletto.

    Sul tavolo lasciò la busta con il foglio bianco all’interno.

    I poliziotti lo trovarono due giorni dopo. Una vicina aveva dato l’allarme dopo aver visto il cadavere penzolare attraverso la grande vetrata che si affacciava sul giardino. Si era avvicinata alla siepe di confine per chiamare il proprio gatto, pensando che si fosse nascosto come al solito nella proprietà dei vicini, e pur senza volerlo le era capitato di rivolgere una rapida occhiata alla casa. Agli agenti che la interrogarono ci tenne a ribadire che lei era una che si faceva i fatti suoi.

    «In questa città tutti si fanno i fatti degli altri e gli affari propri», commentò il viceispettore Piero Perticone, a cui era stata affidata l’indagine.

    Era noto tra i colleghi più anziani della squadra mobile per avere mani pesanti e lingua lunga: le prime gli avevano fatto iniziare la carriera, la seconda gli aveva impedito di proseguirla. In questura si diceva che con il tempo si fosse inacidito e che anche l’acume investigativo ne avesse risentito. Completamente ammuffito, non si faceva scrupolo di precisare il suo diretto superiore, l’ispettore capo Rizzo, con cui i rapporti erano minimi se non inesistenti.

    Da anni Perticone non risolveva un buon caso, limitandosi all’ordinaria amministrazione. Semmai avesse avuto ambizione, l’aveva persa per strada. Gli era rimasta una traccia dell’antica intraprendenza, ma come scollegata da tutto il resto: a volte lo faceva agire con l’ardore ottuso di quei gatti che, persa la virilità, si gettano contro coperte e mobili quasi potessero ancora combinare qualcosa. Il paragone era stato proposto dal solito Rizzo.

    Con gli altri colleghi non andava molto meglio. Lo consideravano esagerato, quando parlava, quando si muoveva, perfino quando stava zitto. Anche il normale atto di chiamarlo costituiva un problema. Perticone era un cognome troppo lungo e difficile da accorciare: Pertico, Perti o Pert non suonavano bene per diversi motivi. Mentre Piero era un nome confidenziale, e a nessuno andava di rivolgersi a lui in questi termini, perché avrebbe presupposto una vicinanza che non c’era. Perciò era semplicemente il Vice, dato che rivestiva quel ruolo da tanto tempo e che lo scatto in avanti pareva destinato a essere rinviato all’infinito. Un nomignolo che la diceva lunga anche sulla sua vita, sempre un passo indietro.

    Molti per divertirsi si riferivano a lui usando le iniziali, PP, cercando di rimarcare lo sgradevole doppio senso. Quando era venuto a saperlo, Perticone aveva sferrato un pugno a una porta facendo un bozzo grande come un melone. Nessuno l’aveva riparata e ora, al terzo piano della questura, campeggiava come monito per chiunque intendesse provarci di persona a chiamarlo così. Poteva aver perso sagacia e brillantezza, ma non i centonovantatré centimetri di altezza o i cento chili, a cui anzi se ne era aggiunto qualcuno.

    «Il più classico dei suicidi», disse l’agente Parodi, indicando la busta sul grande tavolo di legno scuro. Sembrava tutto fuori misura in quella cucina, che assomigliava a una baita scandinava, con le travi a vista, il pavimento di cotto, la poderosa stufa in terracotta, la coppia di anfore erculee e il piano da lavoro su cui avrebbe potuto cucinare in contemporanea una dozzina di cuochi.

    «Mica tanto classico», borbottò Perticone, guardando fuori dalla finestra. Erano nella zona alta di Genova: sotto di lui gli antichi palazzi brillavano come le tessere di un mosaico che pareva sul punto di sgretolarsi. Oltre il porto, il mare era una cartina di tornasole che mostrava la scala completa degli azzurri e dei verdi. Quando si voltò, fu colpito per contrasto da tutto il legno presente nella stanza. Forse servivano a quello i soldi, a ferire gli occhi di chi come lui non li aveva.

    Le superfici brillavano esaltando le più svariate sfumature del marrone, dalla tinta miele al teak. Sembrava il set ideale per girare lo spot di un prodotto per la pulizia del legno.

    «Ha visto qualcosa, Vice?», lo incalzò Parodi notando lo sguardo del superiore. «Manca qualcosa?»

    «Manca tutto».

    Lipari si doveva essere preparato con cura: aveva provveduto a far sparire ogni oggetto o soprammobile dalla cucina. Non c’era niente in vista, né un barattolo né una posata. Niente di niente. La busta risaltava quasi fosse l’arma del delitto. Solo che non c’era alcun delitto.

    Perticone l’afferrò e l’aprì.

    Parodi allibì. La faccia divenne più bianca e i capelli più rossi. Allungò le mani in avanti e poi le ritrasse con lentezza, come se potesse riavvolgere il nastro e tornare indietro. «Ma non aspettiamo la scientifica?»

    «La scientifica? Non credo che il nostro bilancio lo permetta, dato che il più delle volte ci mancano perfino i soldi per fare benzina. E poi in quanti siamo già entrati qua dentro? In cinque? La scena è più inquinata del nostro cielo…».

    Parodi si morse le labbra. Fece qualche passo, cercando di sbirciare quello che Perticone stava leggendo. Dalla sua concentrazione sembrava qualcosa di poco chiaro. «Cosa dice? Un messaggio? Spiega perché l’ha fatto?»

    «Un foglio bianco», rivelò Perticone mostrandoglielo.

    «Nemmeno una parola?»

    «Sulla busta c’è l’indirizzo di Lipari, ma non il mittente».

    «Forse allora ha ricevuto una brutta notizia, una notizia che l’ha portato al suicidio».

    «Un foglio bianco?»

    «Magari un codice».

    «Magari».

    «Sembra preoccupato».

    Perticone alzò gli occhi sulla vittima. Era sui quaranta e sembrava il classico tipo che piaceva alle donne, con i capelli folti, la barba accuratamente trasandata, le mani forti. Era impossibile indovinare cosa avesse potuto spingere uno così a salire su uno sgabello per poi finire tre metri sotto terra. «Non lo so. Più lo guardo e più mi sembra di avere una spada di Damocle sulla testa».

    «Una spada di Damocle?», ripeté Parodi. Pareva scavare nella propria memoria, come se in quel preciso momento non ricordasse con precisione il significato dell’immagine proposta dal collega, sebbene la conoscesse.

    Perticone gli risparmiò la fatica. «Una spada che ti pende sopra la testa e che sta per cadere, mentre tu sei lì sotto e non puoi muoverti».

    «Però c’è anche la speranza che possa mancarti, giusto?»

    «Se non ti colpisce, rimbalza per terra e ti si conficca nel culo. Puoi starne certo», disse Perticone. Gli dava fastidio il timore con cui Parodi lo trattava, quasi temesse di scottarsi, ma se non altro era uno dei pochi che gli parlava, e quello deponeva a suo favore.

    Girando lo sguardo si domandò come avesse fatto a farsi il vuoto attorno. Le relazioni non erano mai state il suo forte fin da ragazzo, ma c’era stato un tempo in cui non avrebbe avuto problemi a contattare nove colleghi per una partita a calcetto. Adesso non sarebbe riuscito nemmeno a organizzarne una di tennis.

    Parodi sembrava tollerarlo, addirittura riconoscergli qualche pregio, ma non avevano mai preso neppure un caffè insieme fuori dall’orario di lavoro. La sua vita assomigliava a quella cucina, uno spazio grande e inanimato. Ancora una volta guardò l’impiccato, elegante e di bell’aspetto, nonostante i segni lasciati dalla morte.

    A sua volta Parodi studiava il volto del viceispettore, che pareva uno schermo su cui passavano immagini scure e sinistre, simili a quelle schede che gli aveva fatto vedere lo psicologo ai test per entrare nel corpo di polizia. «Sembra che la prenda sul personale, Vice. Come se Lipari si fosse ucciso per farle un dispetto».

    «Perché, non è così?».

    Parodi si guardò le scarpe, forse pensando che le voci che giravano su Perticone fossero vere.

    «E poi perché ti ostini a darmi del lei? Ormai sono mesi che lavoriamo insieme».

    «La forza dell’abitudine».

    «Forse hai ragione», disse Perticone, agitando la busta.

    «Sul lei?».

    Il viceispettore lo fulminò con lo sguardo. «Meglio aspettare la scientifica. Qualcosa non quadra. Soltanto i poveri si uccidono in cucina. E Lipari era uno che di soldi ne aveva».

    «Ne aveva avuti, semmai», si intromise Graziano Ricci. «Scusate il trapassato, ma mai tempo fu più azzeccato». Era uno degli inviati di «I Tempi di Genova», il principale quotidiano regionale, il cui gruppo editoriale possedeva anche una televisione, una radio e un portale, tutti ai primi posti delle rispettive classifiche locali di pubblico, fenomeno del tutto comprensibile in una città di confine in cui molti preferivano ascoltare le notizie da chi sfoggiava la loro stessa inflessione.

    Perticone e Parodi si erano voltati di colpo. Non l’avevano sentito entrare. Ricci indossava uno dei suoi soliti maglioncini sgargianti, sotto lo smanicato verde. Si muoveva a scatti e dava l’impressione di zoppicare. Pareva uno che soffrisse di mal di schiena da una vita. Gli occhiali dalla montatura rossa segnavano una separazione tra la parte superiore e inferiore della testa, ugualmente rasate. «Non li leggi i giornali?», domandò al viceispettore.

    «Conosco molti giornalisti di persona. Come potrei leggere i giornali?»

    «Mangiato pesante anche oggi?»

    «Parodi, porca puttana, chi c’era alla porta?», si inalberò tutt’a un tratto Perticone, come gli accadeva sovente.

    «L’agente Campodonico».

    «Adesso non c’è più, a quanto pare, dato che non credo che Ricci sia entrato da una delle finestre. Sei entrato dalla finestra, Ricci dei miei marroni?». Senza dargli il tempo di rispondere si rivolse di nuovo a Parodi. «Vai a cercare quella testa di cazzo di Campodonico e mettetevi alla porta. Forse in due riuscirete a presidiare un varco di ben un metro di larghezza. E poi chiama chi ti ho detto di chiamare».

    Appena Parodi sparì oltre il corridoio, Perticone tornò a fissare in cagnesco il giornalista. «Visto che sei entrato senza autorizzazione, giustifica almeno la tua presenza. Che significa che i soldi ce li aveva avuti? Non ce li aveva più?»

    «Non leggendo i giornali non conosci le statistiche. Non sai che in Italia solo un’azienda su tre resiste alla terza generazione? C’è il fondatore, poi l’espansore e infine viene il dissolutore».

    «Filippo di Macedonia, Alessandro il Grande e poi il nulla. Li leggo, i libri di storia».

    «Il nostro Vincenzo era il dissolutore dei Lipari. L’azienda andava avanti grazie alle banche da molto, troppo tempo. Aveva uno scoperto altissimo. Il direttore della banca che l’ha tenuta in piedi per anni a un certo punto ha detto basta, e l’azienda si è trovata con le spalle al muro dall’oggi al domani. Crisi di liquidità, enormi spese di gestione del debito, blocco dei fornitori… Come spesso accade, per metterci una toppa, Lipari aveva aperto una falla. L’attività era stata fondata da suo nonno: novant’anni di gloria finiti in dieci giorni».

    «Quello che si dice il peso del tempo», commentò Perticone come se avesse sperimentato di persona la stessa situazione.

    «Adesso conosci il motivo del suicidio», disse Ricci.

    «Come no», disse Perticone con il tono di chi però obietta anziché confermare l’affermazione altrui.

    Il giornalista se ne accorse e pensò di sondarlo. Tirò fuori il pacchetto in cui custodiva il tabacco, preparò due sigarette e poi gliene offrì una. «Che c’è? Cosa non le torna?»

    «È proprio questo il punto. I calcoli tornano o non tornano. Ma non le persone». Perticone prese la sigaretta, l’accese e se la portò alla bocca con foga, la giacca tesa sopra i muscoli. «Qui parliamo di un uomo, porca puttana! Un uomo! Si è ammazzato per i soldi? Che ne sappiamo noi? Che diritto abbiamo di fare calcoli?».

    Ricci fece di nascosto l’occhiolino a Parodi, che aveva fatto capolino oltre la porta per ascoltare, attirato dal tono di voce di Perticone. Poi provò a sdrammatizzare: «Su, viceispettore non si alteri, non l’abbiamo mica ammazzato noi».

    «Questo lo vedremo», disse Perticone.

    2

    Le mani dell’ansia

    Antonio Renna si rigirò la busta tra le dita. In un primo momento aveva temuto che si trattasse di qualche notizia spiacevole. In genere la cassetta delle lettere del ristorante non riservava altro, tranne la pubblicità. Multe, bollette e réclame: il refrain dei giorni nostri. Una volta almeno arrivavano le cartoline, ma adesso chi le spediva più?

    Soltanto quando aveva visto il proprio indirizzo tracciato a mano si era tranquillizzato. Non poteva essere nulla di ufficiale: nessuna contravvenzione, cartella esattoriale o richiesta di rimborso. Il fatto che non fosse una raccomandata con ricevuta di ritorno bastava già a escludere tutta una serie di spiacevoli notifiche, ma di quei tempi non si poteva mai mettere la mano sul fuoco, specialmente quando possedevi un pubblico esercizio, e per di più con un giro d’affari come il suo.

    Ogni mese quelli che sedevano comodamente negli uffici si inventavano un nuovo corso d’aggiornamento, per non parlare della velocità e dell’isteria con cui cambiavano i regolamenti. Un imprenditore poteva aspettarsi brutti tiri da un’infinità di soggetti: non solo Stato, regioni, province, comuni, che si divertivano a inventare o reinventare imposte e normative, ma anche molte altre divisioni della pubblica amministrazione, dalla guardia di finanza alla polizia comunale, dall’ispettorato del lavoro alla guardia costiera, dai nas all’asl, dai vigili del fuoco all’agenzia delle entrate.

    C’erano mille motivi per cui ci si poteva beccare un verbale, ma Antonio Renna cercava di rispettare qualsiasi norma, virgole comprese, perfino a costo di rimetterci gran parte degli utili. Impossibile prevedere cosa si sarebbero inventati quelli che uscivano dagli uffici per venire a farti visita, di persona o tramite raccomandata. Loro facevano il viaggio, e tu pagavi il biglietto. Era così che funzionava. Renna prese il tagliacarte, ma prima di aprire la busta fece un rapido inventario mentale degli ultimi aggiornamenti normativi: no, per quanto si sforzasse, riteneva di aver soddisfatto ogni adempimento.

    Non poteva che essere una lettera personale. La accarezzò e poi provò ad annusarla. Si sentiva vagamente elettrizzato. Chi poteva essere? Forse un’ex fidanzata? Da quanti anni non riceveva una missiva?

    La aprì con trepidazione, ma restò deluso ritrovandosi un foglio bianco tra le dita. Nemmeno una parola. Con la mano scavò nella busta, quasi potesse contenere un secondo foglio o un oggetto minuscolo e leggero, magari una fototessera, però non c’era altro.

    Provò a studiare la calligrafia dell’indirizzo. Nessun ricordo: non credeva di averla mai vista prima. Si sentì uno stupido ad aver sperato. Chi poteva interessarsi a uno come lui? Tutto il suo mondo girava intorno al ristorante: non aveva una vita fuori di lì. Niente mogli, amanti o confidenti. C’erano solo i clienti, i suoi amici, e gli uomini che stavano negli uffici, i suoi nemici. Nessun altro.

    Spostò l’attenzione dalla lettera alle mani rugose e capì: aveva cinquantasette anni, ma la pelle era quella di un uomo molto più vecchio, erosa dall’acqua fredda con cui per tanto tempo si era ostinato a lavare di persona le verdure. Non sfioravano una donna da anni, non avevano mai accarezzato un bambino che non fosse il figlio di qualche cliente. Aveva sperato nella lettera mosso da un bisogno inconfessato, ma nessuno poteva mostrargli dove l’avrebbero portato le strade che non aveva imboccato.

    In ogni caso non gli piaceva lasciare le cose in sospeso. Lo faceva sentire male non farsi un’idea il più possibile precisa della vicenda. Sapeva per esperienza che le situazioni che non sbrogli subito si aggrovigliano sempre più e che i fili che non cuci o recidi finiscono inevitabilmente per farti inciampare.

    Si versò un bicchiere d’acqua e si sedette alla scrivania che aveva piazzato dietro la cassa, sotto l’arco. Dopo averci ragionato a fondo, arrivò alla conclusione che con ogni probabilità chi aveva scritto quella lettera si era sbagliato e anziché il foglio con il messaggio ne aveva inserito uno identico, bianco. Se il mittente si fosse accorto dell’errore, entro qualche giorno gli sarebbe arrivata la missiva originaria. Altrimenti non sarebbe mai venuto a conoscenza del messaggio, né avrebbe scoperto chi aveva cercato di mettersi in contatto con lui, e se ne sarebbe rammaricato. Che vita era quella che poteva essere destabilizzata da una lettera mancata? Provò a non domandarselo.

    Nonostante fosse inutile conservarla, decise comunque di non buttarla. Però preferiva che il direttore di sala o lo chef non la vedessero. Chissà perché, gli venne in mente che se l’avessero trovata avrebbero pensato che lui avesse qualche spiacevole segreto da custodire. Non voleva che si facessero idee sbagliate sul suo conto. Perciò la ripiegò in quattro e la infilò nel portafogli, che teneva sempre nella tasca interna della giacca, dove i ladri avevano meno probabilità di mettere le mani, tanto più che chiudeva sempre il bottone di sicurezza.

    Più tardi, dopo essersi occupato dei fornitori, telefonò a un suo cliente abituale, che dirigeva il vicino ufficio postale. Non voleva lasciare nulla di intentato per chiarire la faccenda. «Mi è arrivata una busta con un foglio bianco all’interno», gli spiegò Renna, senza fornire alcuna interpretazione in modo da non viziare in partenza l’opinione del postale.

    «Vuoi sporgere reclamo?»

    «No, assolutamente. Mi chiedevo soltanto… Be’…». Renna si rese conto dell’assurdità delle sue supposizioni e, preso dall’imbarazzo, tacque.

    «Cosa pensi? Che qualcuno abbia aperto la tua busta, prelevato l’assegno milionario che di sicuro conteneva e poi inserito al suo posto un foglio bianco?»

    «Non proprio in questi termini…», disse il ristoratore, e facendosi coraggio aggiunse: «Ma secondo te può essere successo qualcosa del genere?»

    «Vuoi un consiglio d’amico? Rilassati. Una busta non ha mai ucciso nessuno».

    Sara Monaci, la vedova di Vincenzo Lipari, rientrò in Italia tre giorni dopo il rinvenimento del corpo del marito. «Ero a Sharm el-Sheikh. Ho avuto problemi con i voli», spiegò con una nota di fastidio nella voce, bassa e strascicata, che a Perticone faceva venire in mente uno scialle trascinato per terra. Dall’atteggiamento e dall’espressione era evidente che gli stesse facendo un favore a rispondere e che sentisse come un sopruso il fatto di doversi giustificare, tanto più con uno sconosciuto.

    «Che genere di problemi? Gli unici problemi che mi vengono in mente riguardano la difficoltà di scelta. Da Sharm partono almeno dieci voli al giorno per l’Italia. In tre giorni fanno trenta. Nessuno di suo gradimento?». Perticone l’aveva convocata in questura per un breve scambio di opinioni. Così le aveva detto al telefono, quando finalmente era riuscito a rintracciarla.

    Era sulla trentina, una bellezza da copertina patinata, che si muoveva a rilento, con sensualità, proprio come se si trovasse sul set di un servizio fotografico. Proprio quel genere di persona che mette a disagio gli uomini: quando c’era lei si sentivano tutti in dovere di spiccare o di colpire la sua attenzione in qualche modo. A volte le sembrava di vivere in un circo, attorniata da aspiranti clown, orsi che mostravano muscoli, foche danzanti, mangiatori di fuoco. Non era però il caso del burbero viceispettore che, a differenza del collega più giovane, non l’aveva guardata nemmeno una volta con interesse. Sembrava semplicemente che ce l’avesse con lei, personalmente, come se gli avesse fatto un torto.

    Dopo un silenzio prolungato, Sara Monaci gli domandò: «Che diritto ha di criticarmi?»

    «Non la sto criticando. Lei mi ha dato dello scemo, ancor prima di conoscermi, e io le ho fatto intendere di avere capito che mi stava dando dello scemo. Anche se, in tutta franchezza, non so se questo mi fa guadagnare o perdere punti ai suoi occhi».

    Sara Monaci si sfilò gli occhiali scuri, con la disinvoltura del gioielliere che pone sul banco i gioielli più preziosi. Occhi verdi ed esterrefatti ad arte. «Pensavo che questo fosse l’ufficio di un poliziotto».

    «Vede, signora Lipari, cominciamo ad andare d’accordo», si agitò Perticone mulinando le mani grandi come pale. «Mi piace che le cose vengano chiamate con il loro nome. Questo è un ufficio di polizia».

    «Dato che ha accennato alla questione dei nomi, il mio cognome è Monaci».

    «Già pronta a voltare pagina?»

    «Sta abusando della mia pazienza».

    «Ne deve avere molta, se è rimasta tre giorni a prendere il sole dopo aver ricevuto la notizia della sciagura. A proposito, complimenti per l’abbronzatura».

    «Cosa avrei dovuto fare? Suicidarmi a mia volta? Con Vincenzo avevamo rotto definitivamente. La parola fine l’abbiamo pronunciata due settimane fa, ma…».

    «Due settimane fa?», la interruppe Perticone. «Davvero un sacco di tempo, abbastanza per dimenticare l’amore di una vita. Sul serio».

    «I sentimenti non hanno una scadenza prestabilita, come i cibi».

    «Due settimane fa», riattaccò Perticone, come se non l’avesse sentita. Era sempre più esagitato, muoveva gambe e mani, sembrava crescere, occupare la stanza, invadere gli spazi altrui. Con le ginocchia colpì la scrivania, che sobbalzò rumorosamente. «E per la precisione prima o dopo i guai finanziari che hanno colpito suo marito?»

    «Chi le dà il diritto di fare queste basse insinuazioni?»

    «Ha finito di parlare di diritti? Si concentri sui doveri. È quello che dovrebbero fare le persone in questo Paese. Il suo dovere è…».

    «Secondo lei l’ho lasciato perché aveva perso tutto?», lo interruppe Sara.

    Parodi non sapeva più dove guardare per l’imbarazzo. Si sentiva in colpa, ma non poteva interrompere il viceispettore. Provò a cercare con lo sguardo gli occhi della vedova, per farle intendere che non erano tutti aggressivi e autoritari là dentro, ma lei li teneva ostinatamente puntati su Perticone, quasi a dimostrargli che per quanto lui fosse grosso, arrogante e sospettoso lei non aveva nulla da temere, semmai il contrario.

    L’avvocato Oliva entrò nella stanza senza bussare. La sciarpa di seta che portava al collo fece uno svolazzo spargendo una scia di intenso profumo. Sul metro e ottanta, ben piantato, con un curioso ciuffo bianco al centro della folta capigliatura di un nero opaco come il carbone. «Perticone, che modi sono questi? Mi hanno trattenuto con una scusa all’ingresso. Scommetto che è stata una delle sue solite trovate. Il primo dirigente sarà informato, così come il questore e pure il procuratore».

    «Non dimentichi il presidente della Repubblica, Oliva», gli disse Perticone. «Quando si comincia una scala meglio percorrerla tutta, fino in cima».

    «È stato scortese? Intendo oltre il limite», domandò l’avvocato alla vedova, mettendole la destra sulla spalla. Per un paio di istanti quella mano fu il centro dell’attenzione generale. Al polso, massiccio e scuro, Oliva portava un Rolex d’epoca.

    Sara Monaci fece un leggero movimento con il busto, come a volersi levare una mosca di torno, e la mano dell’avvocato Oliva finì in tasca.

    «Scortese?», fece Sara. «No, il viceispettore Perticone non ha usato nemmeno una parolaccia per darmi della puttana».

    Seguì un silenzio algido, durante il quale Perticone non riuscì a mascherare un sorriso amaro ma ammirato.

    «Vuole querelarlo?», le domandò infine Oliva facendole intendere che quello era il suo consiglio. «Il viceispettore non è ben visto dai suoi superiori, per usare un eufemismo. Ci faranno un monumento, se offriamo loro la scusa per levarselo dai piedi».

    «La signora vuole sapere perché il marito si è ucciso, proprio come me», contrattaccò Perticone, puntandogli contro l’indice grosso come un wurstel.

    Sara Monaci gli afferrò il braccio e glielo fece abbassare. Un movimento lento, pacato, come quello di un esperto agente di polizia che con la sua flemma riesce prima a calmare e poi a disarmare un pericoloso malvivente. Quell’inversione di ruoli spiazzò tutti. «Per un attimo, ho pensato che mi stesse accusando di avere spinto Vincenzo ad ammazzarsi, e nemmeno troppo velatamente».

    Perticone si lasciò andare contro lo schienale, che piegandosi cigolò fin quasi a spezzarsi. «La scientifica sembra confermare il suicidio, per quel che vale».

    «E questo non le basta per chiudere il caso?», lo incalzò Oliva, che era rimasto in piedi.

    «Ho un terribile difetto», disse Perticone come se parlasse a se stesso. «Tendo a interessarmi delle persone che agli altri non interessano più».

    «Ci risparmi le prediche. La scrivania non è il pulpito», gli ricordò Oliva.

    Perticone però continuava a fissare la vedova. «Scusi, ma non posso non domandarglielo. Cosa ha fatto Lipari per meritarsi così tanta freddezza da parte sua? Di quali nefandezze si è macchiato per far sì che a lei bastassero quattordici miseri giorni per dimenticare la promessa di unione eterna?».

    Parodi si portò involontariamente le mani alla bocca, mentre Oliva si esibì in un plateale verso di disapprovazione.

    «Sono obbligata a rispondere?»

    «Tutt’altro», si inserì l’avvocato, e la sua mano tornò sulla spalla di Sara. «Ho come il sospetto che questa chiacchierata sia un’iniziativa personale del nostro Perticone. Mi corregga se sbaglio, Vice. Ogni tanto lei esce dalla catacomba per importunare il prossimo, vero?»

    «Allora posso andare», disse Sara alzandosi. Allungò la mano verso Perticone.

    Il viceispettore la osservò per qualche secondo prima di alzarsi e infilarle tra le dita il suo biglietto da visita. Poi gliela strinse a pugno, ricoprendola con il proprio. «Non si sa mai… Magari le verrà voglia di cercare una risposta».

    Sara prese il biglietto da visita e lo lasciò cadere nella borsa, con la massima noncuranza.

    Era già sulla porta quando Perticone la richiamò. «Un’ultima domanda, signora Lipari».

    «Monaci. È questo il mio cognome, come le ho già detto. Ma lei può chiamarmi Sara. Così non si sbaglia».

    «Signora Lipari, suo marito prima di salire sullo sgabello e legarsi una corda intorno al collo ha rassettato la vostra cucina con una cura particolare, monastica, oserei dire maniacale», la informò Perticone, staccando di netto le parole e facendo lunghe pause. «Ha lasciato soltanto una cosa in vista: una busta con all’interno un foglio bianco. Lei che ne pensa?».

    Sara inforcò gli occhiali e lo fissò alcuni secondi attraverso le lenti scure. «Io penso che sia stata quella lettera a ucciderlo».

    3

    Le parole che non ho scritto

    «Secondo lei cosa ha voluto dire la Monaci a proposito di quella lettera?», domandò Parodi a Perticone, quando rimasero soli.

    Non era riuscito a spiccicare parola per tutto l’interrogatorio: non c’era altro modo per definire ciò a cui aveva assistito, impotente. Si chiese se la sua presenza nella stanza potesse essere giudicata compromettente dai superiori, in caso di un’indagine disciplinare, viste le minacce dell’avvocato Oliva, che aveva una certa influenza sulle alte sfere. Per fortuna non aveva aperto bocca.

    Era combattuto. Se da un lato si rendeva conto dei limiti e delle tendenze autolesionistiche del collega più anziano, dall’altro non riusciva a detestarlo. Gli sarebbe perfino piaciuto aiutarlo in qualche modo, ma temeva non ci fosse rimedio per la brutta abitudine che aveva Perticone di non riuscire a tenere a freno la lingua. Però su una cosa il viceispettore non aveva torto: c’era qualcosa di poco chiaro in quella faccenda e suo malgrado Parodi non riusciva a vincere la curiosità di saperne di più.

    «Vice?», ripeté. «Che avrà voluto intendere la Monaci quando ha detto che è stata la lettera ad ammazzare Lipari?»

    «Deve essere il marchio di famiglia. Se ne vanno, e la loro ultima parola è quella maledetta lettera bianca», rispose Perticone, riemergendo dalla palude nebbiosa dei suoi pensieri.

    «Il marito non lo possiamo più interrogare, ma lei…». Parodi fu il primo a sorprendersi di quello che aveva appena proposto. Non sapeva nemmeno lui cosa lo avesse spinto a esporsi a quel modo.

    «In realtà ci pagano per far parlare i morti. Non te l’hanno insegnato ai corsi?»

    «Però quella donna è viva…».

    «E vegeta, altro che. Ma hai sentito il suo avvocato? Quello è culo e camicia con il questore, giocano a tennis in doppio tutti i fine settimana, eccetto quando vanno allo stadio, a sciare o al mare insieme. Vuoi correre il rischio di una sanzione disciplinare? Può scapparci anche una sospensione», lo avvertì Perticone, ma con scarsa convinzione. Pareva soltanto che stesse rammentando, magari a se stesso, i rischi che avrebbero corso a insistere.

    «Non mi sembri il genere di persona che si fa di questi problemi…».

    Perticone lo guardò in faccia: era la prima volta che gli dava del tu. Lo giudicò un buon segno e un motivo sufficiente per non trattarlo con eccessiva durezza. «È la terza volta che lasci la frase in sospeso, Parodi. Hai finito di parlare per allusioni? Sbaglio, o quella donna ti ha stregato?»

    «Diciamo che non mi dispiacerebbe rivederla».

    «Te lo combino io l’appuntamento. Domani mattina al funerale del marito. Vai in borghese, mi raccomando. E se riesci per caso a staccarle gli occhi di dosso per qualche minuto, prova a studiare gli altri convenuti. Guarda come si comportano i famigliari del Lipari, se l’aggrediscono, anche verbalmente. Registra tutto, anche semplici occhiate di risentimento o lamentele a mezza voce».

    «Ma ha detto poco fa che i capi…».

    «Ti copro io con i capi», lo bloccò Perticone. Il ritorno al lei lo aveva ferito. «E deciditi una buona volta: o mi dai del tu o del lei».

    «Le farò, voglio dire… ti farò una relazione dettagliata».

    «In cambio ti do un consiglio: domani mattina rifatti gli occhi un’ultima volta e poi dimenticala. Dammi retta: quella è una donna da cui è meglio stare alla larga».

    Parodi si schiarì la voce, a disagio. «Be’, capisco che il comportamento della Monaci è per così dire insolito, ma avrà avuto i suoi motivi. Ne sono sicuro. In fondo aveva rotto con il marito e…».

    «Non te l’hanno detto che le scuse sono come il buco del culo? Tutti ne abbiamo una».

    Parodi non si arrese. «Secondo me non è una cattiva persona».

    «Non ne esistono di buone».

    Mentre scendeva al bar, Perticone chiamò la figlia al cellulare. Era la quarta o quinta volta che ci provava dal mattino. In genere Federica rispondeva ogni dieci tentativi, purché distribuiti in un arco temporale di almeno due o tre giorni, e comunque mai più di una volta a settimana. Non richiamava mai.

    Quando scattò

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