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Il marchio perduto del templare
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E-book275 pagine4 ore

Il marchio perduto del templare

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Il libro segreto della profezia
Un grande romanzo

Nella Roma medioevale di Innocenzo III, una città in piena decadenza vessata dal malaffare e dal crimine, sei cavalieri templari, che durante la prigionia in Terra Santa hanno votato l’anima al diavolo, sono pronti a sacrificare due piccoli gemelli e a scatenare l’Apocalisse. Il loro capo, Lucifuge, ha bisogno di un antico libro, la Clavicula Salomonis, per compiere la cerimonia finale. Uno dei templari, Shane de Rue, ha però rubato e nascosto il prezioso grimorio, tradendo i suoi compagni e privandosi poi dei propri ricordi per impedire a chiunque di ritrovarlo. Ma le immagini di una battaglia cruenta in Terra Santa continuano a tormentarlo, come una maledizione. Solo Lilith, una strega dai poteri straordinari, potrebbe liberarlo dall’anatema che lo ha colpito: parola di Don Graziano, un prete che ha chiesto l’aiuto di Shane per fermare l’uccisione dei gemelli. Quando i due si recano al Colosseo per incontrare la donna, ecco che Lucifuge li sorprende…

Sei templari, sei assassini, sei demoni: 666 
L’Apocalisse è solo questione di giorni
Un romanzo che vi farà rivivere l’azione l’avventura e le atmosfere dark di Assassin’s Creed
Giuliano Scavuzzo
È nato a Roma nel 1976. Dopo la laurea in Economia, ha ottenuto un Master in Business Administration con specializzazione in comunicazione e marketing. Per anni ha lavorato in questi settori, finché non ha deciso di trasferirsi a Bali per alcuni mesi, e lì, tra meditazione e surf, ha cominciato a scrivere un romanzo ambientato nella Roma medioevale. Collabora con diversi blog occupandosi di cultura, sport e medicina.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2016
ISBN9788822702791
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    Anteprima del libro

    Il marchio perduto del templare - Giuliano Scavuzzo

    PRIMA PARTE

    Capitolo 1

    Chiuse il mantello per celare la tonaca, strinse saldamente il consunto bastone da viaggio che portava con sé da molti anni ed entrò nella taverna. Fu investito da un tanfo di sudore che si propagava dai gruppi di avventori, legnaioli, maestri di pietra, uomini impolverati dalle mani forti e avvizzite, intenti a rifocillarsi dopo una giornata di lavoro. Don Graziano conosceva bene quel mestiere, in passato aveva partecipato alla costruzione di decine di avamposti militari, spaccandosi la schiena da quando il sole sorgeva sino all’imbrunire. Sapeva perfettamente che i bassifondi romani non erano il luogo più sicuro per un prelato. Da quando Innocenzo iii era salito al soglio pontificio erano iniziati molteplici tumulti tra le famiglie nobili romane e il popolo. Fino a quel momento la Chiesa era rimasta neutrale, ma con l’ascesa al potere del nuovo papa la politica era cambiata. Si vociferava che Innocenzo iii mirasse ad estenderne il potere temporale.

    Roma aveva perso la magnificenza del passato, era una città moribonda, a causa, così si diceva, delle fazioni che vi si scontravano. L’Urbe era ormai in rovina, povera di denaro e disprezzata dal pontefice e dai sovrani. Ma la Città Eterna, pur nella desolazione, rimaneva meta ambita per tutti coloro che desideravano assurgere ai più alti livelli della cristianità.

    Don Graziano si era trasferito dalla Spagna da circa dieci anni. Si era subito innamorato di questa città ricca di contraddizioni, simbolo del potere di un impero del passato, ma anche epicentro della religione cristiana. Lo aveva colpito il privilegio di essere romani, l’orgoglio di questi uomini nati sotto il segno della lupa. Roma era amata e rispettata in tutto il mondo cristiano, ma stranamente i suoi abitanti non godevano dello stesso rispetto. Nei suoi pellegrinaggi aveva sentito parlar male dei romani, della loro boria, dell’immoralità, della rissosità. Ma gli abitanti dell’Urbe, consapevoli del loro passato, della loro storia, sembravano non dare eccessivo peso alle critiche che giungevano loro da ogni parte.

    Osservò attentamente tra i lunghi tavolacci e gli sgabelli sparpagliati nella sala grande. Passò accanto a degli ubriaconi che ingurgitavano vino speziato senza neanche guardarsi intorno e si diresse verso il bancone in castagno. Dietro cataste di bicchieri in legno armeggiava un uomo robusto; alle sue spalle, un armario in legno di larice stipato di formaggi e carne secca.

    «Claustrum sine armario est quasi castrum sine armamentario».

    «Che diavolo stai blaterando? Sei forse un prete?».

    Senza neanche rendersene conto Don Graziano aveva ripetuto un vecchio proverbio benedettino, suscitando la curiosità indignata di un avventore.

    «Credi che un prete avrebbe il coraggio di mischiarsi con gente pericolosa come noi?»

    «E chi ti dice che io sia pericoloso?»

    «Non è importante che tu lo sia, lo sono io per entrambi».

    Don Graziano si allontanò di qualche passo e finalmente li vide: dei farabutti che giocavano alla Zara. Le poche informazioni che gli erano state fornite parlavano di quella taverna e facevano riferimento alla parola araba Az-zahr, azzardo, dalla quale aveva preso il nome quel gioco.

    Si diresse al tavolo da gioco e sedette su uno sgabello malandato. I giocatori si girarono per osservarlo, ma subito ripresero a puntare e a lanciare i tre dadi. A turno sfidarono la stessa persona, un uomo magro dall’aria furba. E a turno persero tutte le monete che avevano, prima di scomparire nella confusione della sala.

    «Hai intenzione di puntare o sei qui per offrirmi da bere?».

    Don Graziano infilò una mano tra le pieghe del mantello e lasciò cadere sul tavolaccio alcune monete.

    «Azar».

    Era il segnale che indicava l’inizio. I dadi furono lanciati più volte, si scontrarono e rotolarono senza sosta; durante la partita nessuno si avvicinò, come se l’uomo avesse fatto intendere che dovevano essere lasciati in pace.

    «Ho bisogno di trovare una persona, mi è stato riferito che dimora qui», azzardò il prete.

    L’altro sembrava concentrato nella scelta dei numeri. Attese qualche momento, infine disse: «Questo è un onesto tavolo da gioco, dove puoi vincere o perdere, tutto dipende dal fato. Sapevi che in alcuni paesi questi pezzi d’osso vengono usati per divinare il futuro? Ma noi siamo cristiani, non crediamo a queste fandonie. È nostro Signore con la sua benevolenza che sceglie chi otterrà una giusta vincita o chi dovrà fare ammenda. È strano come i dadi siano proprio tre… se si volesse essere blasfemi, si potrebbero paragonare alla Santa Trinità, non credi?»

    «Oppure sono solo semplici pezzi di osso di pecora su cui sono stati segnati dei numeri. E ogni numero ha un suo significato».

    E così dicendo girò i dadi tutti con lo stesso numero rivolto verso l’alto, il sei. Il giocatore, come se avesse vinto l’ennesima partita a Zara, sorrise compiaciuto, prese le monete che Don Graziano aveva di fronte a sé e gli sussurrò le informazioni di cui aveva bisogno.

    *  *  *

    …dopo la prima carica della cavalleria dell’Ordine la formazione della fanteria degli infedeli era ormai andata in rotta. La vista di duecento cavalieri in armatura di maglia con lance e scudi era sufficiente per far fuggire un’intera guarnigione. Il frastuono dei cavalli bardati era assordante, la terra tremava. Alcuni dei nemici tentavano di difendersi in piccoli gruppi, si riunivano sotto i pochi stendardi ancora in vista sul campo di battaglia>. Loro avevano il privilegio di morire con onore, guardando negli occhi la furia dei cavalieri dell’Ordine. I soldati cristiani non si fermavano di fronte a nulla, neanche alla resa dei nemici sconfitti. Come in uno stato di mistica esaltazione non arrestarono la loro forza che davanti al cadavere dell’ultimo degli infedeli. Dall’alto del suo cavallo da guerra Shane de Rue poteva osservare ogni movimento dei suoi fratelli in arme. Presto avrebbero liberato il sepolcro di Cristo, la Terra Santa doveva tornare alla cristianità…

    L’assassino si svegliò improvvisamente. Erano ormai troppi anni che faceva sogni simili, dannato il suo potere, avrebbe desiderato non aver mai visto attraverso gli occhi di altre persone.

    Nella piccola stanza dell’osteria c’era odore di vino, il chiasso che proveniva dalla sala principale gli faceva aumentare il mal di testa. Si mise a sedere sul giaciglio, afferrò da una sedia i suoi abiti e si vestì, indossando per ultimo il corpetto di cuoio rigido con bracciali e schinieri. Non era di certo una delle fini armature in metallo che spesso sognava, ma per le strade di Roma era sufficiente a bloccare il fendente di una lama piccola o il colpo di un randello. Si legò in vita la cintura per le armi: due lunghi pugnali, dalla lama insolitamente nera. Non rammentava come fossero finiti in suo possesso.

    Alcuni pezzi della sua vita erano come tessere di un mosaico che ancora doveva prendere forma. Forse era per questo che aveva preso a bere sempre di più, sino all’oblio. Non riusciva neanche a rammentare come fosse iniziata la sua carriera di assassino. O dove avesse imparato l’arte della guerra. Nei vicoli di Roma nessuno era capace di tenergli testa; del resto, erano pochi ormai quelli che si azzardavano a provarci. Nei momenti in cui era lucido si era fatto un’idea di quale fosse la causa di tutti i suoi tormenti: stregoneria. Roma era piena di eretici che conoscevano la magia. Uomini e donne che si votavano al male in cambio di potere e ricchezza. La Chiesa li contrastava con mezzi sempre più mirati, lo stesso Innocenzo iii aveva istituito un nuovo strumento: la Santa Inquisizione. Per le strade circolavano terrificanti racconti sui procedimenti usati da questo mistico tribunale. Si narrava di interrogatori feroci, di torture e ricatti; per salvare l’anima si doveva mortificare il corpo.

    L’assassino era convinto che una fattucchiera o una creatura demoniaca lo avesse maledetto, facendogli perdere parte della memoria e forse anche del suo buon cuore. Inoltre aveva ricevuto una seconda maledizione: vedere attraverso gli occhi di chi toccava. Quelle visioni di battaglie in Terra Santa erano sicuramente la memoria di qualcuno che aveva fatto parte dell’Ordine. Fortunatamente era ormai capace di controllare quasi del tutto il suo potere. Toccare altre persone non gli procurava più delle visioni, a meno che lui stesso non lo desiderasse.

    Quasi le cinque del pomeriggio. Le strade della città erano illuminate solo dalle fiaccole: era ora di andare a caccia.

    *  *  *

    Tre coppie di gemelli, un maschio e una femmina, tutti nati nello stesso anno. Il triplice cammino del male, con il loro sangue puro e la loro sofferenza sveglierai i sei Generali dell’inferno. Ti obbediranno come fanno con lo stesso Lucifero e il mondo cadrà sotto il tuo volere.

    Nel suo nascondiglio Lucifuge rileggeva le antiche pergamene provenienti dal Medio Oriente. Due coppie erano già state sacrificate, mancava l’ultima. I due bambini piangevano e singhiozzavano nelle loro prigioni. Li aveva divisi, per spaventarli ulteriormente, e incatenati mani e piedi. Voleva essere sicuro che non potessero fuggire. Nelle orecchie gli risuonavano le urla della sera prima, nelle narici ancora assaporava l’odore intenso della carne bruciata e del sangue. I primi due riti erano i più dolorosi e gli procuravano un gran piacere, ma era il terzo il più terrificante: non credeva che potesse esistere nulla di più disumano. Anche se poi si era reso conto che non era disumano, bensì diabolico.

    Catturare le prime due coppie non era stato un problema, erano figli di contadini e semplici commercianti: gente povera. La guardia cittadina aveva solo fatto qualche domanda, niente di più. Ma quella stessa notte aveva dovuto rischiare entrando nella villa di una famiglia nobile di Roma per rapire le sue ambite prede.

    *  *  *

    Don Graziano salì le scale della taverna che lo portarono alle stanze. Nella destra stringeva saldamente il bastone da passeggio – una buona arma per difendersi –, nella sinistra teneva un vecchio crocifisso di ferro. Era un oggetto molto rozzo e grossolano, la figura del Cristo sofferente era appena delineata, non traspariva la grande pena che sempre si vede nelle raffigurazioni della morte di Gesù. Probabilmente era proprio questo il motivo per cui il prete lo aveva scelto, acquistandolo per un pezzo di pane da un mendicante nelle strade di Parigi. Non amava immaginare di dover pregare il proprio Dio per la sofferenza che l’uomo aveva causato al suo amato figlio sceso in Terra. Se l’Inquisizione lo avesse sentito ragionare in quel modo sarebbe incappato in grossi guai. Ma non se ne preoccupava più di tanto. Doveva trovare il più grande assassino che avesse mai battuto le strade di Roma. Un peccatore per salvare due innocenti.

    Si bloccò di fronte alla stanza indicatagli, inspirò profondamente e colpì la porta col bastone. Aspettò alcuni secondi, ma dall’altra parte non udì alcun rumore. Colpì il legno con più vigore, sperando che l’uomo non fosse già andato via. Ancora silenzio. Aprì lentamente la porta e scivolò all’interno. La poca luce proveniente dalla strada e dal corridoio gli permise di intravedere un letto sfatto e una brace che ancora crepitava nel camino. La stanza era piccola, pervasa da un forte odore di chiuso e vino. C’erano anche una sedia con pochi vestiti sopra buttati in modo disordinato e un armadio in legno con le ante che non si chiudevano più a causa dell’umidità che lo aveva deformato.

    Sentì una sensazione di gelo, sottile e affilata come una lama, che gli premeva sulla gola. Da sotto un cappuccio nero balenarono per un solo istante due occhi chiari.

    «Cosa diavolo vuoi, prete? Il bordello è dall’altra parte della strada. Qui troverai solo dannazione e morte».

    Da dove era comparso quel demone? Don Graziano aveva controllato tutta la stanza, era sicuro che fosse vuota. Strinse tra le mani, con forza, il crocifisso e per un attimo gli si spalancarono gli occhi. Serrò le labbra come per reprimere un urlo. Era dall’ultima Crociata che non provava una sensazione simile. Com’era riuscito quel tagliagole a spaventare con tanta facilità un esperto guerriero di mille battaglie?

    Deglutì e disse: «Abbassa l’arma, non sono qui per farti nulla, né per cercare conforto in una meretrice».

    «Non mi interessa cosa sei venuto a fare, sono solo curioso di sapere il nome della mia prossima vittima».

    E nel dire questo gli strinse la lama alla gola, quasi al punto di ferirlo. Don Graziano non si scompose, aveva recuperato la sua sicurezza, era lì per una missione ben precisa che valeva più della sua stessa vita.

    «Voglio offrirti un lavoro ben retribuito».

    «Non ho bisogno di soldi», replicò l’altro, facendo tintinnare una sacchetta piena di monete di fronte al volto paonazzo dell’altro.

    «Non avrai soltanto denaro, ma qualcosa che vale molto di più».

    «E cosa vale più del denaro?».

    Il prete rimase immobile, incerto se svelare il segreto. Fece un profondo respiro e disse: «Sarai liberato dalla tua maledizione!».

    La fiamma negli occhi seminascosti dal cappuccio si accese di nuovo. L’assassino strinse la morsa sul collo del prete: «Tu non sai di cosa stai parlando!». In uno scatto di rabbia avvicinò gli occhi a quelli dell’altro. «Parli di maledizioni e di un lavoro con tanta, troppa facilità. Non hai idea di cosa si provi e a quali incredibili incubi e visioni io sia costretto ogni giorno della mia dannata esistenza».

    E in un attimo fu di nuovo silenzio. Aveva sognato o lo aveva incontrato veramente? Don Graziano si guardò intorno scrutando la stanza, ma non c’era traccia di nessuno: aveva fallito.

    Il giocatore della Zara si meravigliò di vedere il prete uscire incolume dall’osteria. Scrollò le spalle, pensando che fosse meglio farsi gli affari suoi. Se era ancora vivo lo doveva al fatto di non essersi mai interessato a quello che faceva l’Ombra.

    Il freddo della notte costrinse Don Graziano a stringersi nelle vesti e nel logoro mantello. Si incamminò con un fardello troppo pesante: la morte di due innocenti e la dannazione di un’anima che non era riuscito a salvare. Preso dallo sconforto non ebbe le stesse precauzioni di qualche ora prima, non nascose l’abito sacro alla vista, non si spostò con cautela per non essere notato. Le strade erano gelide e deserte, il vento sferzava violento. La luna illuminava leggermente i tetti delle case, ma non riusciva a penetrare il buio dei vicoli più nascosti e pericolosi. In alto si stagliavano le torri di Roma, oscure lingue di pietra in cui nobili e uomini di Chiesa potevano non solo difendersi, ma osservare e controllare l’intera città. Secondo molti erano quasi mille, palazzi fortificati e tesorerie delle famiglie, che si scannavano per avere il dominio dell’Urbe, il potere sulla cristianità.

    Il bandito sfoderò il coltello arrugginito mentre uno dei suoi compari si preparò a spingere la preda nel vicolo. Appena fu a tiro, Don Graziano venne ricacciato in una piccola stradina deserta; cadendo gli sfuggì il bastone. Come tentò di raccoglierlo, un calcio lo colpì in pieno stomaco sollevandolo da terra. Era stata una bordata degna di un cavallo: quale uomo poteva avere così tanta forza? Senza respiro, tentò di alzarsi e fuggire. Ma non appena si mise sulle ginocchia, un pugno lo colpì in pieno volto ributtandolo giù.

    «Sono sicuro che ha delle monete d’argento, controlla, sbrigati, canaglia!».

    Don Graziano capì che se voleva uscirne vivo, almeno per il momento non doveva opporre resistenza. Si lasciò perquisire da uno dei banditi, che a un tratto arrivò alla sacca di monete nascosta nel mantello.

    «Eccola!», sibilò trionfante. «Allora, vecchio, dammi tutto il resto».

    Il prete alzò lo sguardo e vide un ragazzo pelle e ossa. In una mano teneva il bottino, nell’altra un piccolo pugnale rovinato. Il viso lurido, pieno di lividi, incorniciato da pochi capelli rossi appiccicati sul cranio. Accanto, quello che probabilmente era il capo: un uomo enorme, come Don Graziano non ne aveva mai visti, con una pancia che strabordava da una vecchia casacca militare che scendeva sul petto fino ai pantaloni, coprendo un corpetto di cuoio finemente lavorato, anche se logoro e sporco. Sembrava un’armatura troppo importante per un semplice soldato della guardia cittadina. Tra le mani stringeva con rabbia un martello da guerra, talmente arrugginito da sembrare più uno strumento da lavoro che un’arma. Era quasi ridicolo nelle sue movenze, privo di qualsiasi grazia, eppure incuteva un certo timore. Non doveva essere un semplice bandito.

    Da un vicolo comparve il terzo uomo, probabilmente il palo. Alla sua vista il colosso sussultò: «Che stai facendo qui, idiota che non sei altro, torna a fare la guardia o sta arrivando qualcuno?». Un attimo di silenzio. «Allora, ti decidi a rispondere o ti devo spaccare la testa, dannato codardo?».

    Il complice continuò a camminare verso di loro, senza dire una sola parola; come gli arrivò a pochi passi, sotto la luce della luna, finalmente capirono perché non parlava.

    Don Graziano ebbe un sussulto di compassione per quella povera anima. I due banditi arretrarono, increduli. Il terzo lestofante continuava a muoversi verso di loro, coprendosi la gola con le mani, nel disperato tentativo di fermare l’emorragia che presto lo avrebbe ucciso. Ma non era la sola ferita che aveva subìto: trascinava una gamba, come se gli avessero reciso i tendini all’altezza del ginocchio. Gli mancava anche il pollice della mano destra, staccato di netto.

    Pochi passi ancora, poi cadde a terra.

    *  *  *

    E se quel prete non avesse mentito? Se avesse potuto veramente liberarlo dalla maledizione? Era troppo tempo che viveva in quel modo, nascondendosi alla legge e a Dio. Rivoleva la sua memoria, sapere chi era stato, da dove veniva. Per tutti era soltanto l’Ombra, senza nome, senza famiglia, senza passato. Il prete sapeva comunque qualcosa che lui doveva scoprire. Avrebbe potuto strappargli qualsiasi informazione con facilità, ma era consapevole che non fosse il metodo più opportuno. Conosci il tuo nemico. Il monito gli rimbombava nella mente, quasi sentisse un uomo ripeterlo in continuazione. Ma di chi era quella voce? Forse di suo padre, di un precettore, di un amico? La sentiva spesso e lo aiutava costantemente negli scontri fisici, nelle risse e negli agguati. Lo consigliava sulla strategia migliore da seguire, dove colpire l’avversario e gli indicava i punti di debolezza da sfruttare a suo vantaggio.

    Qualche minuto prima nella sua stanza aveva osservato bene gli occhi del prete, lo aveva toccato, e aveva visto. Non era stato in grado di controllare la maledizione che lo affliggeva e così era entrato nei ricordi dell’altro. Si trovava su un’antica torre della città, di notte, illuminata dalle torce impugnate da alcuni soldati della guardia cittadina. Gli uomini, incuranti, vagavano per le mura in cerca di indizi, o più probabilmente facevano finta, per non contrariare qualcuno. Al centro vi era un rogo quasi spento, appena qualche brace zampillava, morendo in fretta sotto la pioggia leggera. Poi li vide: abbracciati, legati tra di loro con delle catene, i corpi di due bambini ridotti a una manciata di ossa annerite. Non poteva essere stato il rogo, per quanto potente non sarebbe stato in grado di fondere quel tipo d’acciaio. S’avvicinò. Avrebbe voluto evitarlo, ma non poteva non rivedere quello che il prete aveva vissuto. Con la mano pulì dalla fuliggine il metallo, lo osservò da vicino, tentando di leggere gli intarsi e i simboli che recava incisi sopra. Li aveva già visti, non sapeva dove o quando, ma facevano parte del suo passato. Era sicuramente il lavoro di un esperto artigiano, come ce n’erano pochi ancora in vita nelle strade di Roma. Si fermò per un istante a osservare i teschi dei due bambini, e si rese conto che non dovevano avere più di nove, dieci anni, le bocche spalancate in un urlo di dolore. Quale mostro aveva fatto una cosa simile? Era arrivato alla conclusione che i gemelli fossero maschio e femmina. Probabilmente erano informazioni che aveva ottenuto grazie alla maledizione, che il chierico già conosceva.

    *  *  *

    Durante la caccia si era reso conto che il prete era stato seguito, e che presto sarebbe finito in una trappola. Sperava soltanto che fosse sopravvissuto il tempo sufficiente per mettere fuori gioco i banditi. Ne aveva individuati per ora soltanto due, di sicuro ce n’era almeno un altro.

    Si avvicinò al punto dell’aggressione. Don Graziano era a terra, mentre un tipo dai capelli rossicci lo perquisiva. Se lo avessero sentito arrivare, la loro vittima non avrebbe avuto speranza, lo avrebbero sgozzato e sarebbero fuggiti. Senza lasciare testimoni. La voce nella sua testa gli suggeriva di colpirli di sorpresa, anziché affrontarli a viso aperto. A cominciare dal bandito nascosto. Appostato sul tetto di una vecchia casa, osservò attentamente e scovò il terzo brigante. Il primo colpo che gli inferse fu alla schiena, all’altezza dei polmoni, per non farlo urlare. Con una delle due daghe lo ferì dietro il ginocchio. La vittima cadde su una gamba e d’istinto sfoderò una spada corta, che finì in terra insieme al pollice tranciato di netto. Scrutò gli occhi terrorizzati che guardavano il moncherino, la bocca spalancata nel tentativo di urlare. Non voleva ucciderlo, non ancora almeno. Gli serviva come esca. Lo colpì sotto il mento, un taglio profondo, ma non abbastanza da farlo morire all’istante.

    Il bandito dai capelli rossi arretrò alla vista del compare, riparandosi alle spalle del capo. Don Graziano aveva ripreso fiato e lucidità e il bastone era poco lontano, ma troppo per prenderlo prima di beccarsi una

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