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La vittima silenziosa
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E-book362 pagine4 ore

La vittima silenziosa

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Info su questo ebook

«Un thriller adrenalinico, pieno di colpi di scena.» 
Robert Bryndza, autore di La donna di ghiaccio

I suoi più oscuri segreti sono sepolti nel passato.
Ma la verità non può essere nascosta a lungo.

Emma è una moglie attenta, una madre amorevole e… un’assassina, seppure involontaria. Per anni ha tenuto nascosto il corpo senza vita del suo insegnante che, quando era solo una ragazzina, l’aveva sedotta. È un segreto che avrebbe dovuto rimanere sepolto per sempre, ma la promozione inaspettata di Alex, il marito di Emma, cambia tutto. Possono finalmente trasferirsi in una casa più grande con il loro bambino. Questo significa che Emma non può lasciare la vecchia casa senza essere sicura di aver distrutto ogni prova. Ed è così che raggiunge il giardino, con l’intenzione di disseppellire il cadavere e sbarazzarsene una volta per tutte. Quello che non può sapere è che, nel punto in cui avrebbe dovuto trovarsi il corpo, non c’è più nulla. Qualcuno deve averlo trovato. Sconvolta, Emma confessa tutto al marito. Ma è solo l’inizio dell’incubo. Perché Alex scopre cose di sua moglie che non avrebbe mai potuto immaginare. E che difficilmente riuscirà a dimenticare…

N°1 in Inghilterra, Stati Uniti e Australia

A volte la verità può fare più male di qualunque bugia

«Un thriller adrenalinico, pieno di colpi di scena. Mi ha dato i brividi e ho adorato ogni minuto di questa lettura!»
Robert Bryndza, autore del bestseller La donna di ghiaccio

«L’esempio perfetto di un thriller avvincente. Non riesci mai a capire quale sia la verità fino al finale sorprendente. Un romanzo fantastico.» 
John Marrs, autore del bestseller La coppia quasi perfetta

«Geniale e deliziosamente inquietante. Fate attenzione a iniziare la lettura solo quando sapete di potergli dedicare tutto il giorno, o non sarete in grado di posarlo.»
Sibel Hodge, autrice del bestseller Guarda dietro di te

«Oscuro, scioccante e terribilmente intrigante.»
Mel Sherratt, autrice del bestseller La ragazza della porta accanto
Caroline Mitchell
è una detective della polizia che ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, diventando in breve tempo un’autrice bestseller di «USA Today». Lavorando a stretto contatto con le vittime di crimini violenti, ha sempre trovato di ispirazione la loro tenacia. Nata in Irlanda, vive nell’Essex con il marito e i tre figli. La vittima silenziosa è il suo primo libro pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2018
ISBN9788822727008
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    Anteprima del libro

    La vittima silenziosa - Caroline Mitchell

    Capitolo uno

    Emma

    2017

    Jamie corse verso di me ridendo con il naso rosso, calpestando rumorosamente le foglie cadute con gli stivaletti di gomma. Mio marito gli comprava sempre abiti più grandi del necessario, in modo che ci potesse crescere dentro, così diceva. Mi ripromisi di portare nostro figlio a comprare dei vestiti della misura giusta. Presi un fazzoletto dalla tasca e gli asciugai il nasino.

    «Spingimi, mamma!», strillò, con gli occhi incredibilmente azzurri accesi di un’eccitazione che solo un bambino può provare. A soli tre anni e mezzo i suoi sensi non erano ancora stati offuscati dal mondo. Mi inginocchiai e gli chiusi il cappottino blu, sistemandogli i guantini prima di dargli il permesso di scappare verso le altalene. Un velo di nebbia aleggiava all’orizzonte, rendendo il piccolo parco giochi troppo uggioso per le madri e i bambini che lo frequentavano durante l’estate. Io ci andavo da quando ero piccola. Non avrei certo smesso ora. L’aria fresca mi avrebbe fatto da sedativo in seguito, dandomi il tempo di rimettermi a pari con il lavoro. Lo guardai correre verso le altalene, il corpicino che ondeggiava da una parte all’altra, con i vestiti che gli ingoffavano i movimenti.

    Trasalii al tocco di una mano sulla schiena. «Oh! Mi hai spaventata», dissi afferrando il braccio di mio marito.

    «Sei molto nervosa», disse, e il suo viso gentile mi calmò i nervi. «Ho staccato presto, ho pensato di darvi un passaggio a casa. Così non dovrete farvela a piedi nella nebbia».

    Lo baciai sulla guancia, aveva la pelle stranamente liscia. Mi era dispiaciuto dire addio alla sua barba, ma la comparsa di qualche pelo grigio aveva decretato la sua fine. Con il suo abito su misura e il cappotto di misto lana, era l’incarnazione dell’uomo d’affari. Ci teneva all’abbigliamento, e non era l’unico. Mettevo a frutto i miei contatti tra i rivenditori di abiti di marca di seconda mano, e ricercavo i capi vintage che mi piacevano già da ragazza – un look che aveva attirato l’attenzione di mio marito quando ci eravamo conosciuti.

    «Altri cinque minuti», dissi, tornando a guardare Jamie, che grugniva nel tentativo di infilare la gamba nell’altalena.

    «Papà!», strillò, e guardai Alex che lo sollevava, lo faceva girare e poi lo lasciava cadere nel sedile, dandogli una bella spinta. Era un padre forte e capace ma ciononostante mi ritrovai a mordermi il labbro per il mio esagerato istinto di protezione. Alex notò il mio sguardo preoccupato e riportò l’altalena a un ritmo più moderato, malgrado le grida di Jamie che implorava di essere spinto più in alto.

    «Porto buone notizie», disse Alex, guardandomi furtivo con la coda dell’occhio. Un’occhiata che mi fece capire che la sua idea di una buona notizia poteva essere diversa dalla mia.

    «Non avrai comprato quella macchina, vero? I motori diesel sono troppo inquinanti», dissi seguendo con lo sguardo Jamie che dondolava su e giù. Alex non sbagliava mai i tempi. Era bravo ad aspettare che fossi distratta da nostro figlio per sganciare le sue bombe. Sapeva che non mi sarei mai messa a litigare davanti a lui.

    «Ma smettila», disse Alex, «sai che non mi permetterei mai». Dalle sue parole traspariva l’accento di Leeds. Al lavoro lo mascherava, cambiando ritmo e tono per imitare i suoi clienti dell’alta società. Ma con me restava se stesso, e mi piaceva. «No, è una cosa di lavoro…».

    Inspirai profondamente. La nebbia stava scendendo così fitta che ne sentivo il sapore sulla lingua.

    Alex mi fece un sorriso. «Mi hanno offerto la promozione, sai…».

    «A Leeds», finii la sua frase, sforzandomi di nascondere la mia riluttanza, perché non avrei saputo spiegargliela con una motivazione valida. Quella vera non potevo rivelarla.

    «Sì», disse, dando una spinta a Jamie. «Ho ottenuto il lavoro».

    Aprii le braccia e lo strinsi, mentre il cuore mi piombava come un sasso nello stomaco. «Bravo, amore mio. So quanto significa per te».

    «Non solo per me». Si tirò indietro, cercandomi con gli occhi scuri. «Per noi. Trasferirci a Leeds sarà un nuovo inizio. Tu potrai espanderti con i tuoi affari, e iscriveremo Jamie a una scuola privata».

    «Spingi, papà, spingiiii», strillò Jamie, scalciando con i piedini per acquistare velocità.

    Mi rimisi sulle labbra il sorriso, che mi era scivolato via. La mia ritrosia a trasferirci era un tasto dolente da una vita. E tutto perché non ero abbastanza forte da affrontare il mio passato. «Potrebbe volerci un sacco di tempo per vendere la casa», dissi aggrappandomi alla speranza di rimandare la partenza.

    «Ed è qui che arriva la seconda buona notizia», disse Alex. «Ho trovato una persona che sarebbe interessata a comprare».

    Avrei dovuto saperlo. Mio marito gestiva la filiale di Colchester di un’agenzia immobiliare. Anche se era specializzato nella vendita di immobili di fascia alta, a volte ricevevano anche richieste da compratori con meno denaro da spendere.

    Sollevò Jamie dall’altalena e continuò a parlarmi senza voltarsi mentre lo stringeva a sé. «Sai come si dice? Le buone notizie arrivano sempre a tre a tre. Tornando a casa dovremmo comprarci un biglietto della lotteria».

    Tenendo Jamie con il braccio sinistro, mi appoggiò il destro sulla spalla e andammo verso la macchina. Avrei dovuto sentirmi al sicuro, protetta dalla sua forza, ma i pensieri si rincorrevano senza sosta mentre metabolizzavo la notizia del trasloco. Assicurai Jamie nel seggiolino e mi si strinse lo stomaco per l’improvviso senso di terrore. Non potevo più nascondermi dal mio passato. Era arrivato il momento di tornare laggiù. Di affrontare quel che avevo fatto.

    Capitolo due

    Alex

    2017

    «Bellissimo, no?». Indicai il paesaggio solitario con un gesto della mano, in piedi sulla porta sul retro. Le mie parole contraddicevano in pieno i miei pensieri. Non vedevo l’ora di andarmene da quel posto dimenticato da Dio. Sorrisi dolcemente a Mark e Kirsty, la giovane coppia venuta a vedere la nostra casa. Non che l’avessi mai sentita come casa. Anche se Emma aveva messo il mio nome sugli atti, mi ero sentito un intruso dal primo giorno in cui ci avevo messo piede. Era pittoresca, con le sue tavole di legno sulle facciate e le tegole rosse, ma per sistemare gli interni ci sarebbe voluta una consistente iniezione di liquidi, ed era piuttosto dimessa in confronto alle case da rivista patinata in cui passavo le mie giornate lavorative. Non c’era da meravigliarsi se mi vergognavo di invitare a casa i colleghi.

    Fornii il pacchetto completo dell’agente immobiliare ai nostri visitatori, infiocchettando i difetti della casa con termini come rustico, pittoresco e affascinante. «Potete personalizzarla come volete», dissi. «C’è moltissimo spazio in cui far risaltare il vostro carattere». Si capiva dalle teste che annuivano che il giro del nostro cottage stava andando bene. Guardai l’orologio, con una fitta di senso di colpa. Era la prima volta che facevo qualcosa alle spalle di mia moglie. Avrei voluto dirle della visita, ma aveva già sabotato molte volte i miei tentativi di traslocare. Senza mai ammetterlo. Amavo Emma con tutto il mio cuore: era intelligente, capace e sempre misteriosa. La vita non era mai stata noiosa in sua compagnia. La cosa strana era che sotto sotto sapevo che anche lei voleva traslocare. Forse si sentiva in colpa ad abbandonare la casa di famiglia. Ma suo padre era morto da anni. Qualunque fosse il motivo, quel posto la teneva in pugno e si rifiutava di lasciarla andare. Ma questa volta ero pronto, e avevo una risposta per ogni scusa. Quelle due persone davanti a me non erano i primi artisti attratti da Mersea Island. Mark farneticava sul reticolo di ruscelli e ponticelli che intersecavano gli acquitrini, mentre sua moglie si sdilinquiva per le forme, le trame e i colori della vicina spiaggia. Annuii e confermai ogni volta che dovevo, cercando di condividere il loro entusiasmo. Mentivo. Dove loro vedevano barche straordinarie abbandonate sulla battigia, io vedevo scheletri di legno marcio che emergevano dalla melma. Mentre parlavano dello Strood, la strada che collega Mersea al resto del mondo, snocciolavano romantiche nozioni di storia dell’isola. Non mi feci scappare l’occasione di approfittarne.

    «Si vedono ancora tracce dell’occupazione romana sparse per tutta Mersea», dissi, avendo rinfrescato le mie conoscenze la sera prima. «Il causeway, l’antica strada rialzata che collega l’isola al resto del Regno, è l’unica via per andare e venire». Ero ben consapevole dell’importanza dello Strood. Odiavo sentirmi in trappola quando la marea ci tagliava fuori dal resto del mondo. «Mio padre faceva l’archeologo. Raccontava molte storie affascinanti. Se vi interessa, il Museo di Mersea è sul lato ovest dell’isola».

    «Non trova che sia una seccatura essere tagliati fuori dalla marea?», disse Mark.

    Scossi la testa. «La gente di qui lo chiama il causy, con un vezzeggiativo. È quello che rende unica quest’isola. Basta tenersi aggiornati sugli orari delle maree». Ero un ragazzo di città, forse era per questo che non riuscivo ad accettare l’idea di mettere radici a Mersea. Dio solo sa quanto ci avevo provato. Era stata un’idea di Emma trasferirci per prenderci cura di Bob, il padre, prima che l’enfisema se lo portasse via. Non potevo tollerare che venisse parcheggiato in una casa di cura, così acconsentii. Ma ormai non c’era più niente che ci trattenesse.

    Li portai a vedere la cucina e aprii la porta sul retro. «Il vialetto di ghiaia è abbastanza largo e può contenere diverse auto se invitate gente». Indicai i numerosi alberi da frutta oltre la legnaia che punteggiavano il nostro lotto di duemila metri quadri. «Vedete quel cancello dietro gli alberi? C’è un altro terreno recintato da sedicimila metri quadri compreso nella casa. Da qui non si vede, ma c’è una panca di legno ricavata nel tronco della grande quercia in fondo. Potreste estendere il giardino abbattendo il cancello sul retro e aprendo tutto».

    «Sarebbe davvero un giardino enorme», disse Mark, inspirando profondamente. «Mi piace l’isolamento. Potremmo correre in giro nudi e non ci vedrebbe nessuno».

    «Non lo faremmo, naturalmente», rise Kirsty. «Facciamo un po’ gli hippy ma io mi fermo prima del nudismo».

    Sorrisi, strofinandomi le mani mentre parlavano. Avevo una buona sensazione su di loro, e sapevo che sarebbe arrivata un’offerta. Colpiti dalla mia parlantina, Mark e Kristy sembravano abbastanza soddisfatti da ignorare l’umidità che si arrampicava sui muri e i mattoni fatiscenti che richiedevano urgentemente manutenzione. Si illuminarono tutti eccitati quando gli feci la mia richiesta, del tutto onesta. I miei colleghi avrebbero chiesto di più, ma la coscienza non me lo permetteva. Riflettei sul fatto che i miei scrupoli mi erano valsi una reputazione migliore di altri squali che facevano affari nel mio ufficio.

    «Mia moglie voleva trasformare il terreno in un orto gigantesco, ma alla fine non si è mai decisa». Abbassai lo sguardo sulle espadrillas ricamate di Kirsty. «Ha degli stivali da pioggia? C’è molta nebbia, oggi. Sarebbe meglio tornare quando il tempo si sarà rimesso un po’».

    «Non ce n’è bisogno. Ho visto tutto sulla piantina. È proprio quello che cerchiamo», disse Kirsty sorridendo.

    «Possiamo andarci in macchina se preferite», suggerii. «C’è una stradina che porta in fondo al terreno. È un po’ dissestata, ma se volete possiamo prendere la mia auto».

    «Davvero, non ce n’è bisogno», ripeté Kirsty, rivolgendo al marito un’occhiata implorante.

    «L’abbiamo messa sul mercato da pochissimo, quindi vi consiglio di non aspettare troppo». Avevo a malapena finito la frase quando Mark prese la parola.

    «Il prezzo è trattabile?».

    Scossi la testa. «Mi dispiace, abbiamo fissato una richiesta molto competitiva per venderla in fretta. Vedete, mi hanno proposto un lavoro a Leeds. Non posso permettermi di restare da queste parti. Ho altre persone in attesa, e le trattative verranno chiuse in fretta. Non capita tutti i giorni che una proprietà del genere…».

    «La prendiamo», disse Kirsty d’un fiato, afferrando il braccio del marito.

    Lui alzò gli occhi al cielo. «Meno male che dovevamo fingerci disinteressati. Sì, vorremmo proprio offrire la somma richiesta».

    Strinsi loro la mano con una presa salda. «State facendo la cosa giusta. Questa proprietà ha un grande potenziale, vale il prezzo richiesto e anche di più. È un affare».

    «È perfetta», disse Kristy, guardandosi intorno come se fosse arrivata nel castello di Windsor. Evidentemente vedeva una bellezza che io non riuscivo a cogliere. Erano gli acquirenti giusti, e mi sentii confortato.

    La mia avversione per Mersea aveva radici profonde. Non avevo niente contro la gente del posto, e il paesaggio a volte era davvero mozzafiato, ma non sopportavo l’isolamento. Non riuscivo a sfuggire al senso soffocante di claustrofobia quando la marea si alzava e l’isola era tagliata fuori da tutto. La sera la nebbia scendeva come una coperta, così fitta che non riuscivi a vederti le mani. Emma si metteva a ridere quando mi raccontava la vecchia storia del fantasma che infestava lo Strood. Io non credevo agli spettri, ma in quei momenti mia moglie toccava la mia peggiore paura. Alcune anime erano destinate a restare lì per sempre e io non volevo essere una di loro.

    In passato Emma mi era sembrata contenta quando le avevo mostrato le foto di alcune case che potevamo benissimo permetterci, ma quella mattina, quando le avevo dato la notizia al parco giochi, avevo percepito la sua esitazione. Ero di fronte a un bivio: potevamo andarci piano e valutare bene i pro e i contro, o potevo spingere sull’acceleratore. In fondo non lo stavo facendo soltanto per me stesso.

    Ora che avevo in pugno i compratori, sentivo un misto di sollievo ed eccitazione. Speravo solo che con il trasferimento mia moglie potesse lasciarsi alle spalle i fantasmi del passato.

    Capitolo tre

    Emma

    2017

    «Fai attenzione», dissi a Josh mentre esaminavamo un bellissimo abito di seta che ci era appena stato consegnato. Comprato da Oxfam dopo essere stato indossato una volta sola, era stato un vero affare. Amavo il mio lavoro e spesso immergermici completamente era il miglior modo per arrivare viva alla fine della giornata. A Qualcosa di Prestato potevo perdermi tra oggetti meravigliosi e lasciarmi alle spalle il mondo reale. Non ero l’unica persona ad amare il mio negozio; piaceva anche a Josh. Il mio assistente alla vendita aveva ventisei anni e, per sua stessa ammissione, quello era il lavoro in cui aveva resistito più a lungo. Ero una grande fan delle seconde possibilità, e avevo deciso di ignorare le sue referenze mediocri quando gli avevo offerto il lavoro sei mesi prima. Josh non aveva l’aria del tipico commesso di una boutique di abiti da sposa, con i suoi capelli castani davanti agli occhi e i jeans skinny neri, ma si era dimostrato un vero dono del cielo, mettendo in piedi il sito internet e aiutandomi giorno dopo giorno al negozio.

    «Insomma, hai parlato con i tuoi genitori?», domandai, preferendo concentrarmi sui suoi problemi invece che sui miei.

    Sorrise, accarezzando con attenzione il delicato tessuto e scuotendo leggermente l’abito. «Lavoro in una boutique di abiti da sposa. Penso sia un indizio abbastanza eclatante».

    «Allora finalmente farai coming in», dissi, e lui scoppiò a ridere. «Che c’è?»

    «Coming out. Si dice coming out», mi corresse, continuando a ridacchiare mentre portava l’abito sul retro in attesa del ritiro. Avevo stretto un accordo con le tintorie locali, e tutti i miei abiti venivano ritirati e puliti prima di essere esposti.

    Il campanello vintage sull’ingresso tintinnò e Theresa aprì la porta con il sedere. Lo staff era al completo quel giorno perché dovevamo presentare ai clienti la collezione invernale. «Latte scremato, caffellatte con cacao e un disgustoso tè verde per te», disse mia sorella, appoggiando tutto sul tavolo bianco.

    «Molte grazie», dissi, e subito il campanello suonò un’altra volta. Mi lamentai tra me e me. Il fatto che di lunedì fossimo chiusi non fermava una certa cliente che si presentava da quando avevamo aperto. Considerando la particolare natura della nostra attività, non c’erano molte possibilità di veder tornare qualcuno. Maggie era l’eccezione alla regola e non riuscivo a dirle di no. Aveva ottant’anni e non arrivava al metro e mezzo: un colpo di vento poteva portarsela via. Sorrise, con il rossetto rosa brillante esclissato solo dall’ombretto blu zaffiro sulle palpebre. Presi il tè dal tavolo e le indicai la poltrona perché si mettesse a sedere. L’interno della nostra boutique sembrava uscito da una rivista di abiti da sposa. Amavo i mobili color avorio, la spessa moquette color crema e il profumo delle rose bianche sparse in vasi antichi in giro per il negozio. I due grandi camerini erano separati da tende francesi di design che conducevano a una piattaforma circondata da file di lucine e specchi a figura intera. Tutto pensato per una principessa nel suo giorno speciale. Era proprio come me l’ero immaginato quando avevo incontrato mio marito nove anni prima. La maggior parte degli uomini sarebbe scappata di corsa da una donna con la passione per gli abiti da sposa. Alex invece mi aveva aiutato a finire gli studi di economia, incoraggiandomi e spronandomi continuamente. Ero orgogliosa di aver ripagato la fiducia che mi aveva dimostrato. Non ce l’avrei mai fatta senza il suo incitamento a sognare in grande.

    Mi misi a sedere accanto a Maggie mentre si guardava intorno, gli occhi scintillanti che riflettevano il panorama del negozio. «Come stai, tesoro? Sei pronta per il gran giorno?»

    «Sono venuta a parlarti di quel vestito», disse, corrucciata. «Non sono sicura che faccia per me. Ho sentito che ne hai di nuovi e speravo di poterli provare».

    «Davvero? A me sembrava che ti stesse benissimo. Come mai hai cambiato idea?».

    Maggie rovistò nella borsetta, e prese un’istantanea spiegazzata che le avevo scattato durante la sua ultima visita. «Al pub si sono messi a ridere di me; hanno detto che sembro una vecchia capra vestita da agnellino. Bastardi».

    «E da quando in qua ti interessa quello che pensano gli altri?», le chiesi, vedendo un lampo di saggezza nei suoi occhi verdi. «E ora dove vai? A trovare Bernard?». Incrociai le gambe, inclinando la testa per osservare meglio la sua espressione.

    Mi sorrise con aria furba. «Ci sono già andata. Mi ha detto che non devo starli a sentire».

    «Mi sembra giusto. E poi che ne sanno quei vecchi relitti del pub di abiti da sposa?»

    «Vero», disse, raccogliendo le sue buste. «Hai ragione. Ora devo andare. Questo matrimonio non si organizza mica da solo».

    «E sarà meglio che io mi rimetta al lavoro», dissi, sollevata che almeno quel giorno si mostrasse disposta a ragionare. «Salutami tanto Bernard».

    Era un incantesimo da cui Maggie non aveva alcuna intenzione di svegliarsi. Per lei, era meglio che affrontare la realtà. Bernard non la stava aspettando a casa, era al cimitero di Colchester, morto alla vigilia del loro matrimonio sette anni prima.

    «Sei proprio un cuore tenero», disse Josh dopo che Maggie fu uscita. «Per un attimo ho pensato che le avresti lasciato provare gli abiti nuovi». L’ottanta per cento del nostro magazzino era composto da vestiti di fascia alta di seconda mano, ma all’inizio di ogni stagione investivo in nuovi arrivi.

    «Non credo che il cuore di Theresa reggerebbe», risi, sapendo che per la fine della sessione ci sarebbe stato più trucco sugli abiti che sul volto di Maggie. Avevo da parte una selezione speciale di scontatissimi vestiti che avevo mandato in pensione solo per lei. «È una brava donna, e se la rende felice che male c’è?». Mi sentivo vicina a Maggie. Alcune persone continuavano a vivere anche quando erano sottoterra.

    Capitolo quattro

    Luke

    2002

    Respirai l’odore dell’erba appena tagliata mentre il prato della scuola riceveva l’ultima passata dell’estate. Per me segnava un nuovo inizio, e mentre i miei studenti di seconda liceo entravano in classe chiusi le finestre e li salutai con un gran sorriso.

    «Buongiorno», dissi alzando la voce per reclamare la loro attenzione. «Mi chiamo Luke Priestwood e sostituisco il signor Piper. È andato in pensione anticipata per motivi di salute». Sembravano sorpresi ma contenti di vedermi, e non mi soffermai troppo su quella bugia. Il signor Piper in realtà era stato mandato via. Gli esami dell’anno precedente di Arte e Design erano stati vergognosi. Secondo la preside, ero stato assunto per portare un po’ di sangue fresco. Grazie a questa coincidenza e al mio indiscutibile talento, avevo ottenuto il posto. Vagai con lo sguardo sulla classe. Avevo ventitré anni, solo sette in più della maggior parte dei miei alunni, e avevo appena ottenuto l’abilitazione. Non che mi sentissi intimidito. Osservai i maschi tirarsi su i pantaloni prima di sedersi. Senza culo e senza fascino, accanto a me impallidivano, insignificanti. Il chiacchiericcio nella stanza si calmò e guardai i loro volti pieni di aspettative. La mia presenza stava già facendo effetto sulle studentesse. Grazie alle mie sessioni mattutine di esercizi ero snello e tonico, molto diverso da Piper, che riusciva a malapena a fare le scale senza tossire catarro, con la sua pancia tonda. Mi leccai le labbra con una punta di soddisfazione. Era bello tornare nella scuola in cui avevo studiato. Mi sembrava di aver fatto strada. Di avere il controllo della situazione.

    Mi allentai la cravatta e osservai le studentesse che chiacchieravano. Avete presente la canzone Sedici anni, mai stata baciata? Be’, non credo fosse il loro caso. Erano uno stuolo di adolescenti tipiche: strati e strati di trucco, gonne strette e corte, zaffate di profumi dozzinali. Sotto le restrizioni dell’uniforme scolastica, non avevano molti misteri per me. L’urlo stridulo della campanella mi riscosse dai miei pensieri, segnalando l’inizio delle lezioni. Andai verso la porta e strinsi la maniglia per chiuderla. Ma non ci riuscii, perché un’ultima studentessa la riaprì spingendo dall’altra parte e si infilò in aula.

    Anche se era in ritardo, era deliziosamente vivace, con curve in tutti i posti giusti. Carica di libri, la borsa le sbatté contro la coscia quando si fermò di colpo. Mi guardò per un attimo, e sentii una scintilla immediata di attrazione mentre le sue guance si tingevano furiosamente di rosa. Aveva capelli scuri e ondulati con la riga da un lato che le incorniciavano il viso. Si spostò una ciocca ribelle dalla guancia, affannata dalla corsa per arrivare in tempo. La guardai con divertita curiosità. Dentro di me ero elettrizzato: una magnifica giovane creatura destinata a essermi subordinata per l’anno a venire.

    «Mi scusi, signore», mormorò imbarazzata, poi andò a sedersi in fondo all’aula.

    Tirandosi giù la gonna si mise a sedere. Incrociò le gambe abbronzate. Non aveva trucco né gioielli, una bellezza innocente ancora incontaminata dal mondo moderno.

    Iniziai la lezione senza esitare, spiegando il programma che intendevo seguire. Lei si presentò come Emma. Faticavo a tenere a bada i pensieri. Era una ragazzina provocante e io era appena agli inizi della carriera, non potevo permettermi di farmi beccare in una relazione illecita. «Prendete i vostri libri, per favore…», dissi, schiarendomi la gola e cercando di concentrarmi. Ma sapevo che mi stavo solo prendendo in giro. Non avevo testa per la storia dell’arte. La mia mente era focalizzata solo sull’alunna pensierosa in fondo all’aula.

    Capitolo cinque

    Emma

    2017

    Le chiavi tintinnarono quando chiusi la porta del negozio. Era stata una giornata lunga e non vedevo l’ora di andare a casa e togliermi le scarpe. «Allora ci vediamo domani».

    Theresa sorrise. Sui suoi capelli biondi lunghi fino alle spalle si rifletteva l’ultimo raggio di sole. «Non passare dall’asilo, non c’è bisogno, oggi vado io a prendere Jamie». Theresa era la madrina di mio figlio. Non avevo altri fratelli, quindi non c’erano stati chissà quanti candidati tra cui scegliere, ma nessuno poteva essere più adatto a quel ruolo della mia sorellona. Aveva trentasette anni, non aveva figli ed era più che felice di farmi da babysitter. Lei e Jamie andavano d’accordissimo, lo viziava da far schifo quando stavano insieme. «Sei sicura?», le dissi. «Come mai questa novità?».

    Sollevò un sopracciglio con il sorriso di chi tramava qualcosa. «Alex mi ha chiesto di badare a lui per qualche ora. A quanto pare ha qualcosa in serbo per te». Alex era un romantico vecchio stile e amavo i suoi piccoli gesti spontanei – dopo quasi dieci anni, era ancora capace di farmi emozionare.

    Abbassai la serranda del negozio, ringraziai Theresa e me ne andai. Ma mentre mi avvicinavo alla macchina, iniziai a innervosirmi. Certo, Alex mi faceva spesso delle sorprese, ma stavolta avevo una strana sensazione. E se Theresa avesse frainteso? Alex aveva in serbo qualcos’altro?

    Pagai il parcheggio ed entrai nel multipiano di Osbourne Street. I miei tacchi risuonavano minacciosi nelle profondità dell’edificio di cemento semivuoto. L’areazione era pessima, odorava di vecchio olio per motori e gasolio. Non vedevo l’ora di uscire da lì. Il livello C era pieno quella mattina quand’ero arrivata, ma ora, a parte una Mercedes arrugginita nell’angolo in fondo, il mio maggiolone giallo era rimasto tutto solo. Mi sentii improvvisamente vulnerabile, con i sensi all’erta, e affrettai il passo. Non mi accorsi del giornale infilato sotto il tergicristallo finché non aprii la portiera. Strano, pensai, prendendolo. Ero abituata ai volantini, ma non mi era mai capitato un giornale intero. In assenza di cestini lo gettai sul sedile del passeggero e mi chiusi a chiave nel mio giallo guscio protettivo. Accesi il motore, ingranai la marcia e gettai un

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