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Tutta colpa del capo
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E-book233 pagine3 ore

Tutta colpa del capo

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Info su questo ebook

Come rovinarsi la vita in tre passi? Semplicissimo.
Primo: finire il college senza nessuna prospettiva di lavoro all’orizzonte.
Secondo: tornare a vivere a casa dei genitori perché, purtroppo, niente lavoro significa niente soldi.
Terzo: dimenticarsi di stalkerare sui social il ragazzo che ti ha spezzato il cuore prima di accettare un lavoro in una cittadina con una popolazione inferiore a quella di un festino del college il mercoledì sera.

Dovrei licenziarmi, ma vivere per sempre dai miei non mi sembra un gran progetto di vita.
Jase Hale è il ragazzo d’oro. Il nostro titolare pensa che abbia talento da vendere. La receptionist gli riserva più sorrisetti ammiccanti e prodotti da forno di quanto si possa considerare normale per una donna che potrebbe avere l’età della madre.
Io cerco di evitarlo a tutti i costi, lui e quel suo fascino innegabile.
Jase fa di tutto per farmi impazzire.
Ogni incontro mi lascia in preda alle vertigini.
Ogni sorrisetto mi manda lo stomaco in subbuglio.
Do per scontato che mi stia prendendo in giro, che sia tutta una provocazione, come sempre, ma quando mi solleva sulla scrivania e mi zittisce premendo le labbra sulle mie, mi ritrovo più confusa che mai.
Non mi importa se sta cercando di dimostrarmi che mi sbaglio. Non esiste che io mi faccia spezzare il cuore dallo stesso stronzo per ben due volte.

Ha già sprecato la sua occasione, e io non ho nessuna intenzione di finire nei guai, anche perché sarebbe tutta colpa del mio capo.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2022
ISBN9791220703437
Tutta colpa del capo

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    Anteprima del libro

    Tutta colpa del capo - Holly Renee

    1

    Sophie

    Disperata


    «Vuoi vivere per sempre con mamma e papà?»

    Sprofondai ancora di più tra i cuscini del divano mentre osservavo mio fratello, su FaceTime, che firmava alcuni documenti sulla scrivania.

    «Certo che no.»

    Mi guardai intorno per il soggiorno, pregando che non riuscisse a vedere le varie ciotole di ramen che ingombravano il tavolino. Stavo facendo un buon lavoro a nascondere il mio comportamento da eremita a mia madre, dato che non saliva mai nell’appartamento sopra il garage, ma non mi andava che Tucker ficcasse il naso dove non doveva.

    «Allora farai meglio a trascinare il culo a quel colloquio, domani.» Finalmente alzò gli occhi dalle scartoffie per guardarmi.

    Desiderai che il divano mi inghiottisse in un sol boccone.

    Il colloquio.

    Ero riuscita a dimenticarmi del colloquio per ben cinque minuti, ma mio fratello lo riportò proprio in cima ai miei pensieri.

    «Ci vado, ci vado.»

    Anche se non volevo farlo.

    Avrei voluto essere ovunque tranne che al maledetto colloquio.

    Non avevo nessuna esperienza e zero prospettive di lavoro, oltre a quello.

    Ma proprio zero.

    Non ero riuscita a trovare lavoro nella città dove avevo fatto il college; e nella città dei miei sogni, Seattle, non c’era nessuno che fosse minimamente interessato a me.

    Non mi ero mai proiettata tanto avanti nel futuro da pensare che sarei dovuta tornare a vivere dai miei dopo il college, ma a quanto pareva trovare un lavoro nel mio settore non era una cosa che succedeva da un giorno all’altro. Credetemi, avevo iniziato a mandare candidature e a cercare qualche aggancio già sei mesi prima di laurearmi.

    Gli opuscoli promozionali del college non ne parlavano, però.

    C’erano diversi studenti che si erano laureati in architettura come me e che già avevano un lavoro assicurato, ma io non ero disposta a trasferirmi ovunque pur di lavorare.

    Quindi le mie opzioni erano piuttosto semplici. Potevo trasferirmi a Seattle, come avevo sempre sognato, ma con pochi soldi e senza un lavoro o un posto dove vivere, oppure potevo tornare a casa.

    E siccome avevo la sensazione che vivere sia disperata che senzatetto non facesse per me, alla fine avevo optato per la sola disperazione, ma a casa dei miei genitori.

    Loro erano entusiasti di avermi lì. Era da quattro anni che non avevano i figli a casa.

    Ma avevo il presentimento che si sarebbero stufati di avermi intorno se non mi fossi trovata un lavoro al più presto. La gioia di preparare da mangiare ogni sera alla propria figlia ventitreenne non poteva durare così a lungo.

    «Non so neanche perché sto sprecando il mio tempo. Jase non mi assumerà. Sono sicura che se ne starà seduto alla scrivania di fronte a me e se la spasserà a vedermi implorare per un lavoro.»

    Tucker alzò gli occhi al cielo e girò un altro foglio di carta. Jase poteva anche essere stato suo amico negli ultimi tredici anni, ma non era un bravo ragazzo. Non per me, almeno. Me l’aveva dimostrato, e io ero più che felice di mantenere la nostra relazione esattamente com’era: inesistente.

    «Smettila di fare la melodrammatica. Non ti avrebbe neanche concesso un colloquio se non avesse avuto intenzioni serie.»

    Oh, le sue intenzioni erano serie eccome. Aveva la seria intenzione di vedermi strisciare.

    Ma andava bene.

    Stavo bene.

    «E poi, non è mica sua l’azienda. Non è detto neanche che sia lui a farti il colloquio.»

    «Questo sì che sarebbe fantastico.»

    Tucker alzò di nuovo gli occhi al cielo.

    «Non è così male.» Mio fratello puntò lo sguardo su di me. «Andavate d’accordo, voi due. Te lo ricordi?»

    Sì. Finché Jase non aveva rovinato tutto e non si era più voltato indietro.

    Però non lo dissi ad alta voce.

    Non l’avrei mai fatto.

    «Certo.» Annuii. «Andrà tutto bene.»

    Nonostante i nervi, sapevo che non potevo mancare al colloquio. Mio fratello poteva anche aver implorato a nome mio per ottenere quell’opportunità – anche se aveva detto che non era servito – ma Jase mi aveva comunque fatto un’offerta che non potevo rifiutare.

    Un colloquio.

    Una possibilità.

    Non aveva fatto nessuna promessa, non ne aveva mai fatte, ma io dovevo sfruttare per forza quell’occasione per lasciarlo a bocca aperta.

    E così l’indomani mattina mi sarei seduta di fronte a lui e avrei fatto finta di non essere in soggezione da morire. E già che c’ero, avrei anche fatto finta di poter lavorare per l’uomo che odiavo senza complicazioni di sorta.

    «Stendilo, sorellina.»

    E in un istante, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era a come sarebbe stato mettere Jase Hale in ginocchio.

    No. Non sarebbe stato per nulla complicato.

    2

    Sophie

    Il colloquio


    Mi ero girata e rigirata per tutta la notte.

    Mi ero persa a cercare su internet tutte le domande che Jase avrebbe potuto farmi, ma ero certa che non le avrei trovate elencate lì. Era probabile che se ne sarebbe uscito con i quesiti più assurdi, al solo scopo di spiazzarmi.

    Ma non importava.

    Mi ero preparata al meglio.

    Avevo un paio di pantaloni neri eleganti e aderenti, e mi sentivo come una top model pagata un milione di dollari. Erano i miei power pants, i pantaloni del potere. Quando li indossavo, insieme a un bel paio di tacchi neri, nulla avrebbe potuto andare storto.

    O almeno, era ciò che mi dicevo.

    Avevo cercato su internet la Norman Architecture mentre ero a letto, e avevo studiato ogni dipendente elencato sul sito. Mi sarebbe piaciuto dire che c’erano più di due donne in mezzo a tutti quegli uomini, ma sarebbe stata una bugia.

    Le tendenze dell’architettura e dell’edilizia erano all’avanguardia e in costante crescita, ma sembrava che le donne non vi avessero contribuito granché. Di tutta la mia sessione di laurea, eravamo solo dieci ragazze.

    Le uniche due donne elencate sul sito della Norman Architecture erano una receptionist di nome Annie Jett e una giovane designer di interni, una tale Haley Brookes.

    Mi imbarazzava solo in parte ammettere che avevo stalkerato Haley su Facebook per vedere come fosse. Era stupenda, ovvio, e speravo da morire che fosse anche simpatica.

    Se fossi stata intelligente, avrei stalkerato anche Jase su Facebook. Ma mi ero rifiutata. Se fossi stata una brava detective, avrei saputo che Jase era un pezzo grosso alla Norman Architecture prima di accettare il colloquio. Mio fratello aveva omesso quel piccolo dettaglio quando mi aveva detto che forse un suo amico aveva un’opportunità per me. Lo sapeva che avrei detto di no.

    Avrei dovuto dire di no.

    Ma ero disperata.

    Fu soltanto quando mi rivelò il nome dell’azienda, e mi disse che stavano cercando un architetto associato, che capii che l’amico con la grande opportunità era Jase.

    Avrei potuto uccidere Tucker.

    Quando si rese conto che avevo capito tutto, smise di rispondere alle mie telefonate, ma chiamai la sua fidanzata, Kennedy, e feci la spia. A quanto pare, il piano geniale di mio fratello era farmelo scoprire appena prima di iniziare il colloquio.

    Avrebbe lasciato che mi cogliessero alla sprovvista.

    Grazie a Dio, la foto di Jase era in primo piano sul loro cazzo di sito.

    Non sapevo nemmeno che avesse intrapreso quel percorso, nella vita.

    A dire il vero, avevo evitato di saperne il più possibile su di lui. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Perlomeno, era il mio piano.

    Ma a quanto pareva, i piani non erano il mio forte.

    Il portone d’ingresso della Norman Architecture era pesante e dal tocco maschile, e se non mi fossi scolata un doppio espresso appena prima di arrivare, mi avrebbe intimidita.

    Ma aprii quel portone con un sorriso stampato in faccia, e tirai un sospiro di sollievo quando la receptionist, Annie, mi sorrise.

    «Salve.» Le feci un goffo cenno con la mano. «Avrei un colloquio con il signor Hale.» Per poco non mi strozzai con tutta quella formalità. «Sono Sophie Moore.»

    «Ciao, Sophie.» Si diede qualche colpetto sulla nuca, dove aveva i capelli grigi raccolti in uno chignon, e tirò fuori da lì una penna. «Io sono Annie.»

    Segnò il mio nome su un’agenda sulla scrivania di fronte a lei.

    «È un piacere conoscerla.»

    «Anche per me, cara.» Sembrava del tutto sincera. «Ma dammi pure del tu. Accomodati, faccio sapere a Jase che sei qui. Dovrebbero volerci giusto un paio di minuti.»

    Annuii e mi sedetti alla reception, mentre lei spariva in un corridoio. Appoggiai la borsa per terra e contrassi le dita per non farle tremare. Non sapevo se fosse colpa della caffeina o dell’adrenalina, ma non potevo farmi sopraffare da nessuna delle due.

    Un attimo dopo, Jase spuntò dallo stesso corridoio che prima aveva imboccato Annie, che ora lo seguiva, e non mi sfuggì il modo in cui lei rise per qualcosa che doveva aver detto.

    Il sorriso sul volto di Jase si spense appena i suoi occhi incontrarono i miei.

    «Sophie.» Mi fece un cenno con la testa, al che io afferrai in fretta la borsa e mi alzai.

    «Ciao, Jase.» Feci un passo verso di lui e non riuscii a trattenermi dal far scorrere lo sguardo sui suoi jeans blu scuro e sulla camicia bianca. Aveva le maniche arrotolate fino ai gomiti ed era chiaro che, nonostante l’ora, fosse già immerso nel lavoro.

    Fece un cenno con la mano perché lo seguissi e mi resi conto che sarebbe stato il massimo dei convenevoli che ci saremmo scambiati.

    L’ufficio era carino, la maggior parte dello spazio era occupata da un’enorme scrivania ricoperta di carte e raccoglitori. Un caos abbastanza organizzato.

    Mi sedetti di fronte a lui, che nel frattempo si era accomodato sulla poltrona dietro la scrivania. La parete alle sue spalle era coperta di finestre, e mi chiesi quanto spesso osservasse il panorama mentre pensava a come risolvere i problemi.

    «Hai portato il curriculum?» Si agitò sulla sedia, impaziente.

    «Certo.» Tirai fuori dalla borsa la cartella con dentro il curriculum e le lettere di raccomandazione e gliela consegnai.

    La aprì, sfogliando le pagine senza dire una parola, e io pregai che la terra si aprisse e mi inghiottisse.

    Aveva i capelli più corti rispetto all’ultima volta in cui l’avevo visto. Erano passati, non so, otto mesi dall’inaugurazione del locale di mio fratello. Aveva lo stesso identico aspetto, eppure era così diverso. I suoi occhi verdi, però. Quelli sì che erano gli stessi.

    «Il ruolo è quello di architetto associato. Farai parte di un gruppo composto da altri tre membri, e risponderai direttamente al tuo team manager.»

    Annuii. L’aveva detto come se credesse che sarebbe stato un problema.

    «Sei in grado di gestire la cosa?»

    «Certo che ne sono in grado.» Dovetti trattenermi dall’alzare gli occhi al cielo o dal prendere la spillatrice sulla sua scrivania e lanciargliela in testa. «Non sono una bambina indisciplinata.»

    Un debole ding provenne dal computer, e a quel punto Jase si voltò in quella direzione ignorando del tutto ciò che avevo appena detto. Batteva con le dita sulla tastiera e scrutava lo schermo. Ci mise un po’ a rispondere a qualcosa che evidentemente era più importante del mio colloquio, poi si voltò di nuovo verso di me, con un atteggiamento pigro.

    «Andiamo al sodo, Sophie. Sei di gran lunga la candidata più qualificata che abbiamo avuto.» Pronunciare quelle parole ad alta voce lo stava uccidendo. In pratica ne sentivo l’acidità sulla mia stessa lingua. «Non serve sprecare né il mio tempo né il tuo con il solito ammasso di stupide domande da colloquio.»

    Mi irrigidii e sentii le guance surriscaldarsi. Mi sarei sentita umiliata se mi avesse fatta andare fin lì per poi non concedermi nemmeno una possibilità.

    «L’avevo detto a Tucker che avresti fatto così.» Mi raddrizzai sulla sedia. «Se non eri intenzionato a prendermi in considerazione per questo lavoro, allora perché cavolo hai accettato di farmi fare il colloquio?»

    Si appoggiò allo schienale della sedia e mi fissò. Con una mano si strofinava delicatamente il mento, proprio sulla cicatrice, mentre con l’altra giocherellava con una matita. Però teneva lo sguardo fisso su di me. Mi mandava in fiamme, giuro che l’avrei sentito anche a occhi chiusi.

    Era quello, il problema, con Jase. Aveva sempre saputo come mandarmi in fiamme.

    «Ho accettato di fare questo colloquio.» Spinse la sedia all’indietro e si alzò.

    Il fiato mi si mozzò in gola mentre si dirigeva verso di me. Eravamo già abbastanza vicini. Non c’era motivo che mi si fermasse proprio davanti, appoggiandosi alla scrivania. Era troppo autorevole, così vicino. Troppo intimidatorio.

    «Perché ero intenzionato a offrirti il posto.»

    Alle sue parole sbattei le palpebre.

    «Eri?» La speranza mi sbocciò nel petto.

    Lui annuì. «Però non è una buona idea.»

    E in un istante, eccola appassire.

    «Perché no?» Dio, lo sapevo perché no, eccome se lo sapevo, ma avevo bisogno di sentirmelo dire da

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