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L'isola dei delitti
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E-book362 pagine5 ore

L'isola dei delitti

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Info su questo ebook

«Un trionfo di tensione e immaginazione.»
Steve Berry, autore di La stanza segreta dello zar 

Un grande thriller

Jan si sveglia nell’oscurità più assoluta e si ritrova incatenata in una cella soffocante. È sola, spaventata, e tenta disperatamente di ricostruire ciò che è successo… Perché si trova lì? Chi può averla fatta prigioniera? Ricorda solo di aver raggiunto i suoi amici a Creta: l’obiettivo era trascorrere una vacanza all’insegna del relax, del mare e del sole, sulla stessa magica isola in cui si erano conosciuti cinque anni prima. Ma Jan ricorda molto bene il senso di inquietudine che ha provato e che non l’ha abbandonata per tutto il viaggio. Il fatto è che ha mentito su molte cose e nessuno dei suoi amici ha idea di chi lei sia veramente. Nemmeno Marcus, con cui ha avuto una relazione. E lei, invece, che cosa sa esattamente di loro? Adesso che la sua vita è in pericolo, non ha più nessuna certezza. E il terrore comincia a impadronirsi di lei quando si rende conto che il suo carceriere, come il leggendario Minotauro di Creta, verrà presto a prenderla. E tutte le bugie torneranno in superficie.

Un autore bestseller del New York Times
Tradotto in 12 Paesi

Un gruppo di amici, una vacanza a Creta… ma ci sono bugie che potrebbero tornare alla luce

«Questo libro è un trionfo di tensione e immaginazione. L’autore sa come tenere il lettore con il fiato sospeso in modo potente e, a tratti, disturbante. La suspense è al massimo.»
Steve Berry
Andrew Hart
È lo pseudonimo con cui si firma il pluripremiato autore bestseller del «New York Times» A.J. Hartley. I suoi sedici romanzi hanno affrontato diversi generi e sono stati tradotti in svariate lingue nel mondo. Ha una cattedra di Studi shakespeariani alla University of North Carolina, a Charlotte.
LinguaItaliano
Data di uscita13 lug 2018
ISBN9788822722607
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    Anteprima del libro

    L'isola dei delitti - Andrew Hart

    EN.jpg

    Indice

    PARTE PRIMA. NEL LABIRINTO

    Capitolo uno

    Capitolo due

    Capitolo tre

    Capitolo quattro

    Capitolo cinque

    Capitolo sei

    Capitolo sette

    Capitolo otto

    Capitolo nove

    Capitolo dieci

    Capitolo undici

    Capitolo dodici

    Capitolo tredici

    Capitolo quattordici

    PARTE SECONDA. LA CAVERNA

    Capitolo quindici

    Capitolo sedici

    Capitolo diciassette

    Capitolo diciotto

    Capitolo diciannove

    Capitolo venti

    Capitolo ventuno

    Capitolo ventidue

    Capitolo ventitré

    Capitolo ventiquattro

    PARTE TERZA. IL TARTARO

    Capitolo venticinque

    Capitolo ventisei

    Capitolo ventisette

    Capitolo ventotto

    Capitolo ventinove

    Capitolo trenta

    Capitolo trentuno

    Capitolo trentadue

    Capitolo trentatré

    Capitolo trentaquattro

    Capitolo trentacinque

    Capitolo trentasei

    Capitolo trentasette

    Capitolo trentotto

    Capitolo trentanove

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    1980

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autore o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale: Lies That Bind Us

    Copyright © 2018 by Andrew James Hartley

    All rights reserved

    This edition is made possible under a license arrangement originating

    with Amazon Publishing, www.apub.com,

    in collaboration with Thesis Contents

    Traduzione dall’inglese di Giulio Silvano

    Prima edizione ebook: agosto 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-2260-7

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Andrew Hart

    L’isola dei delitti

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    A mia moglie e mio figlio,

    in ricordo di una spiaggia a Creta…

    Parte prima

    Nel labirinto

    Vagando nel labirinto, non trovando vie di uscita, la loro vita finiva miseramente lì, oppure erano dilaniati dal Minotauro che era, secondo la definizione di Euripide, una creatura ibrida, una progenie mostruosa, in cui si fondevano due diverse nature, l’uomo e il toro.

    Plutarco

    Capitolo uno

    È buio quando apro gli occhi. Completamente buio. Sbatto le palpebre ma non succede niente. Per un secondo mi chiedo se sono diventata cieca. Alzo la mano destra e me la porto davanti alla faccia. Vedo l’oscurità infittirsi tutto intorno a me. Quando la allontano, il buio si ingrigisce.

    Sento la base del collo che pulsa, me la tasto con la mano e scopro un bozzo che fa male appena lo sfioro.

    Dove sono?

    Come sono arrivata qui?

    Cosa mi è successo?

    Le domande volteggiano nell’oscurità come fossero oggetti solidi che potrei quasi toccare. Ma non riesco a rispondere. Non ricordo niente, il passato è un tunnel profondo e senza luce dove non si vede nulla a parte la macchina ribaltata in cui mi trovo.

    Solo che non è un’automobile, e appena l’idea si formula nella mia mente, sparisce. Non ho idea da dove mi sia venuta. Non sono in un’auto. Sono da qualche altra parte, in un posto diverso.

    Una stanza.

    La parola aleggia nella mia testa, poi si ferma e diventa qualcosa di solido. Non sono all’esterno. L’aria sembra immobile. Sono sdraiata sulla schiena su qualcosa di morbido – ma non troppo – e quando mi muovo lo sento cedere sotto il mio peso. Con la mano tasto il bordo di un tessuto plastificato e una superficie ruvida e dura, pietra o cemento forse. Volto la testa e l’oscurità diminuisce in modo infinitesimale: un sottile materasso pallido che sa di muffa e vecchiaia. Annuso con cautela e sento un aroma che mi sembra di riconoscere, anche se non voglio. Una parte di me l’ha notato appena mi sono svegliata, ma ho cercato di non pensarci. Prima era più forte. D’impulso mi porto di nuovo la mano sulla faccia e inspiro.

    Eccolo. Tagliente e metallico.

    Ruggine forse.

    O sangue. Molto sangue.

    Allontano la mano e cerco di alzarmi, ma vengo ributtata a terra da qualcosa di duro legato al mio polso sinistro. Con la mano destra tocco la sinistra e sento del metallo freddo proprio sotto al polso. Lo esamino con attenzione mentre lo sbigottimento e la curiosità cancellano tutte le altre sensazioni, mentre a fatica cerco di capire dove sono e cosa sta succedendo. Posso spostare il braccio sinistro solo di pochi centimetri, poi qualcosa lo blocca. Mi sposto sul fianco ed esploro con le dita della mano destra: il metallo intorno al mio polso è ruvido, la superficie è piena di buchi irregolari, ma è solido e spesso quasi tre centimetri. Quando lo muovo, trascina un altro peso, ne sento il rumore: è una pesante catena. Senza vedere niente, e cercando di non farmi prendere dal panico, la seguo con le dita, scoprendo una decina di maglie ruvide che salgono verso l’alto e terminano in un pesante anello attaccato al muro dietro al letto.

    Non so come sono arrivata qui, ma so dove sono. Sento l’eco secca del mio respiro nello spazio angusto, soffocante. Una cella. E a giudicare dalle manette non è la cella di una stazione di polizia. È molto peggio. Mi monta il panico. Sento la pelle irrigidirsi, tendersi. Inizio a urlare.

    Capitolo due

    Una settimana prima

    «Congratulazioni, Jan», ha detto Camille porgendomi con un gran sorriso la mano scura e magra. «Benvenuta nel mondo dei salariati».

    Le ho stretto la mano, sentendomi avvampare mentre sul mio viso si allargava un sorriso che era un misto di gioia, trionfo e sollievo, come un sole caldo che fende le nuvole.

    «Grazie», ho detto. «Non te ne pentirai».

    «Ne sono certa», ha detto Camille con un sorrisetto. «Altrimenti non ti avrei dato l’incarico».

    Ho riso per farle capire che sapevo stare allo scherzo, ma la mia risata era troppo forte, così ho smesso subito e mi sono ricordata di lasciarle la mano. Sentivo già il sudore che rendeva scivoloso il mio palmo.

    «Hai deciso come festeggiare?», mi ha chiesto.

    «In realtà», ho detto, «sì. Un viaggio».

    «Ah, che bello! Dove?»

    «In Grecia», ho risposto. «A Creta».

    «Wow», ha esclamato Camille, più colpita dalle mie vacanze che dal colloquio di qualche minuto prima. «Fantastico. Però non dimenticarti di noi. La tua prima riunione è il venticinque».

    «Non ti preoccupare», ho detto sorridendo. Speravo non vedesse che avevo le lacrime agli occhi.

    Una vacanza del genere non era da me. Anche con i settantamila dollari all’anno, bonus esclusi, che avrei guadagnato da quel momento in poi – un notevole passo in avanti rispetto alle mansioni degli ultimi sette anni –, normalmente ci avrei pensato due volte prima di spendere quella cifra, ma Melissa e Simon avevano insistito per farmi prenotare solo il volo. Avrebbero pensato loro a tutto il resto. Saremmo partiti in ogni caso, anche se non avessi ottenuto la promozione, ma non vedevo l’ora di comunicare ufficialmente che non avrei avuto bisogno del loro aiuto economico.

    Simon e Melissa erano pieni di soldi. Non ero proprio certa di cosa facesse lui – qualcosa a che fare con la finanza, ma di sicuro era un lavoro che gli permetteva di avere appartamenti a Londra e a New York. Lei invece era un’arredatrice di interni. Immagino fosse molto brava ma credo soprattutto frequentasse i giri giusti, dove glamour e ricchezza contano più del talento.

    Forse questa però era una cattiveria.

    Non li conoscevo troppo bene, perciò la loro generosità era ancor più straordinaria, come se desiderassero condividere la loro fortuna. Li avevo conosciuti cinque anni prima in vacanza a Creta, quando stavo ancora con Marcus. Da allora li avevo visti solo due volte: in entrambe le occasioni Simon doveva andare a Charlotte per lavoro e Melissa ne approfittava per salutare i suoi a Raleigh. Il loro legame con il North Carolina era saltato fuori durante la nostra primissima conversazione, una coincidenza fortuita e molto apprezzata che ci aveva aiutato a consolidare il nostro rapporto mentre bevevamo della terribile Retsina. Per quanto possa essere imbarazzante, devo confessare che raramente ero stata così contenta di venire dalla Carolina. Questo viaggio doveva essere una sorta di ritrovo, tre coppie che si rivedevano per rivivere una magnifica settimana alcolica e salutare la fine dei vent’anni.

    L’altra coppia, Brad e Kristen, viveva ad Atlanta perché lei, inglese di nascita, recitava in una serie TV di fantascienza girata in città. Brad invece veniva da qualche oscura cittadina del Missouri e lavorava nel campo immobiliare, ma non ricordo bene tutti i dettagli. Proprio come Simon e Melissa, anche loro due avevano una certa luce, un glamour che ti attirava, e ti ritrovavi a orbitare intorno a loro come una specie di satellite. Mi sentivo esaltata all’idea di essere di nuovo ammessa nella loro cerchia. Erano come il sole greco, sempre per usare la metafora dell’orbita: caldo, benevolo e rinvigorente. Non vedevo davvero l’ora.

    L’ultima notte del nostro viaggio avremmo festeggiato il 1999esimo giorno della nostra amicizia. Tempistica perfetta, per quanto possa sembrare stupida. Ce n’eravamo resi conto più o meno alla fine della prima settimana. Eravamo rilassati – il sole, il vino, e uno speciale cameratismo scaturito dalla sensazione che la fortuna ci aveva davvero sorriso quando ci aveva fatti incontrare. C’era Prince alla radio, e Kristen stava parlando di una sua amica che aveva appena avuto un bambino ed era ossessionata da i primi duemila giorni, come li chiamava lei – a quanto pareva erano cruciali nello sviluppo del piccolo. Per qualche strano motivo Melissa, che non era mai stata molto interessata ai bambini, era rimasta molto colpita da quel numero. Alla fine le era venuta un’idea.

    «Ecco cosa dovremmo fare!», aveva detto con una luce intensa negli occhi, un lampo di gioia e consapevolezza. «Festeggiare. Anche le nuove amicizie nascono e crescono, giusto? Quindi bisogna proteggerle, curarle con amore».

    «Quanto hai bevuto?», aveva chiesto Brad, controllandole giocosamente il bicchiere.

    «Dico sul serio!», aveva esclamato. «Facciamo un patto: tra duemila giorni ci ritroveremo su quest’isola e festeggeremo la nostra amicizia».

    «Sei pazza», aveva detto Brad. «Ma mi piace».

    «Aspetta!», aveva commentato Simon. «Sentite?», aveva piegato la testa per ascoltare meglio la musica diffusa dall’impianto radio. «So tonight I’m gonna party like it’s 1999».

    Gli occhi di Melissa erano spalancati, pieni di gioia. «Vedi perché ti amo?», aveva detto, sporgendosi verso di lui e baciandolo rumorosamente.

    «Ma non cadrebbe tipo a ottobre o novembre?», aveva detto Marcus, contando i mesi sulle dita.

    «Il ponte del primo novembre», aveva risposto Simon, come se fossimo ancora a scuola. «Perfetto».

    «Il ponte del primo novembre!», aveva detto Melissa canticchiando. «Ci stiamo tutti?»

    «Io sì», aveva risposto Simon.

    «Certo che sì», aveva aggiunto Brad.

    «1999», aveva detto Kristen.

    Poi Marcus. E poi io. Era contagioso, ridicolo forse, ma comunque contagioso, perché in quel momento eravamo così felici che qualsiasi proposta che ci permettesse di ripetere tutto da capo, per quanto campata in aria e assurda, ci pareva un’occasione da prendere al volo.

    «A noi», aveva detto Melissa, alzando il bicchiere per proporre un brindisi. «E ai millenovecentonovantanove giorni che ci separano dalla prossima grande festa!».

    Vedevo già tutto nella mia mente: il calore dei pomeriggi assolati sulla pelle, il calore ancora più grande di stare insieme a loro, di essere una di loro. Quel ricordo mi strappava sempre un sorriso.

    Sarebbe stato bello rincontrarsi. La settimana in cui ci eravamo conosciuti per caso – eravamo semplicemente degli stranieri che non sapevano bene cosa fare, che bevevano ciò che trovavano nel bar dell’albergo perché nessuno parlava la lingua locale – era stata, ora che ci penso, una delle più felici della mia vita. Forse la più felice. Fino ad allora, almeno. E adesso avevo altri momenti meravigliosi da attendere con ansia, vacanza compresa.

    Quella sera a cena – avevo preso il cibo da Barrington, che era davvero costoso e meritava molto più dei piatti spaiati in cui l’avevo servito – Chad si è preso una pausa dalla sua cernia per chiedermi se mi scocciava andare da sola. Poi mi ha domandato se non mi sentivo in imbarazzo alla prospettiva di rivedere Marcus. Io ho riso.

    «In realtà non ci ho pensato», ho detto, bevendo un sorso di vino. «Voglio dire, lo sai che ogni tanto ci vediamo. Siamo rimasti amici. Ma non mi manca. Non in quel senso».

    «Perfetto», ha commentato lui, tornando al suo pesce. «Bene».

    «Chad Hoskins», ho detto scherzosamente, «sei per caso geloso?». Poi l’ho baciato con così tanta passione che ha rovesciato il bicchiere di vino. «Cavolo», ho detto, ridendo. «Adesso sei tutto bagnato. Come possiamo rimediare?».

    Non volavo spesso. Ma con il nuovo lavoro le cose sarebbero cambiate e non mi dispiaceva per niente l’idea di andare in business class a Tulsa, Newark e Chicago, farfugliando al cellulare istruzioni al mio assistente e chiedendo la ricevuta della bistecca della cena per mettere tutto in nota spese. Magari prima o poi la cosa mi avrebbe annoiato, ma per adesso volare era ancora un’esperienza esotica, nonostante la compagnia aerea ci spremesse quattrini per ogni centimetro di spazio per le gambe e ogni bustina di salatini stantii.

    L’aereo dell’Aegean era meglio di quello dell’American Airlines con cui avevo attraversato l’Atlantico: più pulito, lucido e nuovo, con spazio a sufficienza per mettersi comodi. Tutti i volti intorno a me erano eccitati e ansiosi di godersi quel volo sopra l’acqua scintillante.

    Mi sono ricordata dell’ultima volta che ero stata in Grecia e avevo guardato con meraviglia il blu intenso dell’acqua. Un mare di un colore così perfetto l’avevo visto solo nei libri e nei dépliant, e avevo sempre pensato fosse un effetto creato con dei filtri, o con Photoshop. Il mio cuore palpitava di eccitazione. Ho pensato a Melissa e agli altri: non sapevo quando sarebbero arrivati. Mi è venuto in mente che forse avrei potuto incrociare Marcus sull’aereo da Charlotte, e sono rimasta un po’ delusa quando invece non l’ho trovato. Solo per avere un po’ di compagnia, ovviamente. L’ho cercato al gate dell’aeroporto e ho fatto su e giù nel corridoio dell’aereo un paio di volte, dopo che hanno servito la cena e abbassato le luci, ma non l’ho visto da nessuna parte. Una delle hostess mi ha chiesto con fare scocciato e altezzoso se andava tutto bene, come se stessi organizzando chissà quale elaborato attacco terroristico mentre andavo al bagno, così le ho detto che avevo perso un orecchino.

    Non mi ha creduto.

    «Terrò gli occhi aperti», mi ha detto con un sorriso, sfidandomi a portare avanti la mia bugia. A giudicare dall’accento doveva essere canadese, o del Wisconsin. Sono tornata al mio posto e ho fissato la piccola mappa elettronica sullo schermo del sedile: un aeroplanino si spostava piano piano attraverso il mare, verso sud. Avrò dormito un’ora, al massimo due.

    Il volo per Creta era lungo, con due scali, a Roma e ad Atene. Ho visto il Colosseo dall’alto, un’emozione unica, e mangiato un pessimo piatto di pasta all’aeroporto di Roma. La coincidenza per la Grecia era in ritardo, e ho dovuto attraversare di corsa l’aeroporto di Atene trascinandomi dietro il trolley come una senzatetto disperata. Sono riuscita a prendere il volo della Aegean Air diretto a Heraklion all’ultimo secondo. Il volo per Creta è stato breve, e ho capito che l’euforia di vedere gli altri e riaccendere la nostra amicizia nata cinque anni prima stava diventando qualcosa di caldo e opprimente.

    Rilassati, mi sono detta. Non vali meno di loro. Sei diventata team manager…

    Ho sorriso fra me e me, ma solo per un secondo, poi mi sono accorta di quanto fossero assurdi i miei pensieri. La mia piccola promozione non avrebbe certo impressionato i miei bellissimi e lanciatissimi amici. Potevo ripetermi allo sfinimento che anch’io stavo tenendo il passo con il jet set, ma questo non cambiava la realtà delle cose. Eppure bisogna pur tirare avanti in qualche modo, no? Basta convincersi di queste piccole mezze bugie che rendono il mondo un posto migliore in cui vivere.

    Ho ripreso i bagagli e attraversato l’aeroporto di Heraklion. Sentivo una piccola, strisciante ansia. Si erano dimenticati di me? Come avrei raggiunto la casa? Se avessi dovuto pagare di tasca mia sarebbe stata una bella botta per le mie finanze. E poi? Avrei chiesto a Simon di rimborsarmi il taxi, mostrandogli la ricevuta come se stessi compilando la nota spese per l’ufficio?

    Dio, ho pensato. Sarebbe così umiliante…

    Inoltre trovare il posto non sarebbe stato facile. Melissa si era rifiutata di dirmi dove avremmo alloggiato, sapevo solo che non era un albergo. Avevo un indirizzo, ma non mi ero preoccupata di controllare sulla mappa quanto ci avrei messo ad arrivare. Speravo solo di non essere troppo lontana – avevo viaggiato dodici ore senza chiudere occhio – ma la promessa di Melissa di una villa di lusso privata, lontana dai resort non era incoraggiante da quel punto di vista. Ho sentito l’ansia che tornava, il battito cardiaco che aumentava.

    Stai calma, Jan, mi sono detta prima di fare tre lunghi respiri, uno dei trucchi di Chad per placare i miei nervi tesi.

    Pensare al mio ragazzo mi ha rilassato non meno dell’esercizio di respirazione. Sarebbe stato tutto più semplice se lui fosse stato lì con me. Gliel’avevo detto, e lui aveva fatto uno di quei suoi sorrisi premurosi e aveva risposto: «Mi racconterai tutto quando tornerai. Fai tante foto».

    Certo, l’avrei fatte. Ho ripetuto l’esercizio di respirazione e mi sono sentita meglio.

    La lounge degli arrivi – basandomi sul nome avevo pensato che ci fossero delle poltrone, ma evidentemente mi ero fatta un’idea sbagliata – era un compatto muro di volti concentrati: uomini in completi neri aderenti e senza cravatta che tenevano in mano dei cartelli con i nomi dei passeggeri. Alcuni avevano lavagnette, altri fogli stampati al computer, per la maggior parte dei cartoncini con le scritte a pennarello. Li ho controllati di fretta: Blunt, Kastides, Ferguson, Alexandros, Merrimack, e altri.

    Fletcher non c’era.

    Mi sono fermata in mezzo alla sala, allungando il collo per sbirciare i cartelli in seconda fila. Una donna con un paio di trolley rosa mi ha dato una gomitata per passare e mi ha lanciato un’occhiata furente.

    «Scusi», ho detto, ma se n’era già andata, accolta da un uomo slanciato e ossuto sulla cinquantina che le ha dato un saluto sbrigativo e le ha preso una valigia. Allontanandosi hanno creato un varco tra la folla e lì, con i suoi occhi azzurri, abbronzato e bello come Apollo, è comparso Simon. Mi ha fatto uno di quei sorrisi da pubblicità del dentifricio.

    «Jan», ha detto, venendomi incontro. «Che bello che sei riuscita a venire!».

    Stavo già tendendo la mano, ma lui si è avvicinato e mi ha abbracciato dandomi un bacio sulla guancia. Ho farfugliato qualcosa con la faccia ancora sul suo collo, agitata, guardandomi intorno per vedere se c’erano anche gli altri.

    «Ci sono solo io?», ho chiesto, cercando di simulare indifferenza.

    «Marcus e Gretchen sono già arrivati. E anche Melissa, ovviamente. Kristen e Brad arrivano più tardi. Ho pensato che fosse meglio farti sistemare un attimo, e dopo, magari nel pomeriggio, andiamo in spiaggia al Minosse. Come ai vecchi tempi. È una bella camminata, ma così potrò venire a prendere Kristen e Brad per le cinque prima di tornare a casa per la cena».

    Il Minosse era l’albergo in cui ci eravamo conosciuti tutti cinque anni prima. Be’, non proprio tutti. Un nome spiccava tra gli altri della lista, e ho fissato Simon come un uccellino indifeso.

    Chi diavolo era Gretchen?

    E non Gretchen da sola. Ma Marcus e Gretchen. Come se stessero insieme. Ho sentito il mio stomaco sobbalzare, ma non ho detto nulla.

    «È tutto qui?», mi ha chiesto Simon, guardando soddisfatto la mia valigia.

    «Sì. In fondo è solo una settimana».

    «Viaggia leggero, viaggia veloce», ha detto Simon. Aveva una camicia a maniche corte e le sue braccia erano muscolose, con le vene in evidenza, frutto di tante ore passate in palestra. Indossava jeans aderenti, firmati ma senza loghi in vista, e dei mocassini di pelle marrone senza calzini. Certo, nessuno l’avrebbe scambiato per uno del posto, eppure sembrava completamente a suo agio. Come ho detto, in realtà non sapevo bene cosa facesse, ma di sicuro c’erano in ballo milioni e milioni di dollari di chissà chi – e milioni che finivano anche nelle sue tasche, tra una cosa e l’altra. Me lo immaginavo in borsa, alle riunioni dei dirigenti, sui campi da golf o nei bar a bere cocktail, sempre vestito nel modo più appropriato, elegante, e con quell’apparente trascuratezza che gli dava l’aria di non impegnarsi mai davvero in quello che faceva. Come se gli riuscisse tutto naturale. Marcus aveva una parola per definirlo, un vecchio termine italiano che non riuscivo mai a ricordare ma che descriveva il dono di risultare naturali e spontanei quando invece era tutto studiato ad arte. Mi sono ripromessa di chiederglielo non appena l’avessi rivisto.

    Se riuscirai a strapparlo dalle grinfie di Gretchen.

    Quel nome mi infastidiva. Sembrava vagamente nordico o tedesco, e in testa mi è apparsa l’immagine della ragazza della pubblicità della birra St. Pauli, con le trecce bionde e una scollatura in cui avresti potuto nascondere un coniglio.

    Simon stava parlando e mi sono concentrata di nuovo su di lui. Mi ha accompagnato fuori dall’aeroporto, verso le porte che si aprivano sul parcheggio caldo e luminoso. Scrutandolo di spalle, mi sono chiesta se parte di quella noncurante eleganza sartoriale fosse opera di Melissa, anche se non ce la vedevo proprio a scegliergli le cravatte e togliergli i pelucchi dalla giacca come una moglie degli anni Cinquanta.

    «Ho detto: Sei riuscita a vedere un po’ Roma?», ha ripetuto Simon.

    «Ah», ho risposto. «No, avevo solo la coincidenza in aeroporto. Ma dall’alto ho visto il Colosseo».

    «Ah sì?», ha detto, facendo una smorfia. «Perché, l’aereo ha dovuto fare un paio di giri intorno alla città prima di atterrare?».

    Ho esitato.

    «Non credo, perché?», ho chiesto.

    «L’aeroporto è vicino alla costa», mi ha spiegato. «Devi andare parecchio verso l’interno per vedere la città, e poi immagino che l’altezza sarebbe eccessiva per scorgere…».

    «Devo essermi sbagliata», ho ribattuto velocemente. «Ho dormito molto su quel volo. Forse l’ho sognato».

    Ha fatto una breve risata, ma la sua espressione è rimasta impassibile, così ho deciso di lasciar perdere.

    Il clima a Heraklion era sorprendentemente mite. Ricordavo il calore soffocante di giugno in quello stesso parcheggio privo di ombra, i raggi del sole che mi ustionavano la pelle. All’epoca non tirava un filo di vento. Charlotte era una città calda, ed ero abituata a temperature elevate, ma l’aria a Creta per qualche motivo mi era sembrata più sottile, senza l’umidità tipica del North Carolina, e il sole più intenso e implacabile. Un deserto di calore. Sull’aereo mi ero ricordata dell’ustione di cinque anni prima, ma poi mi era venuto in mente che era novembre. Ora il clima era meraviglioso, sui ventitré gradi, cielo azzurro e una brezza leggera piena di promesse e piacere. Simon aveva già detto che saremmo andati in spiaggia. Come quel vecchio gioco da bambini, Simon ordina: se diceva una cosa, bisognava farla.

    Simon si è diretto verso l’auto più splendente, enorme ed elegante del parcheggio e l’ha aperta con un sonoro bip. Era un van Mercedes nero, nuovo, sicuramente costosissimo. Aveva i finestrini oscurati e dava l’impressione che dentro ci fossero champagne freddo e delle celebrità in fuga dai paparazzi ad attenderti.

    «Bella», ho detto.

    «Solo il meglio per i nostri amici», ha detto Simon.

    Ho sentito le farfalle nello stomaco, ma ho cercato di non pensarci. Ero stata promossa, avevo un contratto ed ero team manager. Anch’io stavo facendo strada.

    «Sarà una gran bella settimana», ha commentato, infilandosi un paio di Ray-Ban e accendendo il motore. «Dobbiamo raccontarci un sacco di cose. E andare nei posti dove andavamo cinque anni fa. Ti ricordi quel tipo che vendeva le pesche davanti al Minosse? Quello con quel cane rognoso che fece la pipì sul piede di Brad? Ci sono passato davanti oggi e ti giuro che è ancora lì. Stesso tipo e stesso cane!».

    Ha riso con gioia.

    Ho guardato fuori dal finestrino oscurato mentre imboccavamo la strada e ho provato a ridere insieme a lui, ma con l’aria condizionata in macchina faceva freddo, e tutto ciò a cui riuscivo a pensare era vecchi posti.

    Non sarei dovuta venire.

    Capitolo tre

    Le mie urla si spengono subito. L’eco della mia voce, in questa piccola prigione, è uno shock che mi zittisce prima di lacerarmi la gola. Il suono del mio stesso terrore mi paralizza e mi intorpidisce. Ma sono esausta dopo aver pianto tanto, e mi gira la testa, e anche questo è spaventoso.

    Provo ad alzarmi il più possibile ma il braccio sinistro rimane piegato rispetto al resto del corpo in modo innaturale, per via della catena. Possibile che l’oscurità sia un po’ meno fitta? Non credo, perché non trovo alcuna fonte di luce. E allora c’è solo una spiegazione per questo addolcirsi del buio, per questa vaga sensazione che ci siano delle sagome a pochi metri dalla piattaforma di cemento a cui sono incatenata: i miei occhi si sono abituati. Mi ricordo una lezione di biologia, il professore ci aveva spiegato che la sensibilità dell’occhio umano aumenta a dismisura nei primi minuti di esposizione al buio, ma sono abbastanza sicura che sia un fenomeno di breve durata. La mia visione notturna non migliorerà certo se rimango seduta qui – ormai sono sveglia da diversi minuti e di segnali incoraggianti non ne sono arrivati.

    Queste riflessioni mi hanno calmato i battiti. Sento il cuore che si placa, come quando mandi su di giri il motore e poi togli il piede dall’acceleratore. Ho il respiro affannato e ansimo forte, sembra un pianto più che un respiro. L’aria è rarefatta e la stanza puzza di umido, di terra e di quell’odore stantio e chimico del cemento vecchio. Sopra a tutto il resto, percepisco il sentore rugginoso e vibrante del sangue.

    Che diavolo sta succedendo?

    Mi sforzo di mettermi a sedere e rimango in silenzio per cercare di identificare i rumori di fondo. Poi faccio un respiro, deglutisco e chiedo: «C’è qualcuno?».

    Nessuna risposta. Lo chiedo di nuovo, questa volta a voce più alta, ascoltando l’eco debole e rapida della mia stessa voce. Ci riprovo, questa volta imitando il tecnico del suono di un concerto a cui sono andata con Marcus anni fa.

    «Uno, due. Uno, due», ripeto, calcando bene la d, come faceva il tecnico. «Un due. Due. Due. Due».

    All’epoca mi aveva fatto ridere la serietà con cui emetteva quei suoni senza senso prima di alzare il pollice a qualche collega invisibile nella cabina acustica in fondo al teatro. Non avevo capito cosa stesse facendo, ma adesso lo comprendo con una istintiva chiarezza. Stava ascoltando il modellarsi del suono mentre passava dal microfono alle casse, lo scoppio d’aria delle consonanti, e io adesso seguo il suo esempio. Sì, sto facendo quello che fanno i pipistrelli

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