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Il ladro di tatuaggi
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E-book460 pagine4 ore

Il ladro di tatuaggi

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Info su questo ebook

Perfetto per gli amanti di Stieg Larsson

Vi inchioderà alla sedia fino all’ultima pagina

La città di Brighton pullula di vicoli, segreti e sussurri. C’è un intero mondo sommerso che sfugge al controllo della polizia, governato dalle leggi della strada. Nel cuore dell’estate una giovane donna viene ritrovata in fin di vita e, dopo aver trascorso ventiquattro terribili ore di agonia in ospedale, muore in circostanze misteriose. Sul suo corpo è stato lasciato un marchio: un tatuaggio. Quando anche un’altra donna scompare, l’ispettore Francis Sullivan e la sua squadra temono che ci sia un serial killer per le strade della città. Un assassino collegato in modi ancora tutti da chiarire al mondo dei tatuaggi. Ma non appena la polizia identifica un sospetto, Alex Mullins, le cose per Francis si fanno tutt’altro che semplici. Alex, infatti, è il figlio della donna con cui ha un legame molto particolare: Marni, una tatuatrice. Riuscirà a non farsi coinvolgere dai suoi sentimenti per risolvere il caso e fermare l’assassino prima che altre donne muoiano?

Il nuovo libro dall’autrice del bestseller Il tatuatore

Lascia sulle sue vittime un tatuaggio che segna la loro fine

Ai primi posti delle classifiche italiane

Hanno scritto di Alison Belsham:
«Un acclamato thriller: nella ricerca del serial killer “ladro” di tatuaggi viene coinvolta suo malgrado Marni, esperta tatuatrice di Brighton…»
Il Venerdì di Repubblica

«Un romanzo per palati audaci.»
Il Corriere della Sera

«Se vi mancava qualcosa di forte alla Stieg Larsson, l’autrice Alison Belsham è un’intrigante scoperta.»
Libero

Alison Belsham
Ha iniziato scrivendo sceneggiature, e nel 2001 è stata finalista nella BBC Drama Writer competition. Nel 2016 ha presentato Il tatuatore al Bloody Scotland Crime Writing, uno dei più prestigiosi eventi per il genere thriller, ed è stata giudicata vincitrice. Secondo The Bookseller è stato uno dei libri più interessanti tra quelli presentati a Francoforte 2017. Il ladro di tatuaggi è il secondo attesissimo caso dell’ispettore Sullivan.
LinguaItaliano
Data di uscita2 ago 2019
ISBN9788822734181
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    Anteprima del libro

    Il ladro di tatuaggi - Alison Belsham

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    Capitolo 1. Alex

    Capitolo 2. Tash

    I

    Capitolo 3. Marni

    Capitolo 4. Francis

    Capitolo 5. >Angie

    Capitolo 6. Francis

    Capitolo 7. Marni

    Capitolo 8. Alex

    II

    Capitolo 9. Francis

    Capitolo 10. Rory

    Capitolo 11. Alex

    Capitolo 12. Marni

    Capitolo 13. Francis

    Capitolo 14. Marni

    Capitolo 15. >Rory

    Capitolo 16. Francis

    Capitolo 17. Francis

    III

    Capitolo 18. Rory

    Capitolo 19. Angie

    Capitolo 20. Sally Ann

    Capitolo 21. Francis

    Capitolo 22. Angie

    Capitolo 23. Rory

    IV

    Capitolo 24. Angie

    Capitolo 25. Francis

    Capitolo 26. Francis

    Capitolo 27. Alex

    Capitolo 28. Francis

    Capitolo 29. Marni

    Capitolo 30. Rory

    Capitolo 31. Francis

    Capitolo 32. Angie

    Capitolo 33. Francis

    Capitolo 34. Francis

    Capitolo 35. Alex

    Capitolo 36. Marni

    Capitolo 37. Rory

    Capitolo 38. Francis

    Capitolo 39. Marni

    Capitolo 40. Francis

    Capitolo 41. Marni

    Capitolo 42. Rory

    Capitolo 43. Lou

    Capitolo 44. Rory

    Capitolo 45. Francis

    V

    Capitolo 46. Francis

    Capitolo 47. Marni

    Capitolo 48. Francis

    Capitolo 49. Rory

    Capitolo 50. Alex

    Capitolo 51. Francis

    Capitolo 52. Rory

    VI

    Capitolo 53. Francis

    Capitolo 54. Marni

    Capitolo 55. Liv

    Capitolo 56. Alex

    Capitolo 57. Francis

    Capitolo 58. Thierry

    Capitolo 59. Alex

    Capitolo 60. Angie

    Capitolo 61. Francis

    Capitolo 62. Alex

    Capitolo 63. Francis

    Capitolo 64. Alex

    Capitolo 65. Francis

    Capitolo 66. Rory

    Capitolo 67. Francis

    Capitolo 68. Francis

    Capitolo 69. Francis

    Ringraziamenti

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    2233

    Della stessa autrice:

    Il tatuatore


    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio.

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore.

    Published in Great Britain by Orion Books,

    an imprint of The Orion Publishing Group Ltd.

    Copyright © 2019 Alison Belsham

    Titolo originale: Her Last Breath

    Traduzione dalla lingua inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: settembre 2019

    © 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-3418-1

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Alison Belsham

    Il ladro di tatuaggi

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    A Mark, Rupert e Time

    Vulnerasti cor meum,

    soror mea.

    Tu mi hai involato il cuore,

    sorella mia.

    Prologo

    Mercoledì 19 luglio 2017

    Una libellula volteggiava sulla prua della barca a remi, le ali trasparenti e brillanti sotto i raggi del sole, il corpo un affilato ago blu. L’uomo la fissò per un istante e tornò a concentrarsi sul piccolo canale in cui si era ristretto pian piano il fiume. Sette lunghe e bollenti settimane senza pioggia avevano denudato il piatto e ampio letto del fiume, normalmente coperto dall’acqua. La vegetazione sulle sponde era marrone e avvizzita, le foglie incurvate come vecchie pergamene. In quel caldo senza fine, il fango puzzava e le mosche sciamavano ronzando.

    Sarebbe riuscito ad arrivare a destinazione prima che l’acqua bassa gli impedisse di remare?

    Qualcosa spuntò nel pantano più avanti, catturando la sua attenzione. Un bastone secco e sbiancato dal sole spiccava fra le crepe del fango secco, lì dove l’acqua si era ritirata. La libellula ci ondeggiò sopra posandosi sulla punta. Le ali vibravano alla luce del sole.

    L’uomo iniziò a remare più forte, grattando contro il fondale e sollevando nubi di polvere mentre avanzava nell’acqua. Strizzò bene gli occhi man mano che si avvicinava: non era affatto un bastone.

    Era un osso.

    Conosceva l’anatomia quel tanto che bastava per capire quale fosse di preciso.

    Un femore umano.

    Il femore di suo padre.

    Un remo gli scivolò di mano, il palmo era troppo impregnato di sudore. Andò a sbattere contro lo scalmo spaventando un gruppetto di piccioni che decollò in volo. Ma nei paraggi non c’era anima viva, nessuno che potesse vedere quanto tremavano le sue mani mentre girava goffamente la barca tornandosene da dove era venuto.

    Il sole era basso ormai, la luce brillante si era trasformata in un bagliore arancio, ma il caldo non era diminuito. L’acqua di fronte a lui si era colorata di rosso sangue, proprio come nel giorno in cui lei era morta.

    Sapeva cogliere i segnali, interpretarli.

    Non poteva mettere a tacere il passato. Né dimenticarlo. Non poteva più ignorare la sua chiamata.

    Capitolo 1

    Alex

    Sabato 12 agosto 2017

    Entrare al The Haunt poco dopo la mezzanotte era come attraversare uno spesso muro di sudore. Alex Mullins superò la pista da ballo, diretto al bar. Cominciava già a sentirsi appiccicoso. La musica pompava nelle casse e i corpi umidi e grondanti gli sbattevano contro, deviandolo dal suo percorso come se fosse la pallina di un gigantesco flipper umano. Sorrise e si guardò alle spalle, controllando che Tash, la sua ragazza, fosse ancora con lui.

    Tash ricambiò il sorriso e arricciò il naso: quella combinazione di profumo stucchevole e corpi accaldati la disgustava. Ma muoveva già i fianchi a ritmo di musica e Alex rinunciò all’idea dei drink prendendola per mano e buttandosi nella mischia. Avevano fumato una canna nel vicoletto vicino al club prima di entrare, e ora Alex lasciava che la musica gli fluisse dentro e prendesse il controllo. Quella serata si chiamava Nineties Hip Hop Sweatshop: non avrebbero potuto scegliere un nome più azzeccato. Ballava intorno a Tash, passandole le mani sui fianchi e guardandola ondeggiare sotto le palpebre pesanti. Non riusciva a smettere di pensare a quel pomeriggio, trascorso in camera a esplorare l’uno il corpo dell’altra. Poi sua madre era tornata dal lavoro, costringendoli a optare per la spiaggia e infine il pub.

    Cristo, doveva trovarsi un posto tutto suo.

    «Sei bellissima, bimba», le bisbigliò nell’orecchio mentre le loro teste ondeggiavano una accanto all’altra.

    E non stava mica esagerando. Tash Brady era sicuramente la ragazza più sexy del suo corso. Aveva il visetto a cuore e le labbra carnose, lunghi capelli color nocciola e due gambe interminabili. E il davanzale era da urlo. Alex l’aveva desiderata dal primo momento in cui l’aveva vista e, diversi mesi dopo, quel desiderio non accennava minimamente a spegnersi. Non aveva mai frequentato una ragazza per così tanto tempo.

    La guardò ballare. Ci sapeva fare, ma continuava a spostarsi per guardarsi nello specchio dietro al bar. Un momento si aggiustava il top, e quello dopo si sistemava i capelli. Alex si spostò per bloccarle la visuale e Tash aggrottò le sopracciglia.

    «Sei perfetta», disse sopra la musica. Ma lei scosse la testa.

    Perché era così insicura? Tutte le donne erano fatte così? Be’, pure sua madre era un grumo di insicurezze. Era anche vero che il rapporto con il padre di Alex era stato un casino per anni. Qual era la scusa di Tash? Non aveva motivo di dubitare costantemente di sé stessa. Non riusciva proprio a capirla, e la cosa gli dava sui nervi.

    Un attimo dopo gli ruotò intorno, così da potersi specchiare di nuovo. Stavolta arricciò le labbra, controllando il rossetto, e smise di ballare. Si avvicinò e gli strinse un braccio.

    «Vado un momento in bagno», gli disse premendogli la bocca contro l’orecchio e accarezzandogli il collo con il respiro caldo.

    Alex fu assalito da un’ondata di desiderio e spinse i fianchi in avanti, premendoli contro i suoi. Tash rise e si allontanò. Rimase a guardarla mentre andava verso il bagno e si fermava a parlare con Sally Ann all’angolo della pista. Se c’era lei, doveva esserci anche il resto del gruppo. Tash ci avrebbe messo un po’, così Alex fece il giro della sala cercando con lo sguardo i suoi amici.

    Non vide nessuno e continuò a ballare, lasciando che la musica prendesse il sopravvento finché nella stanza non restarono che lui e il ritmo martellante dei bassi.

    Qualcuno gli tirò un dread, scuotendolo dalla sua trance.

    Una biondina magra strizzata in un vestito di paillettes roteava di fronte a lui, allungando un braccio per tirargli di nuovo i capelli. Alex chinò la testa di lato, allontanandosi dalla sua mano. Era una cosa che lo infastidiva di brutto. I suoi dread non erano di pubblico dominio, eppure era sorprendente la quantità di persone che non si faceva il minimo problema a toccarli. Continuò a ballare, aspettando di vedere la prossima mossa della ragazza. Era piuttosto carina, ma decisamente non il suo tipo. Lo sguardo duro e il naso appuntito le donavano un’aria severa. Sembrava la classica tipa che sta anche meglio senza tutto quel trucco.

    La biondina si avvicinò, sorridendo e facendogli cenno di chinarsi. Voleva dirgli qualcosa.

    Alex si accostò.

    «È vero quello che si dice sui neri?»

    «Che hai detto?», chiese lui facendo un passo indietro e fissandola bene in faccia. Ma in realtà aveva sentito perfettamente. Era una domanda che gli avevano fatto fin troppe volte: sia le ragazzine maliziose come quella che i cazzoni di turno in cerca di rogne. Ogni volta si sforzava di non abboccare alle provocazioni. Con i ragazzi se la cavava sempre, in genere si levavano dai piedi non appena capivano che gliele avrebbe suonate di brutto. Ma le ragazze insistevano, nascondendo le risatine con una mano e sussurrando battute alle amiche.

    «Ce l’hai grosso», disse. «Vero?».

    Porca miseria.

    Tirò fuori un sorriso forzato e si chinò di nuovo verso di lei.

    «Perché non lo scopri da sola?». Le afferrò una mano premendosela sulla patta dei pantaloni.

    La ragazza provò a divincolarsi non appena si rese conto di quel che stava facendo, ma Alex strinse ancora più forte. Quella stronzetta doveva imparare la lezione. Dopo un attimo di smarrimento, la tipa ridusse gli occhi a due fessure e gli strinse le palle. Alex la spinse via, facendola barcollare appena.

    Tash apparve all’improvviso alle spalle della biondina. «Ma che cavolo?», disse.

    La spinse di lato e marciò verso Alex. Le sopracciglia erano curvate, lo stava fissando in cagnesco. Aveva visto tutta la scena.

    La ragazza si rituffò nella folla sulla pista, mentre Tash continuava a fulminare Alex con lo sguardo. «Cristo, me ne vado per un secondo e ti lasci subito mettere le mani addosso da un’altra?».

    Alex sollevò entrambi i palmi in segno di pace.

    «Non è come pensi».

    La musica era troppo alta per raccontarle tutto, e Tash non sembrava proprio in vena di spiegazioni.

    «Ho visto cosa hai fatto», gli urlò con voce dura. «Bastardo!».

    Gli tirò uno schiaffo in faccia, lasciandolo lì imbambolato con una mano sulla guancia, mentre lei correva lungo la pista da ballo verso l’uscita.

    «Tash?».

    Ma lei non lo sentì neanche. La guancia gli pulsava e d’un tratto Alex si rese conto che lo stavano fissando tutti. E Sally Ann Granger veniva verso di lui.

    «Che è successo?», gli chiese.

    Alex scosse la testa. «Niente. Solo un malinteso».

    Le sopracciglia della ragazza schizzarono in alto.

    Alex doveva andarsene da lì, e cominciò a farsi strada fra la folla per raggiungere Tash.

    Era l’una passata. Sperava di trovare un po’ d’aria fresca all’uscita del locale, e invece niente. L’afa ancora non dava tregua, sentiva il sudore appiccicarsi ai vestiti. Tash non si vedeva da nessuna parte – non l’aveva aspettato fuori – così svoltò l’angolo, s’infilò nel vicoletto e tirò fuori tutta l’attrezzatura. Appoggiato al muro, impiegò meno di un minuto per rollarsi una canna e, dopo aver controllato che non ci fossero sbirri in giro, l’accese.

    Mantenne il fumo nei polmoni il più a lungo possibile, aspettando di sentire il corpo rilassarsi. Con la sigaretta penzoloni all’angolo della bocca, si sventolò la maglietta per fare aria al petto sudato. Fanculo la biondina senza cervello. Dopo aver fumato, sarebbe andato a cercare Tash.

    Maledette donne. Certe volte si chiedeva che senso avesse sbattersi tanto.

    Inspirò ancora. Era roba buona, bella forte. Lasciò perdere la maglietta e si appoggiò di nuovo al muro, chiudendo gli occhi. Si sarebbe preoccupato di Tash fra un momento…

    Capitolo 2

    Tash

    Sabato 12 agosto 2017

    Tash Brady inspirò una lunga boccata d’aria salmastra per allontanare la puzza di sudore e aria viziata del club, poi si accese una sigaretta e fece un tiro. Alex Mullins, sei un vero idiota! Voltò le spalle al The Haunt – chi gliel’aveva fatto fare di andare lì quella sera? – e iniziò a camminare lungo Old Steine dirigendosi verso il mare. Anche se era l’una passata, l’asfalto irradiava ancora calore. Non che le dispiacesse, dato che non aveva la giacca.

    Aveva bevuto troppo quel pomeriggio nel cortile del pub, e il potente mix di prosecco tiepido e sole cocente le aveva appioppato un brutto mal di testa. La canna fumata con Alex nel vicoletto del The Haunt non aveva certo migliorato le cose. Se al pub si era sentita nervosa per tutto il tempo, il suo umore era decisamente precipitato quando era arrivata al club, poco dopo mezzanotte. Trenta minuti ininterrotti di bassi martellanti e hip hop avevano dato il colpo di grazia al suo mal di testa. Si era rintanata in bagno con Sally Ann, che aveva iniziato a spettegolare seduta in uno dei gabinetti aperti, facendole compagnia mentre il Nurofen che aveva buttato giù faceva effetto. Le chiacchiere sul nuovo tipo che la sua amica si stava facendo a lavoro l’avevano tirata su di morale ma, quando era tornata in pista, aveva sorpreso Alex a provarci con un’altra ragazza.

    Fanculo. Per quanto la riguardava, tra loro era finita. Chiuso. Addio.

    Il tacco quindici picchiettava sul marciapiede. In fondo alla strada, da un altro club che frequentavano spesso, arrivava il ritmo potente della house music. Notò una coppietta sbronza che se ne stava avvinghiata in un angoletto e si lasciò sfuggire un sospiro di autocommiserazione continuando a camminare da sola. Il venerdì sera i club erano sempre pieni, ma all’esterno c’era molto meno movimento. Non come quel pomeriggio, quando le spiagge si erano riempite di gente: ragazze abbronzate in costumi striminziti, palestrati che mettevano in mostra gli addominali, mamme che urlavano ai figli e uomini attempati che si erano addormentati sotto il sole ed erano diventati più rossi di un’aragosta. Nell’aria c’era ancora l’odore di crema abbronzante e patatine.

    Attraversò la strada principale diretta verso il lungomare senza neanche fermarsi a controllare il traffico. Si guardò intorno e rimase in ascolto, sperando di sentire il passo pesante di Alex alle sue spalle o di vederlo correre verso di lei. Doveva seguirla, se ci teneva veramente.

    Ma zero. Quel bastardo non c’era.

    E lei non sarebbe tornata indietro per nessuna ragione al mondo. Non poteva rischiare di vederlo insieme a quella ragazza, così camminò spedita sul marciapiede in direzione del Grand Hotel.

    Se quando arrivo lì Alex non mi ha ancora scritto, me ne torno a casa in taxi. Peggio per lui.

    Se ne sarebbe pentito il giorno dopo, svegliandosi senza il solito messaggio del buongiorno.

    La luna era un affilato spicchio argentato, ma le sue lacrime ne confondevano la luce, che si specchiava sulla superficie del mare. Come poteva essere stata tanto stupida da credere di avere davvero una relazione con Alex Mullins? Stava fingendo, era chiaro, da bravo donnaiolo. Perché era fatto così, e lo sapevano tutti. Un playboy che faceva due pesi e due misure: pensava di poter abbordare le ragazze nei club come e quando gli pareva, ma se lei provava a guardare un altro tipo andava su tutte le furie.

    Ma poi ripensò a quel pomeriggio passato a letto con lui, e si accese un’altra sigaretta. Alex non era stato il primo, eppure con lui si era sentita come una verginella che scopre il sesso. Le aveva fatto percepire il proprio corpo come nessuno aveva mai fatto prima. Come se sapesse esattamente che cosa fare, quali corde toccare… Questo perché era un playboy, giusto?

    Inclinò la testa e guardò il molo alle sue spalle. Ancora nessun segno di lui, ma davanti al Grand Hotel non c’erano taxi disponibili, così continuò a camminare. Che vada a farsi fottere. Non sarebbe mai tornata con lui, neanche se l’avesse pregata in ginocchio. Si meritava di meglio.

    Fece un ultimo tiro di sigaretta e la buttò a terra: non voleva puzzare di fumo. Sarebbe arrivata a casa in un quarto d’ora, facendosela tutta a piedi. Avrebbe passato le pene dell’inferno, se sua madre fosse stata ancora sveglia. Il fumo, rientrare a quell’ora… Ogni cosa che faceva, si scatenava l’inferno. Sua madre la trattava ancora come una bambina. Ma poi le tornò in mente che i suoi erano via, e avrebbe trovato una casa vuota al suo ritorno. Spense il mozzicone con il tacco, poi sfilò le scarpe e si abbassò a raccoglierle. Il marciapiede era bollente sotto i piedi scalzi, ed ebbe la voglia improvvisa di sentire la fresca morbidezza della sabbia fra le dita. Scese le scale che dal lungomare portavano alla spiaggia, muovendosi in fretta fra i ciottoli e piagnucolando a ogni sasso appuntito che le infilzava la pianta finché non raggiunse il ciglio dell’acqua. Sollevò lo sguardo verso la città, indietreggiando appena fino a scorgere le cupole illuminate del Pavilion. Le luci brillanti del molo la facevano sentire ancora più sola.

    La spiaggia era deserta. Solo una sdraio rotta e una boa ricoperta di sporcizia le facevano compagnia. Tash scoppiò di nuovo a piangere, voltandosi e riprendendo la via di casa. Il rumore delle onde che si infrangevano contro le rocce attutiva il suono dei singhiozzi. Non voleva rompere con Alex. Si divertivano insieme, il sesso era stupendo. Avere un ragazzo così la faceva sentire una persona migliore. Ma che sarebbe successo a settembre, quando sarebbero tornati all’università? Se rompevano ora, avrebbe dovuto vederlo giorno dopo giorno mentre ci provava con ogni gallina che gli si lanciava addosso?

    Tirò su con il naso, asciugandosi gli occhi e continuando a camminare. In strada, il traffico era praticamente scomparso e non c’era nessuno in giro a quell’ora della notte. Meglio così, no? Rabbrividì e cominciò a rimpiangere di essere stata così impulsiva. Forse, se fossi rimasta impassibile e non avessi preso a spintoni quella stronza, adesso sarei ancora al club con Alex…

    Un centinaio di metri più avanti riusciva a intravedere l’intricata struttura del palco vittoriano che spuntava dal lungomare. Le ricordava un po’ una torta nuziale. Aveva camminato più del previsto e sentiva freddo, ma mancava ancora un bel po’ di strada per casa sua. La luna scomparve dietro un banco di nuvole, e improvvisamente la notte divenne più scura. Tash accelerò il passo, allontanandosi dall’acqua – le si stavano gelando i piedi.

    Le parve di aver sentito un rumore, ma non poteva esserne sicura per via delle onde. Un gabbiano solitario planò incuriosito per poi ripartire con uno stridio acuto. Tash sobbalzò per lo spavento. Non era successo niente, ma cominciò a innervosirsi e accelerò il passo. Già si vedeva nella sua luminosa e confortante cameretta. Mancavano giusto pochi minuti. Immaginò Alex che la faceva stendere sul letto, con la casa tutta per loro, e fantasticò su tutto quello che avrebbero fatto, con il costante rischio di essere beccati a rendere tutto ancora più eccitante. Dio solo sapeva cosa sarebbe potuto succedere, se i suoi genitori fossero tornati prima.

    I ciottoli alle sue spalle scricchiolarono: rumore di passi. Tash si voltò di scatto.

    Alex?

    Un’ombra si era materializzata in fondo alla spiaggia, puntava dritto all’acqua. Non stava guardando lei, ma Tash si spaventò e si diresse al marciapiede ai piedi del palco vittoriano. C’erano degli scalini vicino al bar che l’avrebbero riportata in strada. Si sentiva più sicura, lì dove le luci l’avrebbero accompagnata fino a casa. Si sedette sul primo gradino per infilare le scarpe, scacciando la sabbia dai piedi con dei colpetti decisi.

    Un lampo di dolore, bianco e accecante, si accese a un lato della testa. Le scarpe le volarono di mano e finì faccia a terra. Sbatté il mento contro il marciapiede.

    Ma che cavolo?

    Sentiva il sapore del sangue in bocca.

    «Alex?».

    Due mani le afferrarono le caviglie. Provò a divincolarsi, ma riuscì solo a peggiorare le cose. La presa sulle gambe si fece più salda. Qualcuno la stava trascinando lungo il marciapiede ruvido. Il panico la lasciò senza fiato, frastornata.

    Voleva prendere a calci l’aggressore, ma gambe e braccia non cooperavano. La testa andò a sbattere di nuovo contro il marciapiede. Il dolore le rimbombò nel cranio. Non riusciva più a mettere a fuoco e le lacrime scorrevano senza sosta. Urlava a squarciagola, ma non c’era nessuno sulla spiaggia che potesse sentirla.

    Chi? Perché? Domande incomplete le affollavano la mente.

    «Ti prego», farfugliò. «Lasciami andare».

    L’aggressore smise di trascinarla e le liberò una caviglia. Tash riusciva a intravedere la sagoma scura di un uomo che incombeva su di lei. Stringendole ancora l’altra caviglia, si spostò di lato. Sollevò uno stivale e le piantò un calcio in mezzo alle costole.

    Un dolore lacerante le invase tutto il corpo, togliendole il fiato.

    Un’ombra scura le calò sugli occhi e perse conoscenza.

    I

    19 luglio 1982

    Il tuo quinto compleanno è un giorno davvero importante, Aimée. E ci mancherebbe: tutti i compleanni lo sono. Ma questo in modo particolare, perché per la prima volta avrai una festa tutta tua. Ci saranno giochi, regali e una torta enorme a forma di girasole giallo. Avevi il permesso di invitare cinque compagnette di scuola e hai ricevuto un bel vestitino nuovo. Un abitino rosso con un fiocchetto di raso da abbinare a un bel paio di sandali neri e lucidi. E mammina ti metterà un bel nastrino porpora sui tuoi lunghi capelli neri.

    Le invitate arriveranno fra più di un’ora, ma tu non stai già nella pelle.

    Mamma ti ha mandato in camera tua con un libro. È troppo presa dai preparativi per tenerti d’occhio. È piuttosto irritabile oggi, quindi non ti dispiace troppo starle lontano per un po’. Hai come la sensazione che non vada pazza per le feste. A meno che non si tratti di feste per i grandi, quelle in cui può bersi tutti i drink che vuole e perfezionare la sua risatina falsa.

    Ma il libro ti ha stancato e tuo fratello Jay non vuole saperne di giocare con te. È una festa per sole ragazze: i maschi non sono ammessi. A Jay non interessa, non voleva venire comunque. Ha detto che era una festa da bambini, e lui ha di meglio da fare in camera sua. Tu provi a entrare ma ti spinge via e ti dice di girare al largo perché deve leggere. Solo perché ha quattro anni di più, pensa di essere migliore di te. Ma tu sai che non è vero.

    Però adesso non hai nessuno con cui giocare. Vorresti tanto che Jay la smettesse di fare lo stupido. Che fosse qui con te a farti ridere, persino a darti un po’ il tormento. Sei seduta di fronte alla finestra della tua cameretta e guardi fuori, tamburellando nervosamente il piede mentre aspetti che arrivino le tue amiche. Sei sicura che faranno tardi. Continui a chiedere a papà: «Non dovrebbero essere già arrivate, ora?». E questo lo fa ridere: una cosa ben poco carina da parte sua.

    Ma, alla fine, il campanello suona.

    La festa però non va come speravi. Isabella dice che non vuole più essere tua amica. Forse perché le hai detto una bugia – le hai giurato di avere una piscina in giardino e un pony. Ora vuole essere amica di Bethany. E tu sei seduta vicino a Bethany durante il gioco della scatola, ma lei non te la passa mai abbastanza in fretta. Quando la musica si ferma ce l’ha ancora in mano lei, anche se toccava a te scartare il prossimo strato.

    «Uffa, Bethany», le dici. Mamma ti lancia un’occhiataccia.

    Bethany scarta il pacco lentamente, facendoti la linguaccia.

    «Non è giusto», continui.

    «Aimée, non urlare!», risponde la mamma.

    Ma Bethany sghignazza forte.

    E tu le tiri i capelli. Non è tanto grave, ma la mamma ti sta guardando e Bethany, vedendo che un adulto vi osserva, si mette a urlare come una bambina.

    «Aimée!».

    Cielo, la mamma diventa davvero brutta quando si arrabbia. È una cosa che ti fa ridere, e tiri di nuovo i capelli di Bethany solo per farla urlare di nuovo. Lo fai con forza stavolta, così che le grida siano reali.

    «Valentine, troppi zuccheri e troppe emozioni per lei. Puoi portarla in camera sua?».

    Questo ti fa andare su tutte le furie. Ma il peggio deve ancora venire.

    «Bethany», dice la mamma, «hai vinto: puoi scartare tutto il pacco».

    Papà ti prende in braccio. Sa quanto questo ti farà arrabbiare. Gli prendi a pugni una spalla e scoppi a piangere. In camera tua, papà si siede sul letto e ti abbraccia.

    «Bethany è proprio antipatica, vero?», dice. «Ho visto che non voleva passarti il pacco».

    Lui sa sempre come farti stare meglio e non ti sgrida mai – non sul serio, almeno. Non è come mamma o Jay, che non ti dedicano mai un po’ di tempo e hanno sempre qualcosa di meglio da fare. Quando papà è a casa, sta sempre con te. E impedisce a mamma di arrabbiarsi troppo.

    Si stende sul letto, anche se ha le gambe troppo lunghe, e ti stringe in un forte abbraccio. Cominci subito a stare meglio.

    «Shhh, non piangere, principessa». Papà ha un buon odore, molto meglio di quello di mamma. «Su, su, principessa. Non è successo niente. Tra poco torniamo giù e chiederai scusa a Bethany per averle tirato i capelli».

    Ma tu odi queste cose. Non vuoi mai chiedere scusa.

    «Restiamo qui, invece», rispondi.

    Papà ride e ti stringe forte. Così forte che riesci a malapena a respirare. È il papà migliore del mondo. Lo dicono tutti. Ti stringe ancora di più, come se non volesse lasciarti andare mai e poi mai. E fra le sue braccia sai di essere al sicuro.

    Finché non senti i passi di mamma per le scale.

    Capitolo 3

    Marni

    Sabato 12 agosto 2017

    «Cristo santo, continua a farla parlare, Alex», disse Marni. «Dille che arriviamo fra pochi minuti».

    Sentiva il pianto disperato che si levava dal cellulare di suo figlio e spinse più forte il piede sull’acceleratore. Non che facesse alcuna differenza: stava già guidando al massimo della velocità. Dieci minuti prima, Alex era piombato in camera sua senza bussare, buttandola giù dal letto e trascinandola fuori casa.

    «Mamma, dobbiamo aiutare Tash», aveva gridato. Aveva la voce spezzata, la mano che reggeva il cellulare tremava furiosamente. «L’hanno aggredita».

    «E tu come fai a saperlo?», aveva chiesto Marni ancora intontita, mentre infilava una felpa deforme sopra i pantaloni spiegazzati del pigiama. Non avendo il tempo di controllare la glicemia, aveva afferrato il kit con l’insulina e l’aveva seguito in macchina.

    «Me l’ha appena detto». Alex si era portato di nuovo il cellulare all’orecchio. «Stiamo arrivando, Tash».

    Thierry, ovviamente, aveva continuato a dormire nonostante il trambusto. Non che la cosa la sorprendesse, data la quantità di erba che si era fumato la sera prima. Per non parlare della mezza bottiglia di Cognac che si era scolato da solo.

    Marni lanciò uno sguardo all’orologio sul cruscotto. Erano le sei e mezza del mattino e le luci dell’alba si facevano faticosamente largo dietro a un banco di nubi scure che arrivavano dal mare. Anche se qualche macchina in strada c’era, il traffico era abbastanza scorrevole da non lasciarli imbottigliati. Pochi minuti dopo, Alex si affacciò dal finestrino e guardò il palco vittoriano che spuntava all’orizzonte.

    «Tash? Tash, ci sei?». La sua voce era stridula. «Credo che sia svenuta». Ripeté il suo nome ancora e ancora, sempre più forte. «Devo chiamare gli sbirri?»

    «Aspetta, arriviamo e vediamo che cosa è successo». Marni era a disagio con la polizia: le veniva il voltastomaco solo a sentirla nominare. Magari era solo un malinteso. Forse non c’era bisogno di chiamare i poliziotti. Ma era un po’ difficile credere che le urla acute di Tash all’altro capo del telefono fossero solo un falso allarme. Marni si aggrappò al volante, le nocche bianche, i muscoli delle spalle e del collo in tensione.

    Perse per un momento la concentrazione e si rese conto troppo tardi che il furgoncino che li precedeva si era fermato. Pestò furiosamente il freno e Alex saltò in avanti, trattenuto solamente dalla cintura.

    «Cristo, mamma!». Chiuse gli occhi e si aggrappò al bordo del sedile.

    Rimasero seduti in silenzio, aspettando che il furgoncino avanzasse. Ma la portiera del conducente si aprì: non aveva nessuna intenzione di ripartire.

    «Scusa», fece Marni, respirando a fondo e sorpassando il veicolo in sosta. «Notizie di Tash?».

    Alex la chiamò di nuovo. «Niente». Provò ancora e ancora.

    «Ha detto soltanto che era al palco del Pavilion? Nient’altro?»

    «Stava piangendo, è ferita. Forse gravemente». Gli si spezzò la voce e abbassò subito la testa. Si premeva pollice e indice agli angoli degli occhi.

    «Non eri insieme a lei ieri sera?».

    Alex sollevò lo sguardo, tirando su con il naso. «È tornata a casa senza di me».

    Marni sospirò. «E tu l’hai lasciata andare da sola? Era tardi?».

    Alex guardava fuori dal finestrino senza dire una parola. Si girava e rigirava il telefono fra le mani, non riusciva a stare fermo.

    «Alex, che ore erano?»

    «Non lo so, mamma. Abbiamo litigato. Eravamo al The Haunt e lei se n’è andata in fretta e furia».

    «Be’, dovevi andare a cercarla».

    «Stavo per farlo, ma…». Non terminò la frase.

    «Il palco», disse Marni. «Guarda».

    «Non capisco», disse indicando lo spazio vuoto. «Non c’è nessuno là sopra».

    Marni fermò la macchina nel primo parcheggio libero, a qualche centinaio di metri dalla struttura. Alex saltò giù dall’auto ancora prima che la madre accostasse.

    «Magari è dall’altro lato. Andiamo». E corse via.

    Il palco si trovava in una posizione sopraelevata rispetto al lungomare, a cui era collegato tramite un ponticello con delle ringhiere in ferro battuto. C’erano anche delle scale che portavano alla spiaggia, lì accanto sorgeva un piccolo caffè con un terrazzo vista mare.

    Dato che l’area ottagonale del palco era vuota, Marni e Alex si fiondarono subito sui gradini.

    «Tash?», chiamava Alex. «Ci sei?».

    Non ricevevano risposta ma, man mano che si avvicinavano al locale, Marni notò delle tracce di sangue sul pavimento. La paura le squarciava il corpo come una tempesta di fulmini e, all’improvviso, le gambe sembravano troppo deboli per

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