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Sequenza 33
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E-book295 pagine3 ore

Sequenza 33

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Info su questo ebook

L’invenzione di due potenti macchine minaccia la storia e la sua evoluzione. Un conflitto atavico  tra religioni irrompe minacciando gravi conseguenze per tutto il genere umano. A Dino Cinelli, sacerdote cattolico, scosso dagli eventi che hanno profondamente turbato la sua vita, viene demandato il compito di portare a termine una missione senza ritorno. Dovrà, insieme ai suoi compagni di viaggio, sventare un attacco alla più grande figura religiosa cristiana che l’umanità abbia mai conosciuto.
Un viaggio affascinante e a tratti commovente nella storia dell’Uomo Redentore dell’umanità.

Salvatore Smiraglia nasce nel 1969 a Scicli, sito barocco nel ragusano. Sin da piccolo, è stato sempre attratto dall’arte in tutte le sue forme e soprattutto da quella musicale, dove si forma conseguendo la laurea in clarinetto presso il conservatorio V. Bellini di Catania. Trasferitosi nel ‘98 in Toscana, sposta il fulcro del suo interesse artistico verso la lettura ed inizia a cimentarsi nella stesura di versi poetici. Approda quindi alla scrittura di piccoli racconti, con la volontà di intraprendere il viaggio nel mondo della “scrittura creativa”. Su preziosi consigli di amici, viene invitato a scrivere la sua prima opera letteraria. Lavora da tempo ad altre idee a cui a breve darà luce.
LinguaItaliano
Data di uscita31 gen 2023
ISBN9788830676145
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    Sequenza 33 - Salvatore Smiraglia

    Nuove Voci

    Prefazione di Barbara Alberti

    Il prof. Robin Ian Dunbar, antropologo inglese, si è scomodato a fare una ricerca su quanti amici possa davvero contare un essere umano. Il numero è risultato molto molto limitato. Ma il professore ha dimenticato i libri, limitati solo dalla durata della vita umana.

    È lui l’unico amante, il libro. L’unico confidente che non tradisce, né abbandona. Mi disse un amico, lettore instancabile: Avrò tutte le vite che riuscirò a leggere. Sarò tutti i personaggi che vorrò essere.

    Il libro offre due beni contrastanti, che in esso si fondono: ci trovi te stesso e insieme una tregua dall’identità. Meglio di tutti l’ha detto Emily Dickinson nei suoi versi più famosi

    Non esiste un vascello come un libro

    per portarci in terre lontane

    né corsieri come una pagina

    di poesia che s’impenna.

    Questa traversata la può fare anche un povero,

    tanto è frugale il carro dell’anima

    (Trad. Ginevra Bompiani).

    A volte, in preda a sentimenti non condivisi ti chiedi se sei pazzo, trovi futili e colpevoli le tue visioni che non assurgono alla dignità di fatto, e non osi confessarle a nessuno, tanto ti sembrano assurde.

    Ma un giorno puoi ritrovarle in un romanzo. Qualcun altro si è confessato per te, magari in un tempo lontano. Solo, a tu per tu con la pagina, hai il diritto di essere totale. Il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà. È la traduzione di un sogno.

    Ai miei tempi, da adolescenti eravamo costretti a leggere di nascosto, per la maggior parte i libri di casa erano severamente vietati ai ragazzi. Shakespeare per primo, perfino Fogazzaro era sospetto, Ovidio poi da punizione corporale. Erano permessi solo Collodi, Lo Struwwelpeter, il London canino e le vite dei santi.

    Una vigilia di Natale mio cugino fu beccato in soffitta, rintanato a leggere in segreto il più proibito fra i proibiti, L’amante di lady Chatterley. Con ignominia fu escluso dai regali e dal cenone. Lo incontrai in corridoio per nulla mortificato, anzi tutto spavaldo, e un po’ più grosso del solito. Aprì la giacca, dentro aveva nascosto i 4 volumi di Guerra e pace, e mi disse: ‘Che me ne frega, a me del cenone. Io, quest’anno, faccio il Natale dai Rostov’.

    Sono amici pazienti, i libri, ci aspettano in piedi, di schiena negli scaffali tutta la vita, sono capaci di aspettare all’infinito che tu li prenda in mano. Ognuno di noi ama i suoi scrittori come parenti, ma anche alcuni traduttori, o autori di prefazioni che ci iniziano al mistero di un’altra lingua, di un altro mondo.

    Certe voci ci definiscono quanto quelle con cui parliamo ogni giorno, se non di più. E non ci bastano mai. Quando se ne aggiungono altre è un dono inatteso da non lasciarsi sfuggire.

    Questo è l’animo col quale Albatros ci offre la sua collana Nuove voci, una selezione di nuovi autori italiani, punto di riferimento per il lettore navigante, un braccio legato all’albero maestro per via delle sirene, l’altro sopra gli occhi a godersi la vastità dell’orizzonte. L’editore, che è l’artefice del viaggio, vi propone la collana di scrittori emergenti più premiata dell’editoria italiana. E se non credete ai premi potete credere ai lettori, grazie ai quali la collana è fra le più vendute. Nel mare delle parole scritte per esser lette, ci incontreremo di nuovo con altri ricordi, altre rotte. Altre voci, altre stanze.

    CAPITOLO I

    Il ka32 dotato di rotore di coda md 500, particolarmente silenzioso e di colore nero, volava tra le gole dell’Aragatsotn in Armenia.

    Si udiva solo un lieve fruscio.

    Decollato segretamente da Aparan, dirigeva verso l’obiettivo prefissato.

    Al suo interno l’aria era tesa, si attendeva da un momento all’altro la comunicazione di essere vicini al punto X e l’impazienza si mischiava alla determinazione.

    L’elicottero era instabile.

    Il controllo risultava molto difficile, specie all’ingresso nelle gole, dove correnti ascensionali contrastavano con flussi ventosi intensi e il rischio di finire con le eliche sulle rocce diventava sempre più reale, ma era l’unico modo per non essere intercettati da radar e altri strumenti di localizzazione.

    Il portello fu aperto e il canapo scese quasi fino a terra. Il primo poi il secondo e alla fine il terzo uomo, imbracati a dovere, discesero veloci come topi del deserto. Silenziosi e furtivi. Avvolti in abiti neri di fattura medio orientale, pulsanti di fuoco, gridarono insieme Allah Akbar.

    Ebbe inizio la ripida salita del costone favoriti dall’oscurità.

    I tre, che procedevano veloci e attenti ad ogni rumore, attraversarono una radura per addentrarsi fino alle rocce che preannunciavano la scalata dell’erto versante ovest privo di difese.

    Non si scambiarono alcuna parola.

    Attraversato il canale che separava le rupi, indicando la via con un cenno, il primo uomo salì sullo sperone di pietra adiacente e iniziò la scalata seguito dagli altri due, che, procedendo a destra e a sinistra, cercavano appigli possibili. Non era facile, ma la loro preparazione era assoluta, pari alla dedizione per l’opera che Allah aveva scelto per loro.

    Non un gesto di rinuncia, non un cenno di affanno, niente che potesse minare la loro coscienza.

    Anche il sudore e la fatica erano Fede.

    La prima parete che aveva una pendenza all’85% circa, un appoggio dopo l’altro, stava diventando loro. Finita quest’ultima, iniziarono con lo strapiombo: cento metri di roccia verticale, dove la difficoltà era dettata dalla pendenza al 100% e dall’umidità della pietra che rendeva viscida ogni presa.

    La cima era vicina, quando il terzo uomo perse l’appoggio scivolando nel vuoto, ma la mano forte del compagno di mezzo riuscì a fermarne la caduta riportandolo alla roccia, e, ripresosi dopo un momento di sosta, proseguì fino a completare la perigliosa scalata verso Dio.

    Una rete metallica rinforzata da filo spinato, vicino al bordo del costone, circondava tutto il perimetro, così, prelevata una cesoia dallo zaino, iniziò svelto e deciso a tagliare i vari intrecci della recinzione prossimi al terreno.

    Fu poi la volta del filo spinato.

    Era formato da tre strati di fil di ferro e un quarto d’acciaio, difficile da tagliare.

    Decisero di non staccare il filo ma l’aggancio al terreno, senza far rumore, per poter passare sotto uno dopo l’altro.

    Erano riusciti ad entrare nella base.

    Il cartello russo sbiadito dalle intemperie ‘Площадь России военные не пройти› annunciava che si trovavano in un’area militare in cui era vietato l’ingresso a chiunque.

    Era stato messo solo per disposizioni, ma nessuno era di guardia a quell’avamposto, dato che era quasi impossibile accedere da quella zona e poi il mondo ignorava l’esistenza di quell’area segreta.

    Notarono, superata la zona perimetrale, che i fari sulle torri di vedetta iniziavano a spostarsi in modo automatico verso loro, e, con fare furtivo, si diressero verso una roccia adiacente alla seconda linea delimitata da altrettanta rete e filo spinato.

    Stavolta tranciare e passare fu più semplice… non c’era il baratro sotto, non serviva sostenersi con una mano e operare con l’altra.

    Il cavetto d’acciaio cedette alle loro cesoie, non prima di aver collegato con un filo di rame il circuito all’altro capo facendo in modo che nessun allarme potesse attivarsi.

    Si diressero trasversalmente alla loro posizione, passata l’altra barriera, verso l’accesso della base dove due uomini di guardia fumavano sotto un faretto di illuminazione dell’ingresso.

    Strisciando fino ad arrivare parallelamente all’entrata, appiattendosi alla parete rocciosa vicino all’apertura, il primo militare veniva silenziosamente eliminato con un colpo secco al collo e il cadavere riposto dietro il gabbiotto, mentre, con un baleno sotto la luce, una lama colpiva la gola del secondo uomo, che, accortosi dell’assenza del suo collega, voleva dare l’allarme.

    Né un grido né un rumore avevano compromesso l’azione.

    Restava il problema della telecamera.

    Il terzo uomo si avvicinò da sotto, staccò i fili e la rese inattiva.

    Impostato il codice di ingresso, mentre il capo amputava la mano di uno dei militari uccisi, uno dei due uomini aprì lo sportellino dove il rilevatore di impronte digitali diventò verde appena appoggiato l’indice dell’arto reciso.

    Azionarono il dispositivo dell’apertura.

    La porta a scomparsa, un muro invalicabile d’acciaio e d’altro metallo di 17 centimetri, si aprì sotto gli occhi dei tre islamici.

    Varcarono l’ingresso della base russa.

    Un corridoio di luci a led fredde e glaciali si spalancava davanti a loro.

    Le videocamere di sorveglianza erano disattivate.

    Il loro movimento era come un cobra silenzioso e dal morso velenoso.

    Ebbero la fondata certezza, quando al loro passaggio nessun sistema di allarme si attivò, che il loro uomo aveva fatto quello che doveva fare.

    Proseguirono fino a trovare una nuova porta d’ingresso.

    Un ascensore era prossimo ad arrivare al loro piano. Trovarono un nascondiglio nel corridoio successivo e attesero che il piccolo drappello militare si dirigesse verso una sala adiacente.

    La via era libera.

    Guardando il display notarono che occorreva una chiave numerica che non avevano.

    Confidando nell’Altissimo ripiegarono per la scala, anche se il percorso era molto rischioso, quindi armarono le pistole corredandole di silenziatore.

    Avevano ben chiaro dove e quale fosse l’obiettivo. Conoscevano a memoria la pianta dell’intera base, occorreva muoversi velocemente ed eliminare chi fosse ostile alle loro intenzioni.

    Svoltarono a sinistra immettendosi in un altro corridoio, sovrastato dalla linea di aereazione con relative bocche ogni 6 metri. Era proprio l’impianto che li avrebbe portati alla scala antincendio, quindi ai piani inferiori. Esitarono. Le scritte erano in russo, incomprensibili per chi aveva imparato a leggere l’arabo solamente studiando il Corano: unico e solo Verbo, Fonte della Conoscenza, Divino insegnamento della Via della Dottrina.

    Si immisero nel penultimo corridoio.

    Il condotto di aereazione faceva un angolo a 45° e si inabissava nel muro.

    L’ipotesi più plausibile era che l’ingresso successivo fosse la scala antincendio, e, aprendo la porta, un impatto d’aria paventò un camino tanto che la differenza di temperatura e di ventilazione dette l’esatta certezza che la via era quella giusta.

    Iniziarono a scendere portandosi al livello inferiore. Dodici i livelli da superare e varie porte ai lati da dover oltrepassare prima di giungere alla sala obiettivo.

    I primi tre piani furono semplici alla discesa, si intravedeva di fronte alla rampa una roccia quasi a testimoniare che la scala era stata scavata e che una cavità naturale aveva dato il posto alla struttura in acciaio.

    Gli occhi dei tre, mentre scendevano, balenavano della luce folgorante della verità e della vittoria.

    La missione era stata affidata loro dopo mesi di selezione e preghiere. Centinaia di candidati erano stati esaminati, sentiti, osservati, e, infine, Allah aveva scelto loro. Avevano ora il privilegio di cadere come credenti o l’onore di portare a termine l’impresa. Avrebbero scritto la nuova storia. Decisi e determinati più di tutti non potevano fallire, l’Altissimo era dalla loro parte. Lui lo voleva. Loro, umili guerrieri, erano Suoi semplici strumenti.

    «Combatti dunque per la causa di Allah – sei responsabile solo di te stesso – e incoraggia i credenti. Forse Allah fermerà l’acrimonia dei miscredenti. Allah è più temibile nella sua acrimonia, è più temibile nel suo castigo». (٤, ٨٤)

    La discesa era rapida e costante, nessuno dei tre rallentava.

    Al quarto livello, in prossimità della porta, videro che questa si stava leggermente muovendo. Dalla loro rampa scorsero al piano inferiore due militari intenti a parlare. Riuscirono, schiacciandosi sul pianerottolo, a non essere visti, e, solo quando furono usciti, scesero al secondo livello. Uscendo dalla porta, iniziarono nuovamente la discesa fino al primo piano e poi al livello zero.

    Rumori di macchinari giungevano ai loro sensi e al loro cuore.

    Oltre la nuova porta trovarono un corridoio simile agli altri già visitati. Nulla ora era in grado di suggerire la strada da poter intraprendere, se non la loro memoria e il senso di orientamento che negli anni avevano affinato.

    Scelsero di andare verso sinistra per seguire quel corridoio che doveva essere circa 300 metri per poi deviare a destra e nuovamente a sinistra.

    Quello era l’unico indizio che avrebbe dato la certezza che la strada era esatta.

    Ma era la via giusta?

    Trovarono delle telecamere con lucine rosse ad intermittenza e rilevatori di presenza, nessun allarme. Conoscevano molti segreti di quella base.

    Era stato semplice convincere gente corrotta e amorale a fornire informazioni segrete. Il prezzo lo avevano fatto loro. I sostenitori di quella missione non avevano problemi di denaro: il petrolio aveva sempre pagato tutto e tutti.

    La ricompensa di coloro che fanno la guerra ad Allah e al suo Messaggero e che seminano la corruzione sulla terra è che siano uccisi o crocifissi (5, 33)

    Presero la prima deviazione del corridoio e subito dopo la seconda, capirono che la buona sorte era con loro: la strada era giusta.

    Continuarono ad andare avanti e trovarono la porta che dava sul corridoio successivo, ma, appena entrarono, alcuni soldati li videro ed aprirono il fuoco.

    Allah Akbar!

    La porta fu richiusa nuovamente mentre uno dei militari del drappello si diresse verso un pulsante coperto dal vetro, ruppe il cristallo e le rauche sirene dell’allarme iniziarono a suonare.

    I soldati trovarono dei ripari, ma uno degli islamici rotolò agilmente dentro il corridoio e iniziò un conflitto serrato tra le due fazioni.

    Erano addestrati a colpire senza pietà, ad assassinare i nemici di Allah.

    Con destrezza l’islamico uccise i primi due militari, ferì il terzo gravemente e colpì il quarto leggermente, giusto il tempo per poterlo freddare da vicino e proseguire assieme agli altri per l’ultimo tratto del corridoio.

    L’allarme però era stato dato e in pochi minuti i militari russi sarebbero arrivati al livello zero.

    La corsa divenne estenuante.

    Il corridoio era lungo e a volte tortuoso, poi la grande porta rotonda apparve davanti a loro. Il loro uomo aveva trasmesso il codice di ingresso 4021 1216, lo avevano imparato a memoria, ma serviva anche la scansione del pollice del complice che avevano bypassato grazie ad un congegno messo di fronte al pannello.

    Un rumore metallico sbloccò la porta, e, con estrema lentezza, il pannello, anch’esso in acciaio, si aprì sotto gli occhi dei tre.

    Entrati dentro quella sala batterono il codice e richiusero la porta che tuonò dietro di loro. Digitarono un ulteriore codice di sicurezza per bloccare l’ingresso dall’esterno.

    L’ambiente che apparve fu sconvolgente.

    Una grotta di antichissime origini era colma delle più moderne tecnologie, la cubatura della caverna era immensa e a tratti si vedevano antiche spigolature della roccia non smussate da talpe meccaniche dove comparivano graffiti preistorici con colorate e meravigliose scene di caccia.

    Sulla destra videro un balcone tutto in acciaio dove erano inseriti diversi congegni e computer.

    Ai terminali c’erano due uomini in camice intenti a digitare sulle tastiere che, accortisi degli intrusi, ribaltarono un cassetto di vetro dove c’era un fungo rosso che fece accendere un lampeggiante sulla parete sopra la porta d’ingresso.

    Un proiettile raggiunse la tempia destra del tecnico che aveva azionato l’allarme.

    Uno dei fratelli islamici raggiunse la scala d’acciaio che portava al balcone della sezione comandi, e, con semplici gesti, ma senza parlare, intimò al superstite di alzare le mani facendo segno di porle dietro la nuca.

    Il secondo islamico si mise davanti a uno dei pc e digitò la password di ingresso, chiedendo sempre a gesti al tecnico di premere con l’indice sullo scanner per il riconoscimento delle impronte.

    L’uomo non obbedì.

    Il capo degli islamici, che si era messo al terminale, prese il coltello dentro la giacca e con un colpo secco gli tranciò di netto il polso inondando il pianale d’acciaio e il pavimento di sangue. Il malcapitato, stordito con un forte colpo in testa, perse i sensi.

    Il computer aprì la schermata grazie all’impronta giusta sul rilevatore.

    La procedura fu avviata.

    Era un processo molto complicato gestito con diverse chiavi criptate alfanumeriche a quattro cifre, erano state tutte acquisite a memoria e ad ogni steep andavano ripetute e aggiunte le successive con una variabile a numeri primi che dall’uno raggiungeva l’ottavo. Un errore di digitazione poteva pregiudicare tutta la sequenza, nessuno degli altri due islamici disse o toccò nulla per non distrarre il loro capo che era intento a digitare i codici.

    Prima 4 numeri e poi 1, seconda serie 3, terza serie 5 e così via…

    I numeri furono digitati in modo esatto, e, non appena venne digitato il 19, che era l’ottavo numero primo, i tre assistettero a qualcosa di inaspettato.

    Il pavimento sottostante si aprì sotto i loro occhi dividendosi a metà e una grossa botola di forma circolare iniziò a lasciare posto ad un’altra camera inferiore. Si sentì, appena entrambi i lembi arrivarono a toccare il perimetro, l’innesto di un montacarichi e lentamente una piastra di acciaio portò al piano una capsula.

    A prima vista aveva la forma di una punta perforante conica di enormi dimensioni, con oblò triangolari a circa due metri dal piano.

    La superficie dell’oggetto, a parte le fessure, era lucida di un color argento vivo, mentre la punta di forma conica era staccata dal resto della struttura e creava un contrasto con la forma sottostante.

    Non appena il montacarichi si mise al piano, uno scatto fece staccare dalla parete della capsula un invisibile pannello che con la parete sembrava un tutt’uno… era l’ingresso della navicella.

    Iniziò a digitare dei dati che risultarono illeggibili a parte il numero 3 e poi lo 0, poi tutto diventò indecifrabile. Dato l’invio sulla tastiera, si accese di fronte alla capsula un timer laser che da 30 iniziò il conto alla rovescia in minuti e secondi.

    Un ronzio misterioso, quasi musicale, pervase la grande sala schizzata di sangue.

    I tre scesero subito le scale tenendo con sé solo le lame, entrarono nella capsula dove in un ambiente bianco c’erano tre poltrone con le spalle alle pareti e uno schermo circolare al centro. Un monitor touch screen si accese mentre la porta di ingresso si chiudeva rapidamente. La porta si sigillò e uno sbuffo d’aria coprì il rumore sordo e meccanico della chiusura. Sotto il touch apparve una tastiera alfanumerica.

    Dopo aver allacciato le cinture che venivano implementate a X, il punto di incontro era pressappoco lo sterno, venne digitata l’altra serie di numeri.

    Uno scossone prima e una vibrazione continua dopo.

    Il conto alla rovescia iniziato fuori si sincronizzò con quello all’interno. Mancavano 11 minuti e 41 secondi alla fine del countdown e dagli oblò a forma di triangolo si iniziò a vedere che le pareti esterne alla capsula passavano una sopra l’altra in direzione inversa, prima con lentezza ma poi accelerando fino a quando la velocità fu talmente elevata che l’oblò ritornò ad essere vuoto tanto che le pareti di fuori non si riuscivano a vedere.

    Tutto tremava.

    A 48 secondi dalla fine un sibilo attraversò tutto l’interno della capsula, i suoni divennero non comprensibili, le figure dei tre fluttuavano in una strana forma distorta che aveva poco di umano.

    A

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