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Un regalo sotto la neve
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E-book511 pagine6 ore

Un regalo sotto la neve

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Info su questo ebook

Una favola indimenticabile di amore, segreti, bugie e seconde possibilità

Dall’autrice del bestseller Un diamante da Tiffany

Si dice che dietro ogni grande uomo ci sia sempre una grande donna. In effetti dietro tutti i personaggi più in vista di Londra c’è lei: Alex Hyde, consulente per il business delle eccellenze. È lei la donna a cui gli uomini più potenti della City si rivolgono quando hanno bisogno di una strategia per affrontare i momenti di stress. Quando le viene offerta una somma incredibile per rimettere in carreggiata il rampollo della famiglia proprietaria di una grande compagnia di whisky scozzese, Alex accetta senza esitazioni: è lavoro, potrebbe farlo anche a occhi chiusi. E invece… Nessuno degli uomini che ha affiancato è minimamente paragonabile a Lochlan Farquhar. L’erede delle distillerie Kentallen, infatti, non è abituato a sentirsi dire no. È un ribelle, e Alex deve trovare il modo di entrare nella sua testa, se non vuole che metta l’impresa di famiglia in ginocchio. Ma più si impegna per evitare il disastro, e più si rende conto che, per la prima volta nella sua vita, non è lei ad avere il controllo sulla situazione. E non è sicura che le dispiaccia.

Quando le bugie finiscono può iniziare l’amore?

Numero 1 in italia
Un’autrice da oltre 400.000 copie in Italia

«Colta, capace di gestire la propria immaginazione con la lucida professionalità di un orologiaio svizzero, Karen Swan sa bene come creare un bestseller.»
Il Messaggero

«La più improbabile delle storie d’amore dà vita a un libro emozionante sulle seconde possibilità.»
Sunday Mirror

«Una favola indimenticabile di amore, perdita e segreti. Un altro libro impeccabile di Karen Swan: mettetevi sotto le coperte e lasciatevi conquistare!»
Heat
Karen Swan
ha iniziato la carriera di giornalista di moda, prima di rinunciare a tutto per prendersi cura dei suoi tre figli e realizzare il sogno di diventare una scrittrice. La casa in cui vive si affaccia sulle splendide scogliere del Sussex. Con la Newton Compton ha pubblicato numerosi bestseller tra cui Un diamante da Tiffany (numero 1 nelle classifiche italiane), Un regalo perfetto, Natale a Notting Hill, Il segreto di Parigi, Natale sotto le stelle e Una questione di cuore. Un regalo sotto la neve è il suo ultimo successo arrivato in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2018
ISBN9788822726193
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    Anteprima del libro

    Un regalo sotto la neve - Karen Swan

    Prologo

    Kilnaughton Bay, Islay - Costa occidentale della Scozia, 30 aprile 1932

    L à fuori.

    La prima volta che lui era sfuggito alla morte era stato là fuori, in quelle acque infide che si estendevano fino alla costa irlandese. Ma da queste scogliere, in questo giorno, quando il mare era una distesa chiara e liscia come una pezza di seta cerulea, non c’era segno degli orrori di quella notte lontana – quando i venti forza dieci infuriavano sulla superficie e i siluri venivano sganciati sotto di essa.

    Osservò l’orizzonte, il vento in faccia come se soffiasse aria dentro di lei, riportandola in vita. Lui le sembrava più vicino lì e pensò che, se avesse pregato con abbastanza fervore, avrebbe potuto vedere le sue impronte sulla sabbia, individuarne il profumo nella brezza. Oh, se quella minuscola isola avesse trattenuto qualcosa di lui nel suo abbraccio! La padrona di casa le aveva detto che i semi delle vivaci ginestre che punteggiavano quelle brughiere potevano restare dormienti nel terreno per quarant’anni e poi germogliare. Non poteva lei sperare in una traccia del genere?

    Ma la speranza era perduta e lo era ormai da tanti anni. La morte l’aveva rincorso, cercando di azzannarlo alle caviglie per la seconda volta, rifiutandosi di lasciarlo andare. Aveva lottato duramente, dicevano, quegli sconosciuti gentili con le loro vocali lunghe e corpose e gli occhi placidi.

    Più volte avevano pensato che fosse spacciato, ma lui emergeva dalle febbri come uno spettro dalla nebbia, le guance incavate e trafelato per la corsa.

    Aveva una fibra forte, dicevano, e un sorriso dolce; occhi che sussurravano, mani che danzavano. Anche dopo così tanti anni, continuavano a ricordarlo, ad ammirarlo.

    E pensare che era appartenuto a lei…

    Chiuse gli occhi, lasciandosi sferzare dal vento. C’era un indescrivibile conforto in quella semplice verità: lui era stato suo e la Morte, per quanto trionfante al suo terzo tentativo, non poteva sottrarglielo.

    Un suono – una voce? – le giunse all’orecchio e, voltandosi, vide una donna che si affrettava a raggiungerla. Anche se il vento giocava con i suoi capelli come un gattino con i fili, si muoveva con disinvoltura e grazia. Era snella e veloce, con lo sguardo intelligente e il lignaggio evidente nella struttura ossea. Ma se la sua era una bellezza delicata, non c’era niente di fragile in lei. Aveva un aspetto forte e risoluto. Maestoso.

    «È lei l’americana?», le chiese la donna senza preamboli.

    «Sì».

    La donna emise uno sbuffo d’aria e annuì. «Mi hanno detto che l’avrei trovata qui. Pensavo di essermela persa».

    «Di cosa si tratta?»

    «Prima che vada via… c’è qualcosa che dovrebbe sapere».

    Ma già lo sapeva. Era stato l’istinto a dirglielo.

    Lui era appartenuto anche a questa donna.

    Capitolo uno

    Mayfair, Londra, venerdì 1° dicembre 2017

    «U fficio di Alex Hyde».

    La voce brusca di Louise Kennedy penetrò il silenzio di una stanza dalla folta moquette, la cui aria immota era agitata solo dai profumati effluvi delle peonie.

    «No, mi dispiace, non è disponibile. Chi parla, prego?».

    Le dita con la french manicure si sollevarono sulla tastiera, il cursore sullo schermo lampeggiava mentre lei aspettava il nome. Sulla destra del tastierino numerico, una lucina rossa. La telefonata di un altro cliente; lei era come un controllore di traffico aereo che gestiva il flusso continuo di velivoli in procinto di atterrare: individua, inquadra e organizza.

    «Ho bisogno di un nome se vuole…». Fece attenzione a non sbuffare nel microfono delle cuffie quando l’interlocutore tergiversò, non credendole, non essendo abituato a un no. Agitò le dita in aria come se stesse giocherellando con una penna, impaziente di passare oltre. La luce rossa continuava ad ammiccare. Doveva rispondere entro un minuto. Non potevi mai sapere quando era urgente e, a quel livello, urgente significava proprio quello: impieghi, patrimoni, la vita stessa, potevano essere in bilico.

    «No, non è possibile». Un sopracciglio curato si inarcò quando la voce dell’interlocutore si fece più insistente. «Perché al momento è a New York». Lo sguardo le cadde nuovamente sulla lucina rossa. «È confidenziale», replicò brusca, più che abituata a trattare con la presunzione. Probabilmente era il tratto distintivo più comune dei clienti di Alex; probabilmente quello che consentiva loro di diventare un cliente di Alex, in primo luogo. «Ma posso chiederle di chiamarla. Lei sa di cosa si tratta?». Le sue dita fremettero di nuovo.

    Fuori, le luci azzurre di un’ambulanza turbinarono oltre le finestre a stecche color visone e nel cielo lattiginoso si rincorrevano nuvole cariche di pioggia. Persone avvolte in pesanti cappotti passavano di profilo, le teste chine sui telefoni, i marciapiedi ancora scivolosi per l’ultimo acquazzone di qualche minuto prima.

    Serrò le labbra mentre l’uomo parlava. L’aveva immaginato. «Capisco. Quindi si tratta della richiesta per un nuovo cliente». Il tono supponente di lui aveva lasciato intendere una profonda conoscenza personale ma, con ogni probabilità, forse erano stati presentati a una festa o il nome di Alex era stato fatto durante una cena formale, mormorato in toni sommessi e riferito con la stessa furtiva segretezza della stretta di mano di un massone.

    «Mi duole informarla che seguiamo una lista d’attesa e Ms Hyde non ha disponibilità prima di maggio». Lanciò un’occhiata alla lucina rossa. Ancora lì. Solo. Dieci secondi… «Vuole che la metta in lista e la ricontattiamo più in prossimità della data?».

    Le sue sopracciglia si inarcarono quando presuntuoso divenne pedante; forse l’uomo non si rendeva conto che nessuno arrivava ad Alex senza prima superare lei, che era pagata per passare al vaglio i clienti oltre che per inserirli in agenda. «Be’, come le ho già detto, Ms Hyde è all’estero al momento e io non sono autorizzata a dirle quando tornerà. Ora, se vuole scusarmi, ho altri clienti in attesa. Richiami pure quando lo desidera, se cambia…». Il dito indugiò sul tasto di disconnessione e gli occhi sulla luce rossa lampeggiante.

    Tre, due, u…

    La mano le ricadde sulla scrivania, come abbattuta, e le parole le risuonarono nelle orecchie come se ciascuna di esse fosse esplosa attraverso il cavo telefonico. Si protese in avanti sui gomiti, concentrandosi mentre fissava il cursore lampeggiare sullo schermo ancora vuoto. La luce rossa ormai non c’era più. Anzi, era del tutto dimenticata. Ci fu una lunga pausa.

    «Mi scusi, potrebbe ripetere?», disse alla fine, con un insolito tremolio nella voce impeccabile. «Non credo di aver sentito bene».

    New York, stesso giorno

    Alex Hyde osservò Wall Street. Brulicava di ego, pulsando come un muscolo mentre la gente correva nel traffico – in ritardo ad appuntamenti e apparentemente dotata di armatura contro la marea di taxi gialli che suonavano furiosi il clacson in un lampeggiare di luci rosse posteriori – ed eseguiva una danza sinuosa e spavalda da un marciapiedi a quello opposto. Al livello della strada, gli status symbol erano sia discreti (l’asola colorata di un completo cucito a mano, magari) che sfacciati (un Rolex Oyster, un’abbronzatura caraibica) ma, da lassù, quelle persone sembravano nulla più che trucioli metallici su una lavagna magnetica, che sfrecciavano da una parte e dall’altra come sospinti da una forza esterna, tutti nel frenetico intento di arrivare da qualche parte. Anzi, di arrivare lì. Lassù al 98° piano era dove volevano essere e l’uomo con il quale lei stava parlando era chi volevano essere. Un padrone dell’universo; un centro nevralgico di potere – l’origine di tutta l’energia, del denaro.

    Ma nessuno di loro sarebbe mai arrivato così lontano. Non vedevano se stessi dalla sua prospettiva. Non riuscivano a vedersi da due passi di distanza, figuriamoci da duecento metri di altezza. Perfino il loro riflesso allo specchio non rivelava loro ciò che lei vedeva, perché non capivano che l’ambizione non bastava, che il talento non bastava, che la fame non bastava. E se neanche capivano questo, come potevano mai aspettarsi di salire le scale che portavano a quell’ambita posizione nel cielo?

    L’uomo dietro di lei lo sapeva ma, d’altro canto, era stato fortunato a conoscerla quando era un presidente della Bank of America fresco di nomina e la migliore mossa di carriera che avesse mai fatto era stata non solo rendersi conto, ma anche ammettere, di essere un pesce fuor d’acqua. Alex voltò le spalle al duro sole di dicembre che proiettava una bianca luce obliqua sulla strada e tornò a fissarlo. Apprensivi occhi azzurri su un volto segnato ricambiarono lo sguardo mentre lei tornava adagio nella stanza.

    «Howard, ricordi che nell’ultimo incontro abbiamo parlato di definizione?».

    Lui la osservò con la stessa attenzione di un’antilope che tiene d’occhio un leone nell’erba alta. «Sì».

    Alex tornò a sedersi di fronte a lui, la figura snella valorizzata con discrezione dall’abito di crêpe avorio Phillip Lim, i capelli castani che le ricadevano ad arte sulle spalle grazie alla piega di quella mattina – Dio, amava i piega bar di quella città – e, con un trucco leggerissimo, la pelle olivastra risultava ancora luminosa dopo il ritiro spirituale in Costa Rica del mese prima. «Cosa abbiamo detto, sai ripetermelo?». Inclinò la testa con fare empatico, l’espressione dolce nonostante l’aria interrogativa nei profondi occhi marroni.

    «Hai detto che per avere definizione è necessario che ci sia un’unione in tutta la persona?».

    Lei annuì. «Proprio così. Dobbiamo avere la fusione per ottenere definizione». Sorrise. «Suona contraddittorio, vero? Fusione, definizione – sono termini opposti. Ma solo quando le quattro aree della nostra vita – l’elemento fisico, quello mentale, quello sociale e quello spirituale – sono in equilibrio, possiamo aspettarci che funzionino in armonia. E, quando lo fanno, poiché è una tale rarità, è allora che hai la definizione per vedere le cose in maniera più nitida, per prendere decisioni più intelligenti, per agire con lucidità e sicurezza. Ma», la sua espressione cambiò, «trascurando uno qualsiasi di questi aspetti della nostra psiche, lo facciamo a nostro rischio e pericolo. Come possiamo aspettarci di avere una mente flessibile se non leggiamo né impariamo altro a parte le comunicazioni confidenziali che circolano nella banca? Come puoi assorbire lo stress di raggiungere gli obiettivi se annulli l’appuntamento con il tuo coach? Non puoi lasciare che il corpo diventi debole, la mente meccanica, le emozioni intorpidite o lo spirito insensibile. Non puoi agire come se fossi in una bolla. Non a questo livello. L’aria è troppo rarefatta quassù, Howard».

    Lui sospirò, sapendo dove voleva andare a parare. «Mi stai consigliando di rinunciare a lei».

    «Sai che non lo dirò mai. Mi limito a dare consigli», obiettò Alex, sentendo la singola vibrazione del suo telefono sul bracciolo della sedia. «Ma se non c’è altro, se ciò che c’è tra voi è solo», fece spallucce, «energia morta, allora devi chiedere a te stesso se stai attuando la fusione corretta».

    Le nocche di Howard sbiancarono leggermente quando strinsero il bracciolo e un’espressione incredula si fece strada sul suo volto. «Parli di Yvonne

    «Be’, esaminiamo l’idea», replicò lei, allargando le mani, invocando una presa di coscienza. «È un senso di obbligo a farti restare?»

    «O-obbligo?», balbettò lui. «Siamo sposati da trentaquattro anni! È un sacco di vita da dividere con qualcuno».

    «Sì, lo è. Trovi che sia stato troppo? A posteriori, pensi che avresti dovuto procedere prima?».

    Howard parve scandalizzato. «Non è così facile. Abbiamo quattro figli».

    «Quattro figli adulti, che sono tutti sposati e hanno messo su famiglia», annuì lei con calma. «Sai, il senso di colpa non è in grado di cambiare il passato, Howard. E l’ansia non cambierà il futuro. Questa è una grossa decisione, ma forse è quella che abbiamo evitato di affrontare».

    Howard guardò in basso e poi lei; ansia e insicurezza segnavano il volto patrizio che compariva sulle pagine del «Wall Street Journal» almeno due volte a settimana, affisso in tutta la città come principale consulente finanziario del sindaco durante la precedente campagna elettorale. «Ma l’ultima volta che ci siamo visti, hai detto che era Kaileigh quella che dovevo lasciare».

    «No, io non ti ho mai detto di lasciare nessuno, Howard», ribatté con fermezza Alex, appoggiando il mento su pollice e indice. «Ti ho detto di pensare alla fusione, ricordi? E allora hai detto che Kaileigh si stava comportando da pazza – avanzando la richiesta irragionevole che tu lasciassi Yvonne per lei, minacciando di presentarsi a casa vostra, di parlare con la stampa. Hai detto che non riuscivi a dormire, a concentrarti sul tuo lavoro. Ora, chiaramente non era un equilibrio che saresti stato in grado di mantenere andando avanti e hai riconosciuto di non riuscire a essere definito fino a che la situazione fosse rimasta tale. Perciò abbiamo discusso dell’idea di rinunciare a lei». Alex roteò la mano in fuori. «D’altro canto, hai appena passato gli ultimi quarantacinque minuti a dirmi che non riesci a starle lontano; nonostante il suo comportamento folle, ti fa sentire vivo». Si strinse nelle spalle. «Perciò, se è davvero questa la verità, allora non rinunciare a lei. Se ti fa stare così bene, allora forse è tempo di ridefinire l’equazione. Forse questo cambiamento è ciò di cui hai bisogno per raggiungere l’equilibrio in questo momento. Le persone cambiano, Howard, i nostri bisogni mutano. Quello che andava bene per te trentaquattro anni fa non è necessariamente quello che va bene per te adesso. Dobbiamo essere coraggiosi e guardare in faccia la realtà. Troppe persone si lasciano incastrare dalla routine, imprigionare dalle convezioni borghesi. Ma tu non sei uno di loro, Howard, non sei una di quelle piccole persone. Quelle regole non valgono per te. Tu puoi fare quello che vuoi e, se Kayleigh ti fa sentire vivo, sveglio, allora stai con lei».

    «Ma… tutte le cose che ha fatto? Le minacce?»

    «Ha fatto quelle cose solo perché voleva che tu stessi con lei; se lasci Yvonne, non avrà alcun motivo per fare la pazza».

    Si appoggiò allo schienale, abbassando il mento e facendo dondolare piano una gamba. Seguì un lungo silenzio.

    «Non lo so», esitò lui.

    Alex si protese in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e giungendo le mani. «Lei ti fa sentire di nuovo giovane, giusto?», gli chiese scrutandolo.

    Howard annuì.

    «Invincibile. Potente. Virile. L’uomo che eri».

    Lui annuì di nuovo.

    «Lei è la chiave per tornare a essere ancora quell’uomo, Howard».

    Howard rimase interdetto. «Ma cosa… Voglio dire, si è introdotta in casa mia, santo cielo. Penso che possa essere instabile».

    «Ascolta, dimentica tutte le ragioni per cui qualcosa potrebbe non funzionare. Te ne serve solo una per la quale funzionerà. E voi due siete pazzi l’uno dell’altra. Me l’hai detto tu stesso, lei è una fame che non riesci a saziare. Questa è tutta la motivazione di cui hai bisogno».

    Il telefono vibrò di nuovo ma Alex continuò a tenere lo sguardo su Howard. Vedeva il dubbio nei suoi occhi, la palese paura che derivava dal portare la fantasia nel mondo reale.

    «Questo è esattamente ciò che abbiamo esplorato nelle nostre precedenti sedute: se vuoi mantenere affilata la lama, devi perseguire crescita e cambiamento nella tua vita. Ora, all’inizio stavamo lavorando per conseguire tale risultato tramite l’iniziativa benefica in Angola e il tentativo di scalata del K2», tornò ad appoggiare la schiena, «ma se Kayleigh è la risposta, allora accettiamola. Non siamo rigidi o irremovibili nelle nostre opinioni, Howard. Tieni a mente che qualsiasi cosa faccia sentire intero te, va a vantaggio della banca. Perfeziona la fusione e accresci la definizione».

    «Ma Yvonne…».

    «È una donna adulta. E sono sicura che onorerai i vostri trentaquattro anni insieme occupandoti di lei dal punto di vista economico. Sei un gentiluomo, dopotutto».

    Howard sbatté le palpebre. «Non sono sicuro che questo sia…».

    «Si tratta di te, Howard. Si tratta di cosa ti fa sentire intero». Sorrise. «Sai qual è la bugia più comune? Quella che milioni di persone ripetono ogni singolo giorno?».

    Lui scosse la testa.

    «Sto bene. Ecco cosa dicono, di continuo, quando non è così. Soprattutto quando non è così. Tu stai bene, Howard? La tua vita è come vuoi che sia quando sei con Yvonne? O lo è quando sei con Kayleigh? Con chi sei quando dici: Sto bene? Con chi stai vivendo la bugia? Perché è con una delle due. Penso che abbiamo ormai assodato che non puoi avere entrambe; la tua attenzione è troppo divisa e, inoltre, sei troppo un brav’uomo per quel tipo di compromesso, Howard. Hai dei principi, onore, orgoglio». Alex inspirò a fondo. «Tutto ciò significa che ti trovi a un bivio. È il momento di decidere. Fallo bene e ritroverai il tuo mordente».

    Il suo telefono vibrò per la terza volta, segno che era urgente. Sorrise e si alzò. «Ascolta, capisco che per te è parecchio da digerire. Il cambiamento può intimorire. Perché non ti prendi qualche giorno per lasciare sedimentare tutto quanto? La prossima volta che ci vediamo, potremo lavorare a una strategia per metterlo in pratica».

    Anche Howard si alzò e annuì. «Sedimentare, sì. Va bene». Sembrava inebetito, come colpito dalla scarica elettrica di un taser.

    Alex lo accompagnò alla porta. «Dirò a Louise di organizzarsi con Sara e fissare una data compatibile con i tuoi impegni. A pranzo, magari? Forse dovremmo proprio uscire a festeggiare questo eccitante nuovo cambiamento».

    Howard armeggiò con i bottoni della giacca mentre lei apriva la porta. «Pranzo? Non saprei. Penso di essere parecchio pieno…».

    «Ma certo, tutto va in tilt nel periodo pre-natalizio, vero? Nessun problema, lasciamo pure che si occupino della logistica tra loro». Gli diede una salda stretta di mano. «È stata una seduta fantastica, Howard. Penso che siamo sul ciglio del cambiamento al quale puntavamo. Rifletti su tutto quanto e riorganizziamoci quando sarai pronto».

    Alex chiuse la porta mentre lui si avviava all’ascensore, poi prese il telefono e chiamò l’unico numero che la contattava lì.

    «Louise?», chiese, tornando alle finestre e osservando i trucioli metallici che continuavano a spostarsi e a procedere a scatti verso il loro nord magnetico. «No, tranquilla, stavamo comunque concludendo».

    Si sfilò le scarpe, trasalendo per una fitta di piacere-dolore quando allargò i piedi e si abbassò di otto centimetri.

    «Oh, diciamo così», sospirò. «Gli ho appena dato ciò che pensava di volere e salvato il suo matrimonio. Contatta la sua assistente personale e fissa un appuntamento entro due settimane».

    Un lampo improvviso alla finestra la spaventò, facendola indietreggiare. Ci volle un momento prima che i suoi occhi individuassero cosa aveva visto e a quel punto si rese conto che si trattava di un falco pellegrino, uno dei tantissimi che risiedevano in città, appollaiandosi sulla moltitudine di davanzali dei palazzi, sollevandosi sulle correnti termiche offerte dai tetti di cemento e dando la caccia ai piccioni che svolazzavano allegri su e giù per i viali. Lo guardò librarsi senza sforzo in una corrente ascensionale. «A ogni modo, cosa c’è?».

    Accostò una mano al vetro e osservò il volatile che si tuffava in picchiata, dritto verso uno sventurato e ignaro piccione diversi piani più in basso. La sua velocità era vertiginosa – qualcuno le aveva raccontato che erano in grado di raggiungere i 200 chilometri orari in picchiata – e facilitata dai grattacieli che fungevano da montagne, incanalando l’aria. Questi falchi adesso vivevano in maggior numero a Manhattan che in qualsiasi altra parte del mondo e prosperavano molto di più rispetto alle loro controparti nella natura incontaminata. Emise un verso strozzato, elettrizzata, quando il falco uccise; il piccione non si rese neanche conto di cosa lo aveva colpito. Era stato surclassato da un predatore che aveva ogni vantaggio: non solo l’altezza o la velocità ma l’adattabilità. Quei falchi pellegrini erano l’incarnazione vivente di tutto ciò che predicava ai suoi clienti. Un momento… Le ci volle ancora qualche istante prima che le parole al suo orecchio si mettessero in pari con la scena che aveva davanti agli occhi. Si allontanò dalla finestra e fissò, senza realmente vedere, la stanza vuota. «Ripeti… lui vuole che io faccia cosa?».

    Edimburgo, due giorni dopo

    Il nevischio batteva sulle finestre come un gattino che cercava di entrare per ripararsi dal freddo e la stanza era piena di spifferi, che sollevavano lingue di fuoco quando una folata colpiva il caminetto. Ma Alex, seduta sulla poltroncina arancione, era al caldo. Provava quella sensazione di calore ormai da due giorni, da quando aveva chiuso la telefonata con Louise a New York e la promessa di quel patto era come un tizzone rovente sul cuore.

    Sholto Farquhar la guardò sbattendo placido gli occhi. Era un uomo che non conosceva il bisogno di affrettarsi. «Allora, le cose stanno così, Ms Hyde. Abbiamo messo le carte in tavola». Giunse le dita delle mani davanti alle labbra; aveva le guance arrossate. «Cosa ne pensa?»

    «Be’, convengo sul fatto che le serva il mio aiuto», replicò, mostrandosi altrettanto rilassata. «Da tutto quello che mi ha appena detto, trovo notevole che sia riuscito ad arrivare a questo punto senza ulteriori danni alla compagnia. Dovrebbe congratularsi con se stesso per aver contenuto il problema fino a questo momento».

    Sholto si alzò e, attraversata la stanza dalla moquette tartan, raggiunse un tavolo tondo di palissandro, sul quale erano disposti un decanter e un paio di bicchieri di cristallo sfaccettato. Lei lo guardò versare in ciascuno un dito di whisky.

    «Ghiaccio?».

    Alex scosse la testa.

    Annuendo con aria di approvazione, Sholto tornò con i drink.

    «Invecchiato trent’anni», spiegò, porgendole un bicchiere.

    «Il mio preferito».

    Si accomodò sulla soffice poltroncina di velluto di fronte a lei. «Sa, è davvero giovane per essersi fatta una reputazione così impressionante».

    «Lo prenderò come un complimento, grazie».

    «Ho sudato sette camicie per avere il suo numero. Avevo sentito parlare di lei molto prima di riuscire a contattarla».

    «Be’, preferisco non rendermi disponibile alle chiamate non concordate. Accetto solo pochi clienti all’anno. Preferisco lavorare in modo assiduo con poca gente selezionata. Ritengo che quelli che hanno bisogno di me abbiano i mezzi per trovarmi».

    Lui inarcò un sopracciglio. «Anche superare la sua assistente personale non è stata impresa da poco. Ho avuto telefonate più cordiali con l’ambasciata russa».

    Alex ridacchiò. «Non potrei fare a meno di lei».

    «Be’, le sono grato per aver acconsentito a vedermi, in particolar modo di domenica. Sono certo che i suoi weekend siano preziosi».

    «Sono disponibile per i miei clienti in qualunque momento».

    Sholto parve apprezzare la cosa e sollevò il bicchiere. «Sláinte. Alla sua salute».

    «Sláinte».

    Sholto la guardò sorseggiare il liquido ambrato ma Alex non riuscì a dissimulare il calore nella gola quando lo inghiottì. Dopo un momento, leggermente sorpresa, trovò che le piaceva.

    «Nessuno è più dispiaciuto di me per il fatto che si sia giunti a questo punto, ma è una mina vagante», disse Sholto, tornando agli affari.

    «Così pare. Le relazioni clandestine sono come minimo un’imprudenza. Sta esponendo la società Dio solo sa a cosa, in termini di accuse per molestie sessuali. Ma prendere a pugni in faccia un membro del consiglio di amministrazione durante la riunione di famiglia?», disse Alex, mostrandosi – e sentendosi – disgustata. «Lanciare dalla finestra lo schermo di un computer…?». Emise un verso di disapprovazione, scuotendo la testa. «Mai sentito niente del genere. Trovo che sia inadatto al ruolo dal punto di vista comportamentale e fisiologico. Fisicamente, non può farcela. Negli amministratori delegati, ciò che auspichiamo di trovare, se potessimo sbirciare nei loro cervelli, sono alti livelli di testosterone, l’ormone posso farlo, ma bassi livelli di cortisolo, l’ormone dello stress. Lui è il classico mix di testosterone alto/cortisolo alto, ovvero un disastro. Quando la pressione è eccessiva, esplode e questo lo rende un peso».

    Sholto sospirò rammaricato. «Non è necessariamente tutta colpa sua; temo che suo padre sia stato troppo indulgente e sa cosa si dice quando si lesina il bastone».

    Lei inclinò la testa, esprimendo empatia. «Lei ha figli?»

    «Due ragazzi. Torquil e Callum». Ridacchiò. «Dico ragazzi, ma hanno entrambi passato la trentina e mi superano di venti centimetri da ormai quindici anni».

    «E lavorano per la società o sono solo azionisti?»

    «Sono entrambi dirigenti. Tor è il nostro direttore finanziario e Callum presiede la divisione salute a Edimburgo».

    «Cosa pensano di lui?»

    «Erano legati da ragazzi, Callum e Lochie in particolar modo, ma adesso tendono a mantenere le distanze. Sono tutti cambiati e diventati persone molto diverse».

    Alex si soffermò a riflettere. «Quindi quanti membri della famiglia fanno parte del consiglio di amministrazione? Lei, Lochlan…».

    «Torquil e Callum».

    «Ci sono persone esterne alla famiglia?», chiese.

    «Sì, quattro. Due direttori esterni, un ex dipendente e un dipendente – il nostro master blender. Perché?»

    «Sono solo interessata alla composizione del vostro consiglio. Le società famigliari con un’elevata proporzione di rappresentanti tendono meno a fallire, ma questo effetto è vanificato se i membri della famiglia hanno il cinquanta per cento o più degli incarichi direzionali. Questo perché, mentre le imprese famigliari possono beneficiare dei più stretti legami emotivi, le rivalità tra fratelli, le dispute relative all’identità e alle successioni significano anche maggiore facilità di conflitti. Come si è visto alla vostra riunione».

    «Be’, non si può dire che si tratti di una relazione stretta, dal punto di vista genetico, intendo. Lochie è mio cugino di secondo grado e lui e i miei ragazzi sono cugini di terzo grado, perciò non so se questo rientri nella sua ipotesi o meno».

    Dopo una breve riflessione, Alex rispose: «Direi di sì. Sono sufficientemente vincolati da non poter sfuggire l’uno all’altro, ma non al punto da avere un vero legame affettivo. Ci sono donne nel consiglio di amministrazione?»

    «Una. Mhairi MacLeod. È socia anziana della Brodies».

    Alex annuì. «In base al vostro statuto, potrebbe essere utile cercare di inserire almeno un altro dirigente donna. È comprovato che i consigli di amministrazione con diversità di genere sono più stabili e presentano tassi inferiori di dimissioni e meno conflittualità».

    «Ms Hyde, sono certo che lei abbia ragione ma l’unico conflitto a Kentallen scaturisce da un’unica persona: Lochlan Farquhar. Sempre agendo appena entro i limiti delle regole aziendali, intralcia in modo sistematico sia la volontà del consiglio che l’assemblea di famiglia». La sua espressione si incupì. «La mia società dà lavoro a trecentoquarantuno persone del luogo. La nostra distilleria porta annualmente in zona più di un milione di visitatori e doniamo l’un per cento dei nostri profitti, che l’anno scorso ammontavano a sessantacinque milioni di sterline, a enti benefici locali. Il consiglio non è l’unico gruppo che non può permettersi il fallimento della Kentallen».

    «Capisco».

    «Semplicemente non gli si può consentire di continuare così – Dio sa se è andata sempre peggio dalla morte di suo padre. È evidente che sia sofferente e tutti abbiamo cercato di intervenire, ciascuno a modo suo, parlandogli, offrendogli sostegno, una spalla. Ma è un ribelle, deciso a imboccare la strada dell’autodistruzione e adesso temo che voglia portarci tutti a fondo con sé, di proposito o meno». Si accigliò. «Le sue azioni nei mesi passati equivalgono a una cattiva condotta e lui lo sa».

    «Certo, siete stati incredibilmente tolleranti. Se non foste stati un’azienda a conduzione famigliare, a quest’ora sarebbe già stato sbattuto fuori».

    Lui si protese in avanti e il whisky si agitò contro il cristallo del bicchiere. «Mi rendo conto di quanto sia poco ortodosso ciò che stiamo chiedendo, ma credo anche che lei capisca bene la difficoltà in cui ci troviamo. Le modalità consuete per risolvere un problema del genere ci sono precluse e, inoltre, non vorremmo che i rapporti famigliari si deteriorino ulteriormente». Si schiarì la voce. «Può fare ciò che le chiediamo?»

    «Sì».

    «Nel lasso di tempo prestabilito?»

    «Questo dipende da quanto sarà contrario a lavorare con me».

    «Quasi del tutto contrario, azzarderei».

    «Be’, considerato l’atteggiamento e l’entità del compito, sedute settimanali e teleconferenze sono da escludere. Dovrò andare laggiù e lavorare con lui intensivamente». Lo guardò negli occhi. «Ma, sì, ritengo di potercela fare entro Natale».

    Lui sorrise e le tese la mano, inarcando un cespuglioso sopracciglio grigio. «Allora affare fatto?».

    Alex lo guardò, sbattendo adagio le palpebre; non le piaceva che le si mettesse fretta. «Sì», sorrise, stringendogli la mano in una salda presa. «Affare fatto».

    Capitolo due

    Thompson Falls, Montana, 23 gennaio 1918

    La neve si ergeva in grossi cumuli nella luce del mattino, gonfia come un marshmallow e ancora non punteggiata dalle orme degli animali. Il terreno si estendeva davanti a lei, perfettamente immoto e silenzioso come per sottolineare l’assenza di lui – erano passati ormai ventuno giorni da quando era partito per Washington e diciotto ore dalla loro scarpinata notturna da lì, i nove chilometri attraverso la neve fino al treno. Ormai lui doveva essere a New York.

    New York; così lontano da lì. Fino al mese prima, era sembrata a un mondo di distanza, straniera perfino, ma entro sera i suoi stivali avrebbero calcato gli insanguinati campi di battaglia d’Europa. A quel punto avrebbe capito la differenza.

    Lei stava sul gradino del portico, lo scialle di lana una ben misera protezione attorno alle spalle, mentre osservava una volpe emergere tra gli alberi spogli e ossuti e avanzare veloce, immersa fino al ventre nella neve fresca, il manto rossiccio simile a una fiamma vagante.

    La guardò fermarsi – il naso puntato, una zampa ferma nell’aria, come uno dei loro vecchi cani da caccia – individuando un rumore o un odore. Un topo cervino? Una bettongia? Una tamia minore? Se era fortunata, una lepre di prateria? Sembrava magra e bisognosa di quel pasto. Trattenne il respiro quando la volpe si fece immobile, aspettando insieme a lei. Poi l’animale spiccò un balzo, tutte e quattro le zampe in aria, il corpo contratto e il muso puntato in avanti mentre atterrava con un lieve tonfo sprofondando per metà del corpo.

    Poco dopo, riemerse trionfante, il cadavere floscio di un’arvicola tra le mascelle, e lei la osservò trotterellare di nuovo tra gli alberi, sparendo alla vista.

    Poteva essere l’unico essere vivente che avrebbe scorto quel giorno, o quella settimana, e sapeva che il suo gesto era inutile: che senso aveva appendere una stella azzurra a una finestra che nessun altro avrebbe visto? Ma era tutto ciò che aveva per simboleggiare il suo sacrificio. Una stella per onorare lui – e il proprio amore – che combatteva la guerra di qualcun altro.

    Osservò le mura del suo mondo, inviando preghiere nell’etere. Doveva continuare a essere forte. Doveva essere coraggiosa e fare la cosa più difficile: aspettare.

    Port Ellen, Islay, mercoledì 6 dicembre 2017

    Il traghetto attraccò con grazia sorprendente, con lo scafo degli anni Cinquanta crivellato di ruggine che cozzò delicatamente contro i giganteschi respingenti del molo. Alex osservò da dietro gli spessi finestrini di vetro le corde che venivano lanciate, gli uomini in stivali gialli e tute impermeabili tirarle e avvolgerle attorno a imponenti bitte, legandole ben strette e placando il forte moto ondoso che li aveva tormentati durante il tragitto dalla terraferma.

    Si affrettò a sbarcare, ansiosa di stabilità. Non era mai stata un bravo marinaio e sapeva, senza bisogno di controllare, di avere un colorito verdognolo, nonostante il fondotinta Chanel Les Beiges.

    «Miss Hyde?».

    Un uomo robusto dai cespugliosi baffi grigi venne avanti e le sfilò di mano la piccola valigia. «Hamish Macpherson, della distilleria», si presentò con una brusca stretta di mano. «Benvenuta a Islay. Ha scelto proprio una bella giornata».

    Non sapendo se dicesse sul serio, Alex resisté all’impulso di guardare il cielo burrascoso che si agitava a pochi metri sulla sua testa o il mare agitato dietro di sé. «Salve. Grazie per essere venuto a prendermi».

    «Sissignora. Be’, può essere un tantino difficile svoltare al punto giusto se non sa dove cercare. A quanto pare girare a destra dopo il sorbo selvatico è stato troppo vago per alcuni ospiti in passato».

    Lei gli scoccò un’occhiata, ancora incerta se l’uomo fosse ironico o burbero. «Oh, cielo. Immagino però che alla fine vi abbiano trovati».

    «Macché», fece spallucce Hamish. «Nessuno ha mai più avuto loro notizie», disse in tono sinistro, ma un impercettibile luccichio si accese nei suoi occhi nocciola.

    Alex ridacchiò e si lasciò condurre lungo il molo; non ebbe difficoltà a mantenere il passo dell’uomo, nonostante la difficoltà rappresentata dai tacchi sull’acciottolato bagnato – Louise scherzava sempre sul fatto che avrebbe potuto correre la maratona con le Choo – ma il vento soffiava forte alle loro spalle, mandandole i capelli scuri sulla faccia, e Alex si strinse il bavero del giaccone attorno al collo. Reti da pesca arancioni erano disposte in mucchi lungo il muro di pietra, con accanto nasse per crostacei vuote e capovolte. Due pescherecci erano ormeggiati lì e un paio di uomini rovesciavano sui ponti acqua da un secchio. Più avanti, Port Ellen – la seconda città più grande dell’isola – si ergeva di guardia come in attesa della sua ispezione. Una serie di grandi case bianche a schiera, che si estendevano lungo una spiaggia curva, ciascuna bella ma modesta, senza una ghirlanda alla porta o un vaso alla finestra. Più oltre, il terreno si sollevava in piccoli rilievi simili ai bozzi di un materasso.

    Si fermarono davanti a una vecchia Land Rover verde chiaro che sembrava aver partecipato alla Grande Guerra e che era stata non tanto parcheggiata quanto mollata lì in strada, bloccando un trattore blu che, sebbene fermo, continuava a scoppiettare ansimante e a sobbalzare sugli ammortizzatori. Alex vide il conducente che, appoggiato al muro della Co-op locale, fumava una sigaretta e leggeva la bacheca della comunità.

    «Ciao, Euan!», esclamò Hamish, salutandolo con la mano mentre lanciava la borsa di Alex sul sedile posteriore della Land Rover e si issava al posto di guida. Louise aveva già spedito le valigie più grandi con il treno precedente da Londra.

    «Ciao!». Il conducente del trattore ricambiò il saluto, aspirando una profonda boccata prima di gettare a terra la sigaretta e schiacciarla sotto il tacco, e si diresse al proprio veicolo.

    Alex sorrise tra sé mentre si agganciava la cintura: la medesima scena a Mayfair si sarebbe svolta in modo del tutto diverso. Il tappo di un termos spuntava da sotto il coperchio di uno scomparto tra i due sedili anteriori e sembrava che la radio fosse tenuta al suo posto dal nastro adesivo. Alex era sicura che facesse più freddo dentro l’auto che fuori.

    Partirono, superando un altro paio di file di severe case bianche, e quasi immediatamente furono in aperta campagna, fitte siepi bordavano pascoli rigogliosi e l’aria era satura del caratteristico odore della torba. «Quale distilleria è quella?», domandò indicando la ciminiera fumante al di là della baia.

    «Lagavulin», rispose Hamish senza bisogno di guardare.

    «Ah. Il nemico».

    Hamish emise uno strano verso di conferma mentre faceva una brusca svolta a destra in un sentiero che, superate le vecchie rovine di una chiesa, si dirigeva verso le basse colline.

    «E cosa fa alla Kentallen?»

    «Lavoro nell’officina del rame».

    Alex strinse gli occhi, cercando di collocarlo nella vita di una distilleria. Grazie alle eccellenti doti di ricerca di Louise, aveva passato gli ultimi giorni e l’intero viaggio a documentarsi non solo sull’azienda ma sul settore in generale e adesso si sentiva sufficientemente esperta degli aspetti tecnici della distillazione, al punto di poter mettere su lei stessa un’attività del genere se l’avesse voluto (ma non lo voleva).

    «Officina del rame? È dove si realizzano gli alambicchi, giusto?»

    «Sissignora».

    «Vanno tutti battuti a mano. La forma determina la quantità di condensazione e il deflusso determina il carattere del whisky?»

    «Ha fatto i compiti a casa».

    Lei sorrise. Preparazione era il suo secondo nome. «Se ben ricordo, la forma dell’alambicco è la parte più critica del processo di distillazione», aggiunse, pavoneggiandosi un pochino adesso.

    «Sissignora, ma non lo dica ai blender altrimenti useranno i suoi intestini per farne giarrettiere».

    «Intestini per farne giarrettiere», mormorò Alex con un sorriso.

    «Esatto».

    Hamish sembrava non sentire l’esigenza di riempire il silenzio chiacchierando (be’, quel silenzio che c’era al di sopra del fracasso del motore dell’auto) e Alex era grata dell’opportunità di osservare in pace quella che sarebbe stata la sua nuova casa per le successive tre settimane. Il paesaggio era dimesso e tranquillo; si aspettava montagne frastagliate e brughiere spazzate dal vento, ma le collinette erano divise da fatiscenti muri di pietra e la tavolozza di grigio piombo, erica e pino era addolcita dalla garza bianca delle nuvole atlantiche che ovattavano il sole nel cielo. In lontananza vide un piccolo branco di cervi rossi che pascolavano nei pressi di un boschetto, con il maschio che fiutava l’aria imperioso e protettivo.

    «Avete avuto neve?», chiese mentre superavano una stretta curva. Le ruote sul lato sinistro finirono in una buca, facendoli sobbalzare sui sedili.

    «Una spruzzata un paio di settimane fa. Non abbastanza per entusiasmarsi».

    «Stava cominciando ad accumularsi quando ho lasciato New York. Pare che ne sia caduto un metro la sera in cui sono partita. Penso di essere andata via appena in tempo».

    «Non è sempre così?»

    «Come, scusi?»

    «Andare via dalla città. La fuga è sempre all’ultimo secondo». Un’espressione ironica incombeva sul suo viso come quella bassa nuvola atlantica.

    «Mi sembra di capire che lei non viene dalla città», gli chiese, cercando un appiglio in alto al quale aggrapparsi. Non ne trovò nessuno e dovette reggersi con un palmo al finestrino e l’altro sul sedile.

    «Sono nato a sei chilometri da qui e il massimo che sono stato via dall’isola è stato dodici giorni nel 1982».

    «Cosa l’ha reso necessario?»

    «Mia madre in punto di morte in un ospedale di Glasgow».

    «Mi dispiace».

    Hamish le lanciò un’occhiata; c’era un briciolo di disprezzo nel suo sguardo ma se fosse perché la tragedia ormai apparteneva al passato o perché era così palesemente scollegata da lei, Alex non era in grado di dirlo.

    «C’è un ospedale sull’isola?»

    «A Bowmore, dall’altro lato, ma c’è un ambulatorio in città. Non starà male,

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