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Due cadaveri senza nome
Due cadaveri senza nome
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E-book332 pagine4 ore

Due cadaveri senza nome

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Info su questo ebook

La piccola città di Portland, in Pennsylvania, è sconvolta dal ritrovamento di un corpo martoriato. La scena che si presenta agli investigatori è simile in modo inquietante a un caso rimasto irrisolto circa vent’anni prima: un’altra vittima, brutalmente assassinata, venne ritrovata nel fiume Delaware. Il detective Parker Reed è intenzionato a dimostrare l'esistenza di un collegamento tra i due omicidi e il coinvolgimento degli Scion, un gruppo di motociclisti del luogo che da sempre vive ai margini della legalità con il beneplacito della polizia locale. Ma la gente del posto è diffidente e maldisposta a collaborare con lui. Il passato entrerà in collisione con il presente quando Becca Kingsley, tornata a Portland a causa della malattia del padre, si ritroverà faccia a faccia con il suo primo amore. Parker è molto cambiato da allora, ma ha disperatamente bisogno di lei: avere dalla sua parte la figlia dell’ex capo della polizia, infatti, significa poter penetrare la fitta nube di omertà che circonda i due delitti. Ma, in una città in cui l’oscurità più feroce è in agguato in pieno giorno, fare luce sulla verità può essere molto pericoloso…

Il fiume Delaware nasconde un oscuro segreto

«Una scrittrice di talento che descrive abilmente le dinamiche della vita in una cittadina di provincia e dell’oscurità che si può nascondere sotto le apparenze.»
Kirkus Reviews

«Avvincente. Il finale esplosivo lascerà i lettori senza fiato.»
Publishers Weekly

«Un intrigo ben strutturato e coinvolgente che appassionerà i lettori.»
Library Journal

Karen Katchur
è un’autrice di thriller di successo, che ha avuto numerosi riconoscimenti di pubblico e critica. Si è laureata in diritto penale e i suoi studi hanno fornito l’ispirazione a molti dei suoi romanzi. Vive in Pennsylvania con il marito e i due figli.
LinguaItaliano
Data di uscita4 set 2019
ISBN9788822737267
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    Anteprima del libro

    Due cadaveri senza nome - Karen Katchur

    Capitolo 1

    La guardava.

    Becca non aveva bisogno di vederlo per capire che era lì; semplicemente riusciva a percepirlo, a sentire il peso del suo sguardo, a rendersi conto di avere i suoi occhi addosso mentre correva per il sentiero che costeggiava il fiume.

    Lui conosceva la sua routine mattutina e faceva in modo di beccarla sempre mentre passava di lì. In circostanze normali, Becca l’avrebbe trovata una cosa inquietante, allarmante.

    Ma lo conosceva. Era uno di famiglia. Anche se era più vecchio di lei di oltre quindici anni, aveva fatto parte della sua infanzia, della sua adolescenza, un elemento fisso sullo sfondo della sua vita, parte dello scenario come le montagne e il fiume.

    Quel mattino, mentre si era fermata a riprendere fiato, la spiò attraverso il folto manto autunnale degli alberi. Era fermo sull’altro lato del fiume Delaware, dalla parte che un tempo apparteneva anche a lei: il lato della Pennsylvania, dove era cresciuta, nel paesello di Portland. Ma ormai viveva sul lato del Jersey, che spesso le dava l’impressione di essere un Paese completamente diverso più che uno stato confinante a un tiro di schioppo dall’altro lato del fiume.

    Becca si piazzò le mani sui fianchi e lo fissò. Lui restò fermo a pochi passi dalle rapide. Non provò a comunicare con lei, nemmeno con un semplice gesto della mano. In un qualsiasi altro giorno, lei avrebbe guardato nella sua direzione senza neanche rallentare il passo, avrebbe preso il sentiero che si allontanava dal fiume per addentrarsi nel bosco e si sarebbe dimenticata di lui. Ma quel mattino, per qualche motivo decise di fermarsi e di restare a fissarlo.

    E lo fece.

    Non riusciva a distogliere lo sguardo.

    Come in balia di una forza oscura che la spingeva verso di lui. Non credeva nelle coincidenze, credeva invece che, per un motivo o per l’altro, tutte le cose fossero collegate tra loro. E che le piacesse o meno, lei gli era legata.

    Fece un passo avanti, fermandosi poco distante dalla riva. Romy, il suo pastore tedesco, stava all’erta, con le orecchie dritte, la punta delle zampe che sfiorava l’acqua ghiacciata. Il fiume scorreva e il suono delle rapide creava un muro di rumore bianco. Sulla riva opposta incombevano i picchi dei monti Blue Ridge, e tra gli alberi che li ricoprivano il rosso e l’arancio dilagavano come un’emorragia.

    Becca fece un altro passo in avanti e le scarpe da corsa le affondarono nel fango. Le parve che lui tenesse qualcosa in mano, una cosa piccola. Ma si sbagliava. C’era qualcosa sulla sua mano. Sembrava un guanto. Indossava una camicia mimetica e i pantaloni grondavano acqua da metà coscia, come se avesse camminato nel fiume. Ma non era un pescatore. Questo lo sapeva bene. No, lui era un cacciatore. Il cuore le fece una giravolta nel torace.

    «Ti vedo», gli gridò, ma le rapide inghiottirono la voce.

    Lui non si mosse. Continuò a guardarla. E poi, senza preavviso, si girò e risalì lungo la riva finché non scomparve tra gli alberi.

    Becca esitò, mentre una sensazione spiacevole le si arrampicava sulla spina dorsale. Si stava facendo tardi, e ancora due miglia la separavano da casa. Doveva sbrigarsi se voleva arrivare in tempo al primo appuntamento del giorno con un golden retriever che sospettava avesse ingoiato un grosso pezzo di una pallina da tennis. Ma esitò per qualche istante ancora. Quando fu certa che lui se n’era andato e che non avrebbe fatto ritorno, accarezzò la testa a Romy.

    «Andiamo», disse alla cagna, incamminandosi per il sentiero.

    Percorse il terreno roccioso calibrando con attenzione il passo per paura di rompersi una caviglia. Restò concentrata cercando di trovare il ritmo nelle gambe e di farlo coincidere con il respiro. La furia delle rapide retrocesse sullo sfondo fino a diventare un fruscio sommesso. Solo quando arrivò al ponte pedonale, quello che attraversava il Delaware, si fermò una seconda volta.

    Con la coda dell’occhio, intravide qualcosa di voluminoso che galleggiava in acqua. Spostò lo sguardo su uno dei piloni di cemento, perlustrando le acque ormai calme, così diverse dalle rapide in caduta libera sulle rocce che formavano il greto del fiume all’inizio del sentiero. Non vide nulla ma ebbe l’impressione che qualcosa c’era stato. Le tornò quella sensazione spiacevole. Se avesse attraversato il ponte, di sicuro avrebbe scoperto di cosa si trattava. Ma non riusciva nemmeno a poggiare il piede al centro della passerella di cemento, a posare la mano sul corrimano verde metallico. Il solo pensiero dell’attraversamento le faceva impazzire il cuore.

    Qualsiasi cosa pensasse di aver visto la stava mettendo a disagio rendendola ansiosa. Cercò di calmarsi, convincendosi di essere paranoica. Poteva essersi trattato di un tronco galleggiante, di un grosso ramo tozzo. Forse non era stato che un gioco d’ombre ad averla ingannata.

    Il sole saliva sempre più alto nel cielo. Sarebbe stata una bella giornata autunnale. Stiracchiò le gambe e riprese a correre verso casa con Romy a fianco. A ogni passo si ripeteva di dimenticarsi di tutta la vicenda.

    Aveva molte altre cose a cui pensare.

    Nell’ultimo miglio verso casa le si rilassarono i muscoli, e quel senso di spiazzamento, l’inquietudine che aveva provato svanirono quasi del tutto quando vide la berlina di Matt parcheggiata nel vialetto. Era a casa. E non le importava nulla di dove lui avesse trascorso la notte, o perlomeno così continuava a ripetersi. Per lavoro, restava spesso a New York ben oltre il calare del sole. Matt faceva il mandatario brevetti, era un civilista che doveva lavorare più di quaranta ore a settimana, e lamentarsi con lui di quegli orari così lunghi sortiva soltanto l’effetto di allontanarlo ulteriormente.

    Becca entrò nell’appartamento e si sfilò le scarpe infangate. Romy schizzò verso la ciotola a bere. Dal bagno principale arrivava lo scroscio della doccia.

    Da sopra il ripiano della cucina Lucky, la gatta di Matt, la salutò. «Tu qui mica puoi starci», disse prendendola in braccio e baciandola sulla testa pelosa. Romy rivolse loro uno sguardo fugace e tornò a bere, ancora troppo assetata per cercare di riconquistare l’attenzione di Becca.

    Lucky era una soriana e secondo Becca non doveva avere più di cinque anni. Non poteva saperlo per certo visto che un tempo era stata randagia. Matt l’aveva inavvertitamente investita con la macchina, attraversando un incrocio mentre si recava al lavoro. La gatta era sbucata fuori dal nulla. Becca frequentava l’ultimo anno di veterinaria all’università e le era stato già offerto un lavoro postlaurea a Columbia, in New Jersey, quando Matt aveva spalancato le porte della clinica con la gatta in braccio.

    Era in uno stato di panico, gli occhi azzurri quasi vitrei. Teneva la piccola soriana all’altezza della piega del braccio, dove il bicipite si gonfiava sotto la camicia bianca.

    «Credo di averla investita», disse a Becca, che stava compilando una tabella alla scrivania della reception.

    «Ok, portala lì». Condusse Matt e la gattina in uno degli ambulatori.

    Lui la poggiò sul lettino e Becca restò colpita da quanta accortezza usasse con quella creaturina. Auscultò il battito cardiaco, debole ma presente. Non si vedeva nessuna ferita.

    «È tua?», gli chiese, ispezionando le pupille dell’animale con un piccola torcia per accertarsi che si dilatassero ancora.

    Matt scosse la testa. Aveva un groppo in gola e non riusciva a parlare. Pochi secondi dopo disse: «È sbucata dal nulla. Ero quasi certo di averla schivata. Ma poi dallo specchietto retrovisore l’ho vista riversa sul ciglio della strada». Si mise le mani sulla testa e alzò gli occhi al soffitto. «Mio Dio, spero che non sia l’animale domestico di qualche povero bambino».

    «Credo sia randagia». Non aveva un collare ed era magrissima. La pelliccia aveva un che di randagio: non era proprio sporca, ma nemmeno pulita. A Columbia c’erano centinaia di gatti randagi. Becca stimò che avesse soltanto pochi mesi di vita. Per fornire un servizio pubblico, la clinica castrava e sterilizzava i randagi con lo scopo di tenere sotto controllo la popolazione, ma non riuscivano a prenderli tutti e poi, quando si trattava di procreare, la natura un modo lo trovava sempre.

    «Le faccio una radiografia», disse dopo aver palpato il collo e la testa della gatta e averle esaminato l’addome. «Grazie per averla portata qui».

    Lo congedò, sollevandolo dalla responsabilità. Aveva investito un gatto con la sua macchina e si sentiva in colpa. Il tipo era davvero attraente, curato dalla testa ai piedi, manicure e scarpe lucide, e, per esperienza, tutti questi erano indizi che avesse una coscienza. Ciò che voleva davvero era che qualcuno lo liberasse da quel peso. Non riusciva a credere che un tipo come lui – bell’aspetto, un corpo da urlo, braccia forti e spalle larghe (e quelle le aveva notate anche lei) – potesse essere così completo: bello, intelligente e gentile. Forse era stupido. Infatti, pensò mentre andava all’apparecchio della radiografia, era sorpresa che si fosse anche solo fermato a raccogliere la gattina. Immaginò che un tipo del genere si sarebbe allontanato senza nemmeno pensare all’esserino rimasto a bordo strada.

    Un’ora dopo, quando fece ritorno alla scrivania della reception, con la gattina ferita, e tuttavia non in pericolo di vita, restò sorpresa di vederlo lì fermo in sala d’attesa.

    «Come sta?», chiese.

    «Si ristabilirà», rispose Becca, incapace di non aggrottare le sopracciglia nel tentativo di capire il vero motivo per cui il tipo fosse rimasto lì.

    «Oh, grazie a Dio», disse lui, allungando la mano alla ricerca della sua. «Grazie». Quindi, esaminò il camice alla ricerca del suo nome.

    «Becca Kingsley», lo anticipò lei – con un poco di spocchia, ripensò in seguito quella sera, mentre si apprestava a mettersi a studiare per gli esami imminenti.

    «Posso portarla a casa?», chiese lui.

    «Vuoi portartela a casa?».

    Sorrise. «È un problema? Mi hai detto che è randagia».

    «No, non è un problema. Almeno credo. Aspetta un attimo qui». Andò dietro il banco e prese i moduli necessari all’adozione. Li assicurò a un taccuino e glieli passò. «La terremo sotto osservazione qui, stanotte».

    «Va bene. Magnifico. Pagherò tutto il necessario».

    Quando le ripassò i moduli compilati vide scritto il suo nome. Matt Goode.

    «Grazie, Becca», disse, e se ne andò.

    «Quello chi era?», chiese fischiando Vicky, una delle assistenti di sala, dopo che Matt era uscito dalla porta.

    «Il proprietario di una gattina davvero fortunata», rispose Becca.

    L’indomani Matt tornò a prendere la gattina, decise di chiamarla Lucky e invitò Becca a cena fuori.

    Lei rifiutò, dicendo di non avere fame, perché non si fidava della sua apparente sincerità. Non riusciva a immaginare cosa potessero avere in comune. Ma due giorni dopo lui tornò alla clinica veterinaria e la invitò di nuovo fuori, stavolta soltanto per un caffè, per farle delle domande sull’erba gatta. Lei scoppiò a ridere e non riuscì a trovare una scusa per rifiutare l’invito.

    Becca poggiò Lucky sul pavimento. Lo scroscio della doccia s’interruppe e lei si diresse verso la camera da letto e si sedette sul bordo del materasso. Romy le balzò subito vicino. Becca controllò la cagna alla ricerca di zecche per tenersi occupata mentre aspettava. Ogni volta che le capitava di passare del tempo nel bosco o in riva al fiume, al ritorno controllava sempre se lei o la cagna avessero portato in casa parassiti, perché nell’area c’era una nutrita colonia di daini che li ospitava. E anche se a Romy veniva messo l’antiparassitario, non si poteva mai essere del tutto sicuri.

    Matt uscì dal bagno coperto solo da un asciugamano intorno ai fianchi. Lei si sforzò di non guardarlo. Romy tenne la testa in grembo a Becca. La cagna aveva capito che c’era qualcosa di strano nell’aria.

    «Non ti arrabbiare», disse Matt.

    Quando vide che non rispose, aggiunse: «Ti prego».

    Lo aveva aspettato in piedi tutta la notte, in attesa che tornasse a casa, controllando se fosse arrivato un qualche suo messaggio, preoccupata che fosse successo qualcosa di orribile, preoccupata che non fosse successo nulla. Qualsiasi altra donna al suo posto avrebbe urlato, avrebbe mostrato le unghie e i denti esigendo una spiegazione. Becca no. La compiacente Becca se ne restava zitta, continuando a interpretare il suo ruolo così bene che ormai era quasi diventato parte della sua natura.

    Matt si sedette al suo fianco: vicino, ma senza toccarla. La sua pelle odorava di doccia appena fatta, di pulito. Dovette mettercela tutta per non arrendersi, per non dirgli che non era arrabbiata, che era felice che stesse bene e che non gli fosse accaduto nulla di orribile. A un certo livello, però, capiva anche che era proprio quella sua distanza, quella sua capacità di scacciarlo a far sì che lui continuasse a tornare da lei.

    Anche se talvolta, come in quel momento, era una vera e propria lotta mantenere separata, distaccata, impassibile una parte di sé, quando tutto quello che voleva era soccombere a ogni suo desiderio. Era così bello. I capelli del nero della notte e gli occhi del celeste del ghiaccio, il corpo scolpito, i fianchi snelli. Forse era egoista a desiderare di tenerselo tutto per sé, chiuso a chiave in quell’appartamento, lontano dalle tentazioni che sembravano aspettarlo dietro l’angolo ogniqualvolta usciva dalla porta.

    «Ho perso la cognizione del tempo. Lo sai come succede quando riesco a vincere un caso importante. Abbiamo portato i clienti in giro a fare baldoria». Esitò. «È stata davvero una vittoria strepitosa». Si acquietò. Restò in attesa che lei si congratulasse, che gli dicesse di averlo perdonato. Ma Becca non gliel’avrebbe fatta passare così liscia.

    «Lo so, avrei dovuto chiamarti», aggiunse. «Mi dispiace. Ti prometto che non succederà mai più».

    Quantomeno avresti potuto mandarmi un messaggio, pensò tra sé e sé. Ma non voleva dargli l’impressione di essere così bisognosa. Si limitò a fargli un cenno col capo. Non era certo la prima volta che restava fuori casa tutta la notte, senza telefonare, né la prima volta che lei si trovava a fargli una ramanzina l’indomani. Non era certo la prima volta che si sciacquava di dosso l’odore di un’altra donna.

    Capitolo 2

    John Jackson guardò il corpo sul terreno, stringendo nelle mani callose il fucile da 30-06 ancora caldo. C’era stato un attimo, una lieve esitazione prima di tirare il grilletto, in cui una vocina nel retro della testa gli aveva detto di non farlo. Non sarebbe mai sopravvissuto all’interno delle mura di una cella due metri per tre. L’aria stantia sarebbe bastata a ucciderlo, se qualcos’altro non ci fosse riuscito prima. Aveva trascorso tutta la vita all’aria aperta. La sua casa era una vecchia fattoria vicino al bosco, alle pendici dei monti Blue Ridge, a pochi passi dal fiume Delaware.

    In piedi davanti al corpo, provò a mettere ordine tra le emozioni, chiedendosi se stesse provando qualcosa. Quello che era fatto era fatto. E quanto all’esitazione, be’, se la sarebbe dovuta vedere da sé, perché sarebbe rimasta a torturarlo per il resto dei suoi giorni.

    Mise il fucile contro un albero. L’altro fucile – un calibro .22 che aveva portato dietro come diversivo – lo appoggiò a un altro albero davanti al quale sarebbe ripassato tornando a casa. Era ancora ottobre e mancava un mese alla stagione dei daini, ma non era affatto anomalo trovare già dei cacciatori nei boschi, sulle piste delle prede, intenti a costruire i baldacchini di appostamento con la speranza di abbattere un maschio da trofeo. Se a John fosse capitato di incontrare uno di quei tipi che sognavano di avere una testa imbalsamata con palco da dodici corna appesa al muro della sala hobby, voleva la sicurezza di essere armato per l’occasione.

    Il sole cominciò la sua ascesa della montagna, proiettando ombre lunghe sul terreno tra il sangue e le foglie cadute. Si stava facendo tardi.

    Spostò da una parte la giubba mimetica e il gilè di pelle che indossava sotto e si tirò su le maniche. Dopo essersi infilato dei guanti di nitrile, si accovacciò tra le gambe dell’animale – era così che aveva scelto di considerare quell’uomo, alla stregua di un animale, di un cervo, un giovane daino – con un buco di proiettile nel petto, il filo spinato tatuato intorno al bicipite e un piercing sul sopracciglio sinistro. Provò a non pensare a quanto fosse giovane.

    Lo denudò degli abiti che indossava mentre tra sé e sé immaginava di scuoiarlo. Ma gli sovvenne che non era così, e quella gelida verità gli penetrò nel profondo delle ossa. Non voleva deludere i ragazzi giù al club. Aveva dato la sua parola. Avrebbe fatto quello che gli avevano chiesto, quello che avevano bisogno che lui facesse, un atto brutale del quale loro stessi erano spaventati.

    Col passare del tempo, John trovava sempre più difficile tenere testa a quella versione falsa e più giovane di se stesso. L’età lo stava rammollendo. Le cose che lo interessavano un tempo, robe da macho tipo le moto, le risse e le spogliarelliste, gli sembravano ormai delle grosse perdite di tempo. Aveva anche perso interesse negli affari del club. Trafficavano armi da così tanto tempo, almeno vent’anni, e nasconderle nei fienili e nelle celle sotterranee delle fattorie dell’area di Portland era diventata una routine. Inoltre, i membri più giovani del club si stavano occupando di quasi tutte le consegne. Da qualche tempo gli girava in testa l’idea di diventare un nomade, di non essere più legato a un solo club e di andare a venire a suo piacimento.

    Finché l’animale che aveva davanti non aveva fatto l’unica cosa che John non sapeva perdonare, quella che gli era costata la vita.

    Avrebbe dovuto rassicurarli, dimostrando al club e ai suoi membri il suo coinvolgimento, fugando tutti i dubbi che gli stavano sorgendo su quel posto e sullo stile di vita che aveva scelto. Ma no. Forse era troppo vecchio per quelle cazzate. Sfilò il coltello da caccia dal fodero.

    Esitò di nuovo. Dannazione. Era solo un’altra eviscerazione. Ne aveva fatte a centinaia, su daini e conigli e una volta, in Montana, anche su una renna e un alce. Magari poteva fare un altro viaggio a ovest, correre un po’ con la moto sulla strada aperta e fare visita ai vecchi amici della sezione del Montana. Qualche settimana di caccia, un cambio di scenario: era proprio quello di cui aveva bisogno. Aveva trascorso tutta la vita in quel paesello minuscolo, sentendosi a suo agio, ma il suo problema era proprio il fatto di sentirsi troppo a suo agio. Un uomo troppo rilassato abbassa la guardia, diventa vulnerabile e s’indebolisce.

    Affondò la punta della lama vicino ai genitali, lacerando la pelle verso l’alto in direzione dello sterno, facendo attenzione a non forare l’intestino per evitare l’odore tremendo che ne sarebbe scaturito. Una volta gli era capitato di farlo a un daino, da ragazzo. Russell, suo padre, gli aveva detto di finire il lavoro, anche se la carne ormai era rovinata non solo dai fluidi ma anche dal vomito di John. Aveva appreso bene quella lezione. Non avrebbe mai più commesso un simile errore. Russell non aveva affatto pazienza con gli errori e non tollerava la vigliaccheria.

    John scostò lo stomaco dalle costole, tagliando via il diaframma dalla cassa toracica finché l’intestino non penzolò fuori. Recise la trachea e fece scorrere la lama lungo la membrana sottile che avvolgeva il cuore e i polmoni, rimuovendo gli organi assieme al fegato prima di gettare via tutto.

    «Una cosetta per i lupi», disse al suo vecchio, parlandogli come se fosse ancora lì al suo fianco, ancora vivo e a spasso sul pianeta.

    Quando ebbe finito, infilò gli abiti in un sacco che avrebbe bruciato in seguito. Si alzò in piedi con le ginocchia che protestavano, prese il fucile e se lo poggiò in spalla. Poi afferrò le caviglie dell’animale. Per arrivare al fiume la strada da fare era breve e mentre si trascinava dietro il corpo, le foglie e i rami secchi crepitavano alle sue spalle. Per la quiete di quei boschi, e per il silenzio di tomba che era calato su tutto dopo il primo e unico sparo, era un rumore troppo fragoroso. Ma più si avvicinava al fiume e più il frastuono delle rapide affogava il resto.

    Entrò in acqua e il gelo gli aggredì subito le cosce: l’acqua gli impregnava i pantaloni e gli pungeva la pelle come centinaia di spilli. Si liberò del fardello, lasciando che le rapide lo portassero dove volevano. Non aveva senso appesantire il corpo per farlo affondare. Il club voleva che quel cadavere venisse rinvenuto. Era un messaggio.

    Gettò nel fiume il coltello da caccia e il fucile. Stava per girarsi e dirigersi a riva quando la vide. Se solo ci avesse pensato allora, come invece fece più tardi, si sarebbe reso conto che l’esatto momento in cui Becca, nella sua corsa, passava sempre di lì, sull’altra riva del fiume. Non avrebbe potuto pianificarlo meglio, anche se era convinto di non averlo affatto pianificato, perlomeno non coscientemente.

    Restò a guardarla come aveva già fatto altre volte, dallo stesso punto, negli ultimi anni. Era sicuro che lei sapesse che lui la guardava, anche se aveva fatto sempre finta di niente. A lui stava bene. Era così che doveva essere. Era la figlia di Clint, che una volta era stato il capo della polizia di Portland e ora era in pensione, e che era anche uno dei fratellastri del padre di John, Russell. John non poteva avanzare alcuna pretesa su di lei, tranne quella di essere un parente alla lontana. Ma l’aveva vista crescere e per un po’ l’aveva considerata alla stregua di una sua sorellina. Non aveva fratelli né sorelle, e tanto meno figli suoi. La sua defunta moglie, Beth, era sterile e le sue ovaie erano riuscite a dare alla luce solo il cancro.

    Immaginò che avrebbe proseguito lungo il percorso come le volte precedenti, gettando un ultimo sguardo nella sua direzione prima di svoltare la curva che l’avrebbe condotta ancora più dentro il bosco e fuori portata. Invece si era fermata, inaspettatamente, e si era messa a fissarlo. Dire che ne era rimasto solo sorpreso significava fare un complimento al martellamento che sentiva in petto. Non riusciva a muoversi. Pensava solo a quanto fosse conveniente per lei trovarsi lì con lui in quel momento. Che le piacesse o meno, erano collegati. Non aveva altre spiegazioni per una cosa simile.

    Lei gridò qualcosa. Il fiume era fragoroso e lui non riuscì a capire cosa aveva detto. Restò in attesa che dicesse qualcos’altro, fermo sul posto senza staccarle gli occhi di dosso; ma improvvisamente si rese conto del tempo che passava, del pericolo che entrambi stavano correndo. Non poteva restare ad aspettare che lei gli ripetesse quello che voleva dirgli. Così si girò e si diresse verso il bosco, convinto che la presenza di lei, per lui, non fosse affatto una minaccia.

    Sperò di non sbagliarsi.

    Si sfilò i guanti e li infilò nel sacco degli abiti. Si mise il gilè fregiato dalle toppe col nome del club di motociclisti sulla spalla e poi anche la giubba mimetica per camuffare la sua identità. Poi prese la sacca e il .22 e lasciò la radura dove aveva abbattuto l’animale e dove c’erano ancora le sue budella.

    Col sole nascente alle spalle e il fucile in mano, si addentrò nel bosco, camminando come se fosse solo un altro amante della natura che tornava a casa dopo una mattinata spesa a seguire le piste degli animali. Hap, il membro più anziano del club e il miglior amico di suo padre, lo raggiunse a una cinquantina di metri di distanza dalla radura dove aveva inseguito un giovane esemplare, in direzione dell’appostamento di John. La parola inseguito andava usata con discrezione, visto che Hap, pur portandoseli bene, aveva comunque settant’anni.

    «Non ci è voluto molto», disse Hap, scrutando John in volto, in attesa di incrociare il suo sguardo.

    John annuì, senza staccare gli occhi dalla strada davanti, mentre riprendevano a camminare.

    «Non dovevi mica essere tu a farlo, lo sai», disse Hap. «Avrei potuto far sì che se ne occupasse qualcun altro. Prima o poi uno di loro dovrà pure darsi da fare».

    John si fermò e fissò il vecchio. «Era una questione personale».

    Hap annuì. «Certo che lo era», rispose. Fece qualche altro passo prima di chiedere: «Lo hai fatto come l’altra volta?»

    «Sì», disse John. «Esattamente come l’altra volta».

    Capitolo 3

    Matt stava sdraiato sul letto con l’asciugamano intorno ai fianchi. Si posò il braccio sulla faccia per coprirsi gli occhi. Becca si alzò. Remy si avvicinò timidamente al materasso e si rannicchiò dalla parte di Matt, che la grattò dietro le orecchie.

    Becca li lasciò soli e andò in bagno chiudendo la porta a chiave. Si tolse gli abiti sudati coi quali aveva corso ed entrò nella doccia. Poggiò la fronte contro le piastrelle e lasciò che l’acqua bollente le lambisse la schiena. Che cosa si aspettava mai da lui? Era solo un essere umano. In qualche modo era forse colpa sua?

    Nell’ufficio di Matt altri due avvocati avevano

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