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Il peso di uccidere
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E-book317 pagine4 ore

Il peso di uccidere

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Info su questo ebook

«Sa creare colpi di scena e suspense a non finire.» Robert Bryndza

Autrice del bestseller La tela dell'assassino

Lizzy Gardner è una detective privata e sa che cosa significa essere tormentati dal proprio passato. Nei suoi incubi il trauma del rapimento da parte di un serial killer è ancora vivido. Quando una donna in punto di morte la implora di riaprire il caso sulla scomparsa di sua figlia, Lizzy non riesce a dire di no. Sono passati più di vent’anni da quando Carol Fullerton è sparita nel nulla. Di lei fu ritrovata solo la macchina abbandonata ai lati di un’autostrada californiana. La polizia archiviò il caso come un allontanamento volontario, ma l’istinto suggerisce a Lizzy che la verità non è così scontata… Ha appena cominciato a investigare sul caso di Carol, quando una donna si presenta alla sua porta. Di sua sorella Diane non si sa più nulla da mesi e Lizzy è convinta che la sparizione sia legata all’ossessione di perdere peso grazie ai consigli di un guru specializzato in problemi di obesità. La detective sa che la polizia ha già tentato inutilmente di salvare sia Carol che Diane a suo tempo. Adesso tocca a lei.

Un’autrice da oltre 1 milione di copie
Bestseller di «New York Times» e «USA Today»

«Una vicenda incredibilmente spaventosa frutto di una spietata ferocia criminale.»
Kirkus Reviews

«Ragan orchestra questo thriller agghiacciante con una precisione così affilata da lasciare i lettori senza fiato.»
RT Book Reviews

T.R. Ragan
È cresciuta a Lafayette, in California. Appassionata viaggiatrice, prima di dedicarsi alla scrittura ha lavorato come segretaria legale per una grande azienda. Ora vive a Sacramento con il marito e i suoi quattro figli. I suoi libri hanno riscosso un notevole successo e sono stati tra i bestseller del «New York Times» e del «Wall Street Journal». Prima di Il peso di uccidere, la Newton Compton ha pubblicato La tela dell’assassino.
LinguaItaliano
Data di uscita25 feb 2019
ISBN9788822731272
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    Anteprima del libro

    Il peso di uccidere - T.R. Ragan

    Capitolo 1

    Finalmente libera

    Diretta a nord sull’Interstatale 5, Carol Fullerton, sedici anni ma con l’aspetto di una trentenne, era combattuta tra un senso di sconfinata libertà e una profonda apprensione. I finestrini della Ford Torino 1969 erano abbassati.

    Il vento le scompigliava i capelli: libertà.

    Il motore emetteva un leggero sibilo: ansia.

    Nonostante la patente le fosse arrivata per posta due giorni prima, corredata dalla foto di una ragazza con stopposi capelli biondi e aria intontita, le sembrava di avere pianificato quel giorno da un’eternità.

    Clic. Pssst. Sssss.

    Ecco di nuovo quel sibilo.

    Il serbatoio era mezzo pieno. No, non stava finendo la benzina. La sua migliore amica, Ellen, le aveva venduto la macchina per duecento dollari. Ellen aveva un anno più di lei. Le loro scorribande in giro per Sacramento su quell’auto che chiamavano la nostra carrozza avevano lasciato una lunga scia di ricordi. La macchina offriva loro una relativa libertà e le portava ovunque volessero andare.

    Ma adesso quel sibilo la preoccupava.

    Doveva trovare una stazione di servizio e farle dare una controllata da un meccanico. Davanti a lei, però, c’era soltanto un’infinita distesa di asfalto.

    Pigiò a fondo sull’acceleratore, sperando di trovare aiuto prima che fosse troppo tardi. Il motore emise un rombo e poi perse colpi, come se fosse saltato un collegamento. E quando Carol vide uno sbuffo di fumo bianco levarsi dal cofano, capì che era nei guai.

    Accostò sul ciglio della carreggiata, spense il motore, scese e aprì il cofano.

    Il motore sibilava e sputacchiava.

    Due auto le sfrecciarono accanto. Prese un vecchio maglione sul sedile posteriore e lo usò per pulire l’astina e controllare il livello dell’olio. La coppa era piena. Allungò un braccio attraverso il finestrino abbassato e prese una gomma da masticare e una mappa. Decise di lasciar raffreddare un po’ il motore prima di provare a riavviarlo.

    Si mise a sedere sulla ghiaia vicino alla ruota anteriore destra e si infilò in bocca la gomma da masticare. Attorno a lei c’erano soltanto vuote distese di campi e pini in lontananza.

    Stando alla mappa, lì vicino c’era un parco nazionale. Nel peggiore dei casi sarebbe andata in quella direzione e avrebbe cercato una guardia forestale o perlomeno un telefono pubblico.

    Capitolo 2

    Oggi è il gran giorno

    Montagne della Sierra, 2010

    «Sali sulla scala».

    «No».

    «Vuoi andartene da qui o no?».

    Quelle parole attrassero la sua attenzione. La donna sul letto girò la testa verso di lui. Non sembrava una campeggiatrice felice.

    «Oggi potrebbe essere il tuo giorno fortunato. Le tue braccia sono la metà rispetto a quando ti ho conosciuta. Guarda che roba!», disse mostrandole un succinto abito estivo con le spalline sottili. «Per l’occasione, ho persino comprato questo».

    «Non mi lascerai mai andare», rispose lei, facendo ricadere la testa sul cuscino appiattito.

    Lui lanciò un’occhiata al tavolo da pranzo e notò che aveva mangiato l’insalata e i fagiolini, ma non i biscotti al cioccolato. Era sorprendente quello che si poteva fare con la motivazione giusta. Attraversò a grandi passi la stanza e si piazzò dall’altra parte del letto per vederla meglio.

    La donna indossava un’enorme giacca di pigiama che le arrivava alle ginocchia. I suoi zigomi erano più pronunciati e il triplo mento era scomparso.

    «Sì», rispose lui. «Ritornerai a casa. Ormai sembri un’altra persona».

    Lei lo ignorò.

    «Forza, alzati! Voglio vedere come ti sta il vestito».

    L’aiutò a far scivolare le gambe oltre il bordo del letto. I piedi si posarono lentamente sul pavimento facendo tintinnare la lunga catena.

    Ci aveva messo tre settimane più della media per perdere quattro miseri chili, ma la sesta settimana doveva esserle scattato dentro qualcosa e aveva cominciato a impegnarsi sul serio, perché soltanto a quel punto aveva cominciato dimagrire.

    Lui prese la cartella clinica sul comodino e la scorse. «Bene. Bene. Sembra che tu abbia seguito scrupolosamente il programma. Vestiti pure», disse, dirigendosi verso la cucina.

    Tolse i piatti dal piccolo tavolo di legno, ma lasciò i biscotti al cioccolato. Quella donna era un autentico disastro, pensò. La maggior parte delle ospiti lavava i piatti e teneva in ordine le proprie cose, ma Diane Kramer era la sciattezza fatta persona. Sporca e trasandata. Quando ritornò accanto al letto, che fungeva anche da divano, constatò con grande piacere che il vestito le stava a pennello.

    Oggi era decisamente il gran giorno.

    «Sei stupenda», le disse, sollevando una mano verso il suo viso per scostarle una ciocca di capelli dagli occhi.

    Lei trasalì, come se il tocco in qualche modo la turbasse. La reazione di Diane lo sorprese. Era stato molto gentile con lei. Per mesi le aveva servito pasti nutrienti, si era assicurato che si vestisse e si lavasse adeguatamente, le aveva dato libri e un diario in cui registrare i progressi compiuti. Non aveva mai alzato una mano contro di lei, e nemmeno la voce.

    Le sollevò un braccio per aiutarla a salire sulla bilancia. Era alta un metro e sessantacinque. Quando la punta dell’ago si fermò sul quattro, un sorriso illuminò il suo volto. «Congratulazioni, Diane. Ce l’hai fatta. Pesi cinquantaquattro chili». Senza le catene alle caviglie ne avrebbe pesati meno di cinquanta. Fantastico.

    La ragazza rimase davanti allo specchio con l’aria accigliata e le spalle curve. Lui non poteva farci nulla. La postura era tutto.

    Eppure, qualsiasi cosa lei avesse detto o fatto non avrebbe potuto guastare la sua gioia per quei sorprendenti risultati. Non c’era una sola persona al mondo che lui non potesse aiutare. Di questo era certo.

    La fece scendere dalla bilancia, le posò le mani sulle spalle e la girò verso la parete coperta da un telo di seta scura che lei non aveva mai potuto raggiungere.

    Era giunto il momento della grande rivelazione.

    Ma prima prese il pettine dal comodino e districò il groviglio dei lunghi e sporchi capelli biondi.

    Lei rimase in silenzio, fissando il vuoto con aria assente.

    Dopo averle dato una sistemata ai capelli, l’uomo si piazzò davanti al telo, fece un respiro profondo e si voltò a guardarla. Trascorse una trentina di secondi prima che lui si accorgesse che stava trattenendo il respiro. Sorrise e poi fece schioccare le dita rendendosi conto che aveva quasi dimenticato la parte più importante.

    Dopo qualche minuto ritornò davanti al telo, scoprendo con sollievo che lei era rimasta immobile, e sollevò la Polaroid per inquadrarla dalla testa ai piedi.

    «Stai dritta», le disse.

    Lei si mosse appena. Lui scattò comunque. Dopo qualche istante il negativo si sviluppò e poté confrontare la foto di lei prima con quella appena scattata.

    «Guarda qui! Senza le catene hai perso sessantacinque chili», disse scostando il telo e rivelando uno specchio dal pavimento al soffitto. Poi si voltò verso lo specchio e aspettò la sua reazione.

    «Quella non sono io», disse lei sottovoce, fissando con gli occhi sbarrati il proprio riflesso.

    «Sì che sei tu».

    Lei strizzò gli occhi e sollevò un braccio, come per assicurarsi che anche il suo riflesso nello specchio avrebbe fatto lo stesso.

    All’inizio la sua reazione lo irritò. Lei doveva essere felice. La metamorfosi era radicale. Non sarebbe più stata la stessa persona. Eppure aveva un’aria triste. Forse era semplicemente scioccata. La trasformazione si era spinta ben oltre le sue aspettative. «Vuoi un bicchiere d’acqua?»

    «Non voglio più stare qui. Per favore, lasciami andare».

    «È proprio quello che sto per fare», rispose lui.

    Poi infilò una mano nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un mazzo di chiavi. Aprì la porta della camera dove stava quando abitava lì da solo e ritornò subito dopo con una minuscola chiave. «Siediti sul letto, ti tolgo la catena».

    Lei obbedì, lanciandogli un’occhiata diffidente.

    Gli ci vollero soltanto pochi secondi per slacciare il gancio dalla caviglia. La catena e l’anello caddero sul pavimento con un tonfo metallico.

    Lei non si mosse, rimase lì immobile come un palo. «Sei libera di andare», disse lui.

    «Posso andare?»

    «È quello che ho detto».

    Lei si alzò e avanzò lentamente verso la porta, sorpresa di trovarla aperta quando abbassò la maniglia.

    Da dove si trovava poté vedere che il sole era riuscito ad aprirsi una breccia tra le nuvole, i suoi raggi filtravano attraverso la coltre dei rami. I pungenti aghi di pino che coprivano il pavimento del portico non le impedirono di avanzare a piedi nudi.

    «Non vuoi metterti le scarpe, prima?».

    Lei si voltò a guardarlo con aria sospettosa, senza dire una parola. Poi gli diede di nuovo le spalle, scese le scale del portico e si mise a correre.

    Confuso, lui la guardò allontanarsi nella fitta foresta tappezzata di foglie e ramoscelli. Sapeva dove stava andando? Salì serpeggiando sulla collina, usando mani e piedi per superare una macchia d’alberi. Di nuovo in piedi, la giovane donna si muoveva con l’agilità e la grazia di un cervo, come se anziché starsene seduta davanti al televisore con un sacchetto di patatine al mais e la salsa al formaggio avesse fatto maratone per tutta la vita.

    Lui spostò lo sguardo dallo zaino accanto alla porta al pavimento della cucina che aveva bisogno di una passata. Sapeva che prima di occuparsi delle pulizie avrebbe dovuto inseguire quella donna, ma non ci riusciva. In queste cose era un vero pignolo.

    Capitolo 3

    Morire dalla voglia di sapere

    Sacramento, agosto 2010

    Lizzy Gardner, trentunenne, investigatrice privata, ex masticatrice di matite, meglio nota come la sopravvissuta, stava scorrendo i suoi appunti. Due giorni dopo avere ricevuto per posta la sua patente californiana, Carol Fullerton aveva comprato per duecento dollari l’auto di un’amica ed era partita senza lasciare tracce.

    Da allora erano passati più di vent’anni.

    Alla madre della ragazza, Ruth Fullerton, era stato recentemente diagnosticato un tumore ai polmoni al quarto stadio. Le restava ormai poco da vivere e la povera donna voleva disperatamente scoprire cosa era successo alla figlia.

    Con pochi indizi e ancor meno prove, Lizzy temeva che quello potesse essere il suo primo e ultimo caso irrisolto.

    Si picchiettò il mento con la gomma della matita e guardò fuori dalla finestra. Faceva talmente caldo che vedeva il calore salire a ondate dall’asfalto. Le strade di Sacramento erano deserte. Quando la temperatura sfiorava i quaranta, la gente andava a cercare refrigerio nei due fiumi. Molte scuole sarebbero rimaste chiuse ancora per qualche settimana e probabilmente in quel momento gli alunni stavano sguazzando o vogando nelle acque dell’American River.

    Appena riabbassò lo sguardo sugli appunti, la porta si aprì.

    Lizzy sollevò gli occhi. Da quando le era stato riconosciuto il merito dell’arresto del famigerato serial killer Spiderman, i clienti si erano moltiplicati.

    La donna che entrò era alta e magra. Sembrava una star del cinema, una giovane Sharon Stone. Indossava un tubino molto attillato con un motivo grafico in bianco e nero.

    D’un tratto, Lizzy si sentì nuda in T-shirt e jeans. «Cosa posso fare per lei?»

    «Il mio nome è Andrea Kramer», rispose la donna. «E voglio ingaggiarla per trovare mia sorella».

    Lizzy indicò la sedia di fronte alla scrivania e lasciò cadere la matita nel vecchio barattolo di maionese che sua nipote aveva decorato con la cartapesta.

    Andrea si avvicinò ancora di più e alle sue spalle la porta si chiuse con un clic. Lizzy notò che le sue guance erano un po’ troppo scavate e le braccia ossute. Lanciò un’occhiata ai pasticcini avvolti nella carta oleata e al frappè alla vaniglia, e fu quasi tentata di offrirle il suo pranzo. «Quando è stata l’ultima volta che ha visto sua sorella?».

    Dopo essersi seduta, Andrea fissò il pavimento e decise di tenere in grembo la sua grande borsa di pelle. Che eleganza! Ma Lizzy non si offese. Lei aveva le sue priorità, e la pulizia dei tappeti non rientrava tra queste.

    «È stato più di sei mesi fa», rispose Andrea.

    «È andata dalla polizia?»

    «Sì».

    «E?»

    «Dopo una serie infinita di fastidi e un’attesa interminabile hanno finalmente scritto un rapporto. Gli ci sono voluti tre mesi per parlare con i colleghi di Diane, frugare nei cassetti del suo appartamento e parlare a un’anziana vicina per giungere alla conclusione che mia sorella si è data alla fuga».

    «E nel frattempo lei cos’ha fatto?».

    La donna tirò su con il naso. «Farebbe meglio a chiedermi cosa non ho fatto». Andrea aprì la borsa, tirò fuori un raccoglitore ad anelli e lo posò sulla scrivania di Lizzy. «Ho raccolto informazioni: numeri di telefono di familiari e amici, foto recenti di Diane, qualsiasi cosa possa esserle utile per rintracciarla».

    Lizzy prese il raccoglitore. Era suddiviso da fogli colorati, ognuno con un’etichetta. Pulito e ordinato. Lizzy non poté fare a meno di chiedersi se quella donna avesse bisogno di un lavoro d’archivio.

    Nella prima sezione c’era una foto a colori 10x15 di Diane Kramer all’età di ventotto anni: altezza un metro e sessantacinque; peso centoquindici chili. Se non avesse avuto la faccia rotonda e le guance da criceto, lei e Andrea avrebbero potuto essere gemelle.

    Nella pagina seguente c’era una descrizione della personalità di Diane: felice, divertente e premurosa. Diane adorava i bambini e lavorava parecchie ore al giorno con ragazzini che necessitavano di cure particolari a The Helping Hand, una scuola media di Sacramento.

    Diane era molto brillante: laureata summa cum laude in scienze biologiche, faceva parte dell’uno percento dei diplomati più promettenti della CSU di Chico.

    Il raccoglitore di Andrea era suddiviso in sezioni intitolate: Descrizione, Hobby, Educazione, Polizia, Amici, Famiglia e Varie.

    La sezione con l’etichetta verde Polizia era la più sottile. Lizzy non ne fu sorpresa. La polizia non poteva cercare tutte le persone scomparse. Avevano risorse limitate e purtroppo soltanto pochi casi destavano l’attenzione dei media.

    Mentre Lizzy scorreva il raccoglitore, Andrea continuò a parlare.

    «Come può vedere, mia sorella è obesa. Ha avuto problemi di peso per tutta la vita».

    La parola obesa non aveva sfiorato la mente di Lizzy. Nonostante nella foto si vedesse solo la faccia, Diane sembrava felice e in buona salute. «Essere sovrappeso era un problema per sua sorella?».

    Andrea annuì. «Non parlava d’altro che di perdere peso. Ha provato tutte le diete possibili e immaginabili: Weight Watchers, Nutrisystem, Medifast, Jenny Craig, Atkins, diete a zona, South Beach, comprese le più strampalate come l’ear stapling, la cotton ball e quella della masticazione, per citarne solo alcune».

    «La dieta della masticazione?»

    «Sì, bisogna masticare ogni boccone almeno quaranta volte o per trenta secondi, non ricordo bene. Poi si inclina la testa indietro, si deglutisce il liquido prodotto dalla masticazione e si sputa il resto».

    Disgustoso. «E qualcuna di queste ha funzionato?»

    «No, ed è per questo che la polizia ha concluso che mia sorella ci ha rinunciato ed è scappata. Ma è ridicolo. Diane non sarebbe mai partita senza dirmi dove andava. Mai. Il suo lavoro a scuola le piaceva e i bambini di The Helping Hand la adoravano».

    «Qui si dice che aveva parlato di suicidio».

    «Soltanto una volta. Diane e io avevamo un patto e lei non l’avrebbe mai infranto».

    Lizzy inarcò un sopracciglio con aria interrogativa.

    «Avevamo deciso che, se avesse avuto ancora tentazioni suicide, mi avrebbe chiamata. Ero convinta che sarei riuscita a dissuaderla».

    «E l’ha mai chiamata?»

    «No, non per quel motivo. Ci sentivamo al telefono quasi ogni giorno. Ho un marito e tre figli, e lei a scuola segue decine di bambini, gli argomenti di conversazione non ci mancano».

    «Vedo che ha intervistato anche i suoi amici», disse Lizzy continuando a sfogliare il raccoglitore.

    «Sì, e tutte le altre persone che la conoscevano», rispose Andrea. «Ha mai sentito parlare di Anthony Melbourne?».

    Lizzy scosse la testa.

    «Guardi la sezione con l’etichetta rossa», disse Andrea. «È un motivatore. Qualcuno lo definisce un guru della fitness. È stato paragonato a Jack LaLanne e Tony Little».

    Questo spiegava perché Lizzy non l’aveva mai sentito nominare. Lei non aveva mai messo piede su un tapis roulant. Fece scorrere le pagine del raccoglitore fino all’etichetta rossa con la scritta Anthony Melbourne.

    «All’inizio della sua carriera di guru della fitness ha viaggiato per il mondo», spiegò Andrea, «ma adesso si sta concentrando sui suoi seminari e ritiri, e si allontana raramente da casa. Gestisce anche una palestra molto popolare qui a Sacramento. È apparso più di qualche volta alla PBS e alla Home Shopping Network per vendere i suoi prodotti».

    Lizzy annuì, aspettando il seguito.

    «Diane lo considerava una specie di dio».

    A Lizzy non sfuggì il sarcasmo di Andrea. A quanto sembrava, non condivideva l’opinione della sorella su Anthony Melbourne.

    «Diane pensava che fosse l’uomo più amorevole e sensibile sulla faccia della terra e spendeva un sacco di soldi per ascoltare le sue…».

    «Stronzate?»

    «Sì».

    «Sta dicendo che questo Melbourne potrebbe avere qualcosa a che fare con la scomparsa di sua sorella?».

    Andrea rifletté qualche istante. «Sì, immagino sia così. Prima di sposarmi e avere tre figli dirigevo un grande outlet. Ero io ad assumere il personale e a condurre i colloqui di lavoro, e capivo subito se chi mi stava davanti mentiva. Ho sempre seguito il mio istinto. Se ce l’abbiamo, servirà pure a qualcosa! E non mi fido di Melbourne. Quando mi ha detto che era da mesi che non vedeva mia sorella, non gli ho creduto».

    Lizzy ritornò alla sezione Polizia, dove c’era una copia del rapporto. «Il rapporto della polizia dice che Diane aveva prelevato tutti i suoi risparmi pochi giorni prima di scomparire, e che la sua carta di identità, il portafoglio e gli effetti personali non sono mai stati trovati, il che lascia supporre che se ne sia andata di sua volontà».

    «Capisco», disse Andrea. «E se fosse andata da qualche parte per perdere peso? Potrebbe avere prelevato tutti quei soldi per darli a Melbourne in cambio di qualche… pillola magica o fantasiosa dieta, convinta che l’avrebbe fatta dimagrire una volta per tutte».

    «Era questo che voleva insinuare quando mi ha parlato di Melbourne?»

    «Sì».

    «E?»

    «Quando gliel’ho chiesto, Melbourne è scoppiato a ridere. Ma per una frazione di secondo ha distolto lo sguardo e poi ha assunto subito un tono difensivo. Stava mentendo, era chiaro. Non sto dicendo che ha ucciso mia sorella, ma l’istinto mi suggerisce che sa qualcosa».

    «La polizia l’ha interrogato?»

    «Due volte. Hanno detto che è stato molto collaborativo, ha messo persino a loro disposizione i suoi archivi, dove è risultato che mia sorella aveva comprato tutti i DVD, le T-shirt e i libri di Melbourne. Oltre ad avere partecipato a due dei suoi seminari, uno a San Francisco e uno qui a Sacramento, soltanto poche settimane prima di svanire nel nulla».

    «E cosa mi dice dei suoi ragazzi?»

    «Diane non ha mai avuto un fidanzato».

    «Non è mai uscita con nessuno?»

    «Non che io sappia».

    «E le amiche?».

    Andrea indicò il raccoglitore. «La sezione Amici è quella con l’etichetta gialla. La sua migliore amica è Lori Mulcher. Si sono conosciute a Chico, dove frequentavano lo stesso college. E dopo essersi diplomate, sono state assunte tutte e due da The Helping Hand a Sacramento».

    «Tutto quello che sa di sua sorella è in quel raccoglitore?»

    «Esatto».

    «È sicura al cento percento che Diane non le abbia nascosto nulla? Per esempio, non aveva nessun hobby insolito?»

    «Tipo?»

    «Droghe, uomini, gioco d’azzardo?».

    Andrea scosse la testa. «Me l’avrebbe detto».

    «Non ne sembra così sicura. Lo vedo dai suoi occhi».

    Andrea abbassò lo sguardo e sembrò pensare a qualcosa… o forse si chiese quanto avrebbe potuto dire.

    Lizzy si sentì come il cattivo di un cartone animato, una specie di Grinch, e la cosa non le piacque affatto. Lei e la sua analista avevano superato molti ostacoli nel corso degli ultimi quattordici anni, ma il senso di colpa, in tutte le sue forme, incombeva ancora su Lizzy come una spessa nuvola nera.

    «Ho scoperto di recente che c’era un uomo», disse Andrea indicando il raccoglitore con un cenno del mento. «Lo troverà nella sezione Varie. Un uomo di nome Michael Denton, che a volte veniva a trovarla nei fine-settimana».

    «Perché ha nascosto questa informazione?»

    «Non ho nascosto nulla. Glielo sto raccontando ora, ed è tutto in quel raccoglitore, ma è imbarazzante. Non è il suo fidanzato. La polizia mi ha detto che Michael Denton è un cosiddetto alimentatore». Fece una pausa e sospirò. «Gli piace nutrire la gente, e in particolare le donne grasse. Ho fatto delle ricerche e ho scoperto che esiste una perversione chiamata sitofilia, una forma di feticismo legata al cibo in cui la gratificazione sessuale è ottenuta nutrendo o facendo ingrassare un’altra persona», disse scuotendo la testa.

    «E nelle vostre conversazioni sua sorella non ha mai menzionato Michael?»

    «Mai. La polizia mi ha detto che è inoffensivo. Ma mia sorella è scomparsa e lui potrebbe saperne qualcosa».

    «Non c’è altro? Sua sorella non ha fatto nuovi piercing o tatuaggi di recente?»

    «No».

    Lizzy decise che Andrea Kramer era troppo fiduciosa. Nessuno poteva sapere tutto su una persona, nemmeno un membro della sua stessa famiglia. «Sembra che lei abbia già fatto il lavoro che spetterebbe a me», disse Lizzy.

    «Forse non sono stata chiara. Sono venuta a chiederle di seguire Anthony Melbourne».

    Lizzy prese un’altra matita dal barattolo e picchiettò sul tavolo l’estremità con la gomma. «Lei è convinta che abbia qualcosa a che fare con la scomparsa di sua sorella?»

    «Sì, sono convinta che sappia qualcosa. Questo week-end terrà un seminario a San Francisco».

    Lizzy scorse di nuovo la sezione del raccoglitore con l’etichetta Melbourne. «Vuole che partecipi a quel

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