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La strada verso casa
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E-book368 pagine5 ore

La strada verso casa

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Info su questo ebook

Quando un tragico incidente lo richiama a Magnolia Springs, August aggiunge i suoi genitori all’elenco di ciò che ha perso negli ultimi anni, oltre al suo cane di rilevamento IED e alla sua gamba sinistra.
In qualità di tutore della sorella di quattro anni, August deve fare affidamento sul suo addestramento nel Corpo dei Marine per crescere un piccolo essere umano, cocciuto quanto lui. Diventare un militare, però, non l’ha mai preparato a questo, né a Olivia Anders, una donna che non si ferma davanti a nulla per raggiungere i suoi obiettivi.
Come proprietaria di Zampe per la Causa, Olivia è abituata agli uomini e alle donne che ritornano distrutti dalla guerra. Ed è abituata anche ai cani problematici. La sua missione, infatti, è quella di accoppiare cani ed esseri umani per arricchire entrambe le loro vite. Tuttavia, Olivia capisce sin da subito che, con August Cotton, ci vorranno tanto tempo e tante energie.
L’ultima cosa che August vuole è che un’invadente donna del Sud s’infili nel suo letto e nella casa dei suoi genitori, costringendolo ad affrontare i fantasmi del suo passato. Per sua sfortuna, questo è proprio ciò che Olivia intende fare.
August e Olivia si completano a vicenda, eppure non sopportano nemmeno di trovarsi nella stessa stanza.
Potrà Olivia scalfire la corazza di questo Marine e mostrare al suo cuore la via del ritorno a casa?
 
LinguaItaliano
Data di uscita28 giu 2020
ISBN9788855311762
La strada verso casa
Autore

Carmen Jenner

Carmen Jenner is a USA Today and international bestselling author. A hardcore red lipstick addict and a romantic at heart, Carmen strives to give her characters the HEA they deserve, but not before ruining their lives completely first … because what’s a happily ever after without a little torture? Sign up to my newsletter for free books, and exclusive content: https://www.subscribepage.com/carmenjenner Stay up to date with Carmen at: www.carmenjenner.com Facebook: www.facebook.com/CarmenJennerAuthor Reader Group The Sugar Junkies: https://www.facebook.com/groups/TheSugarJunkies/

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    Anteprima del libro

    La strada verso casa - Carmen Jenner

    Capitolo 1

    Olivia

    Guardo il marciapiede deserto per la centesima volta nel giro di un’ora. A parte i cesti pensili di campanule e un gigantesco orologio che ticchetta forte, ed è in ritardo di due minuti, la stazione degli autobus è vuota. Greyson ha detto che sarebbe venuto a prendermi alle tre, ma sono le quattro e dieci, e scommetto i miei ultimi spiccioli che non verrà. Con un’ultima occhiata al marciapiede, raccolgo le valigie e le trascino verso le scale.

    Ci sono poche cose che i Cotton hanno bisogno di sapere di me. Primo: dedico gran parte del mio tempo ad aiutare gli altri. Salvo i cani destinati a essere soppressi e li abbino ai Marine rotti. È un lavoro duro, ma non ho ancora trovato un Marine che non sia riuscita a sistemare. Più duro è il Marine, più ardua è la sfida, e non sono mai stata una che rinuncia a una sfida. Secondo: sono una donna del Sud, nata e cresciuta nel Sud. Questo significa che mi piacciono i vestiti ben stirati, il viso truccato e i capelli voluminosi. Terzo: la mia borsa contiene tutto ciò che è essenziale e anche qualcosina di più. E quarto: potrei avere una lieve ossessione per la biancheria intima, quella bella.

    Giuro su tutto ciò che ho più di prezioso che è un’abitudine costosa a cui ho cercato di rinunciare, ma così come ho un debole per gli uomini sbagliati, gli snickerdoodles e gli Oreo Torta di compleanno, be’, non potrei mai accontentarmi di un solo completino. Sono fermamente convinta che una donna dovrebbe essere in grado di guardarsi allo specchio e apprezzarsi in un bel paio di mutandine, indipendentemente dalla taglia che porta o dalla forma del suo corpo. Tutto questo è per dire che le valigie che sto trascinando giù dai gradini della stazione degli autobus sono tutt’altro che leggere. Non sono nemmeno sicura di sapere come fare delle valigie leggere.

    Trascino i bagagli giù, uno per uno. In giro non c’è nessuno, nemmeno un impiegato al distributore dei biglietti. Queste sono le domeniche tipiche nelle piccole città. È lo stesso a Fairhope e in qualsiasi altra parte del Sud: la domenica è per la chiesa e la famiglia o nel mio caso per... fare l’amore con il mio vibratore. Dopo il fallimento della mia ultima relazione, ho giurato solennemente di rinunciare agli uomini per un po’. C’è più di qualche aspetto positivo in tutto questo. Per cominciare, non c’è nessuno che mangi i miei Oreo. Il lato negativo? Non c’è nessuno che mangi la mia, ehm... Oreo.

    Dopo aver sudato con i bagagli, mi ritrovo sulla strada che, sorpresa delle sorprese, è vuota! Se ieri qui ci fosse stata l’Apocalisse e tutti i rispettosi cittadini di Magnolia Springs si fossero trasformati in zombie – che camminano trascinandosi verso un’altra città – nessuno l’avrebbe saputo. Gli edifici sono vecchi, ma ben curati, nelle aiuole ci sono i rudbeckia hirta e cespugli di aster viola e non c’è un solo edificio che riesca a privare questa città di quel fascino del Sud d’altri tempi. Magnolia Springs è molto amata e ben tenuta, come il sindaco mi aveva preannunciato al telefono, ma non mi importa come si presenti la città: mi interessano di più i suoi abitanti.

    Per anni, la stazione degli autobus di Magnolia Springs ha trasportato verso la guerra ragazzi imberbi e ragazze dal viso acqua e sapone, e scommetto che più della metà di loro non è mai tornata a casa. Quelli che sono tornati? Bene, ora sono miei o, almeno, lo saranno: diamo tempo al tempo. Quelli rotti, gli invalidi, i sani e quelli che si sono ritrovati qui a vagare attraverso questa moderna zona di guerra chiamata esistenza, senza sapere perché sono tornati e con difficoltà a ricominciare a vivere, tutti questi uomini e tutte queste donne sono il mio obiettivo, sono la ragione per cui mi trovo qui.

    Il mio rifugio, Zampe per la Causa, ha fatto ritrovare una casa ai cani maltrattati e abbandonati, li ha addestrati e messi in coppia con più di cinquecento ex soldati. Abbiamo salvato più vite noi di qualunque altra associazione indipendente collegata alle Forze Armate. La terapia con i cani funziona e sono eccitata come una sciocca all’idea di portare speranza e compagnia alla gente di Magnolia Springs.

    Devo solo trovare Tanglewood, la grande e vecchia casa colonica alla periferia della città, che ora è stata trasformata in un bed and breakfast. Tanglewood mi servirà come alloggio per il prossimo mese, fino a quando non riuscirò a sistemarmi in affitto. Alcuni mesi fa, ho prenotato una stanza al telefono, e Greyson, sua moglie Pearl e io siamo rimasti in contatto da allora. È strano che non si siano presentati alla stazione degli autobus dato che, l’ultima volta che abbiamo parlato, erano entrambi entusiasti all’idea del mio arrivo in città. Hanno un figlio che ha bisogno del mio aiuto e, dopo aver saputo qualcosa sul Marine, non ne ho continuato a discutere con loro. Al momento è lontano e se ne va in giro per questa grande e vasta nazione; forse, quando il rifugio sarà operativo, avrò per lui un perfetto compagno di viaggio a quattro zampe.

    Adesso, però, ho solo bisogno di un autobus, un taxi o, al diavolo, mi accontenterei anche di un dannato passaggio da uno sconosciuto, perché trasportare questi bagagli con il caldo è come uccidersi. Dopo che avrò fatto un lungo bagno e una notte di sonno decente, potrò finalmente iniziare a lavorare sul prossimo capitolo della mia vita.

    Tiro fuori il telefono dalla borsa e controllo l’indirizzo di Tanglewood; poi apro Google Maps e lo inserisco, solo per vedere quanto dovrei camminare. Cinque chilometri; troppo lontano con questi bagagli. Sto per chiamare un servizio di taxi quando sul mio telefono lampeggia la piccola barra che indica il livello di carica della batteria, quasi ad avvertirmi che è troppo tardi, e poi lo schermo si spegne.

    Voglio spararmi.

    Non ho portato con me il caricabatterie portatile. Certo, ho quello vero e proprio nelle valigie, ma non vedo nessuna presa di corrente per collegarlo. È il tardo pomeriggio di domenica e non c’è un’altra anima viva in giro. Nessuno dei negozi su Oak Street è aperto, quindi faccio un tentativo alla cieca su quale direzione prendere, in base al breve sguardo che ho dato a Google Maps. Afferro le valigie e comincio a camminare.

    Tre ore dopo, ma forse ne è passata soltanto una, mi imbatto in Tanglewood Road, alla periferia della città, e trovo la grande casa colonica in stile neogreco. È bianca e ha delle enormi colonne greche con delle persiane verde scuro sopra alle porte-finestre, e quello costeggiato da querce è – lo giuro – il viale d’accesso più lungo della storia. Una volta davanti al cancello, lascio cadere le valigie e scosto i capelli dal viso; li ho fatti tagliare e colorare dalla mia migliore amica, Ellie, prima di partire. È una parrucchiera, la migliore di Fairhope, e non so come potrò cavarmela senza di lei.

    Riprendo in mano il mio bagaglio e oltrepasso il cancello, superando il piccolo cartello oscillante su cui compare la scritta Tanglewood Bed & Breakfast, che ho voglia di colpire. Camminare per cinque chilometri, nella calura del Sud e con più della metà del tuo peso in bagagli, dà diritto a una lamentela o due nella mia lista. Quando raggiungo il portico nella parte anteriore, sto praticamente trascinando le valigie dietro di me, sullo sterrato.

    Il sudore mi cola lungo la schiena, le scarpe sono coperte di polvere e i piedi mi fanno male come se il diavolo stesso fosse venuto qui e ci avesse ballato sopra con i suoi zoccoli. Lascio i miei bagagli e, con calma, procedo salendo per le scale, sussultando ogni volta che il cuoio duro delle calzature sfrega contro la pelle coperta di vesciche. Ho bisogno di togliermi questi stivali prima che i miei piedi si gonfino così tanto da doverli liberare con un paio di cesoie da giardinaggio.

    Afferro il battiporta e busso tre volte.

    Niente.

    Nessun passo, neanche un: Solo un momento!

    Soltanto... niente.

    Ci riprovo, stavolta bussando più forte... perché voglio che mi sentano e non perché non so più cosa fare. Ho bisogno di un lungo bagno, di quelli speciali, con le bolle. Meglio che ci siano le bolle.

    «C’è nessuno?» urlo alla facciata bianca e luminosa dell’ingresso. «Pearl? Greyson?»

    Ancora niente.

    Suono il campanello di ottone lucido accanto alla porta, premendo con forza.

    Ding, ding, ding.

    Nessuna risposta.

    Mi trascino giù per le scale e sto per perdere del tutto le staffe, quando un pick-up bianco e ammaccato entra nel vialetto e inizia la lunga discesa. Sembra che al veicolo ci voglia un’eternità prima di fermarsi davanti alla casa.

    L’uomo alla guida, dall’altro lato, non è ancora sceso e mi sto già rivolgendo a lui. «Salve, mi scusi» dico a voce alta, avvicinandomi al mezzo, «sto cercando...»

    «Abbiamo detto: niente visite!»

    Mi acciglio ed esito un poco davanti a questo tono così brusco. «Bene, okay, ma io dovrei...»

    L’uomo scende dal pick-up e sbatte la portiera. È alto, assomiglia a un grizzly e ringrazio il buon Dio che il cofano della sua auto sia tra noi perché è chiaro che c’è qualcos’altro, oltre alla sua corporatura, che lo fa sembrare un orso.

    «Qual è il suo problema? Si presenta qui di domenica, proprio oggi, tra tutti i giorni? Qualunque cosa lei voglia, qualunque cosa le debbano, può aspettare finché non sono...»

    «Okay, penso che forse siamo partiti con il piede sbagliato.» Tengo le mani davanti a me, in un gesto di protezione, e sono sicura che i miei occhi siano spalancati al massimo. «Sono Olivia Anders. Dovrei...»

    «Signora, non me ne frega un cazzo di chi è lei» ribatte, appoggiandosi al cofano. «Ora, se non esce da questa proprietà, chiamerò lo sceriffo.»

    «Aspetta!» dico, facendo un passo indietro. «Okay, ragazzone, non so quale sia il tuo problema, ma ho bisogno di vedere Pearl e Greyson. Mi è stato detto che un’auto sarebbe venuta a prendermi alla stazione degli autobus. Ho pagato con un mese di anticipo per quel servizio, insieme alla mia stanza, quindi vorrei davvero parlare con i proprietari di questa casa.»

    «Allora dovrà visitare il cimitero» replica lentamente, scandendo il tutto, come se fossi un bambino che ha difficoltà a comprendere le parole più semplici.

    «Oh, Signore, non si tratta del loro figlio, vero? Greyson ha detto che era instabile. Ho conosciuto molti veterani che non riuscivano a stare vicino alla loro famiglia dopo essere tornati a casa. La guerra è traumatica e...»

    «E tu che ne sai?» ribatte, passando anche lui a un tono più confidenziale.

    «Ne so abbastanza, in realtà. È quello che faccio: lavoro con i Marine. Li abbino ai cani d’assistenza, e, da quello che mi hanno detto, lui potrebbe davvero aver bisogno del mio aiuto.» Porto i capelli dietro le orecchie, incastrandoli lì; ci sono quasi quaranta gradi qui fuori e le onde arruffate che ho creato stamattina si sono praticamente attaccate alla mia fronte come noodles bagnati. «Ho avuto a che fare con un sacco di uomini e donne che negano di avere un disturbo da stress post-traumatico, ma, da quanto mi ha detto Greyson, il loro figlio si merita un premio. Non vedo l’ora di averlo tra le mani.»

    «Il loro figlio sta bene!» sbotta.

    Mi sta rendendo nervosa. Dio Santo... Quest’uomo ha proprio bisogno di mangiare un Happy Meal o anche due. Do una rapida occhiata a dove ho lasciato le mie valigie – preparandomi a correre e ad andarmene in fretta il più lontano possibile da qui, piedi doloranti o meno – quando sento una voce dolce, infantile e di bambina, che proviene dal sedile del passeggero: «Auggie, chi è quella signora?»

    Qualcosa in quel nomignolo mi suona familiare, ma, prima che riesca a capire il perché, l’idiota qui presente aggira il cofano del pick-up, avvicinandosi e fermandosi a pochi centimetri da me. Noto che, nonostante il caldo, indossa una camicia bianca, elegante, e un paio di pantaloni dal taglio classico.

    «La signora se ne sta andando» dice, rivolto alla bambina nell’auto, ma i suoi occhi non mollano i miei. Bruciano di rabbia e impazienza e questo mi colpisce come una mazza in faccia.

    «Auggie?» bisbiglio, rivolta più a me stessa che a lui. Porca vacca. «Aspetta, tu sei August Cotton?»

    August è il figlio di Greyson e Pearl.

    Merda.

    August Cotton è in piedi, davanti a me; gli occhi blu scuro si sono ristretti, la fronte è aggrottata e la sua bocca è curvata in una linea dura. Oh merda, merda. Non è così che volevo andasse il nostro primo incontro.

    «Sono August Cotton» replica, incrociando le sue grandi braccia sul petto.

    Giuro, se la terra bruciata dell’Alabama si aprisse sotto i miei piedi, mi tufferei volentieri nelle infuocate caverne dell’inferno pur di evitare il modo in cui mi sta fissando. «Oh.» Mi schiarisco la voce e gli sorrido timidamente: «Io non...»

    «Non volevi dire ciò che hai detto?» conclude lui, con sarcasmo.

    So di aver fatto una gaffe e non è affatto così che volevo presentarmi a un potenziale cliente. «Ascolta, mi dispiace. Sono sicura che oggi è stata una brutta giornata per tutti, ma ho camminato per cinque chilometri per arrivare qui, e con un nuovo paio di stivali, quindi se potessi chiamare i tuoi genitori al telefono, potremmo risolvere questa faccenda. Prima riuscirò a farlo, prima mi rilasserò in una vasca piena di bollicine, dimenticandomi completamente di tutto questo.»

    Si inumidisce le labbra. «Be’, mi piacerebbe davvero aiutarti col tuo bagno pieno di bolle, signorina Anders, ma i miei genitori sono morti. Li abbiamo seppelliti oggi, non più di mezz’ora fa, per essere precisi.»

    «Cosa?» Aggrotto la fronte, confusa.

    «Incidente stradale, due settimane fa.» Abbassa la voce. «Li ha uccisi entrambi.»

    «Oh, mio Dio...» Il mio cuore sprofonda e i miei occhi si riempiono di lacrime. «Sono così dispiaciuta. Sono qui a farneticare di aver camminato per qualche chilometro e tu... oh, accidenti, mi sento malissimo. Sono così dispiaciuta per la tua perdita.»

    Lui alza una mano. «Non voglio la tua pietà e di certo non ho bisogno del tuo aiuto.»

    «Capisco... io...» Mi sposto di qualche passo e, con un profondo sospiro, prendo in mano tutto il mio bagaglio, anche se le mie spalle bruciano per lo sforzo.

    «Auggie?» chiama la bambina e lui mi dà una spinta mentre raggiunge l’altro lato della macchina.

    Mi incammino, coi piedi doloranti, e le lacrime vengono giù senza freni, al ricordo delle innumerevoli ore passate con i Cotton a parlare di Tanglewood e del loro figlio, e di quanto fossero eccitati per la prospettiva che Zampe per la Causa arrivasse in città. Con la vista annebbiata, inciampo su una delle radici tuberose di quercia che fanno capolino tra le pietre del selciato. Percepisco gli occhi di August sulla mia schiena e sembrano bruciarmi.

    Le lacrime che mi scorrono lungo le guance potrebbero sembrare una reazione eccessiva visto che io e i Cotton non ci siamo mai incontrati di persona, ma non è solo la notizia della morte di Greyson e Pearl che mi fa arrabbiare così tanto, è tutto... da queste dannate valigie, ai miei poveri piedi malandati, fino al fatto che non ho un posto dove andare. Sono altri cinque chilometri per raggiungere la stazione e so che non ci saranno più altri autobus questo pomeriggio, ma non saprei dove andare neanche se ci fossero. Sono davvero fottuta. E, a peggiorare le cose, August Cotton è uno stronzo. Uno splendido stronzo, ma resta comunque uno stronzo.

    Quando finalmente raggiungo la fine del vialetto, butto a terra le valigie. Percepisco ancora gli occhi di August su di me, ma non posso più sostenerne il peso, nemmeno per salvarmi la faccia di fronte a un Marine arrabbiato. Probabilmente, in questo momento, starà lì a ridere di me perché non sono in grado di portare tre valigie senza rovinarmi una spalla, ma non mi interessa. Per gli ultimi sei metri ho spinto, calciato e praticamente trascinato il mio bagaglio, per fare in modo di trovarmi fuori dalla proprietà dei Cotton e... okay forse ci sono ancora dentro, perché sono abbastanza sicura che anche la terra all’esterno della casa sia loro, ma non importa: ufficialmente non sono più nel loro vialetto. Mi metto un po’ a sinistra del cancello, sposto la valigia grande, mi ci siedo sopra e mi chiedo a che cosa diavolo stessi pensando quando ho deciso di portare tanti completini di reggiseni e mutandine abbinati. Non pesano molto, ma le loro custodie sì. Non rovinerei il mio La Perla per niente e nessuno.

    Mi tolgo gli stivali e mi strofino le vesciche. Trattengo le lacrime, tiro su con il naso e provo a fare un bel respiro, mentre nella mia testa si rincorrono i pensieri: i Cotton mi piacevano, ma non mi piace il loro figlio, neanche un po’. Non appena mi rimetto gli stivali, do un calcio alla valigia più vicina a me e la faccio finire a terra, nell’erba secca.

    «Stupido, stronzo Marine.» Inizio a dare calci all’altra valigia. È da idioti, lo so, perché mi fanno male i piedi, ma questo non mi impedisce di essere nervosa e farla pagare ai miei bagagli. Quando sento i piedi intorpidirsi, e ho eliminato con successo tutta la mia frustrazione, mi giro e... resto senza parole vedendo lì, in piedi, August Cotton.

    «Hai finito?» chiede.

    «Che vuoi? Non sono abbastanza lontana dalla tua proprietà?» ribatto in malo modo, incrociando le braccia sul petto. Potrei essere un po’ imbarazzata per il mio sfogo, ma non voglio che se ne accorga.

    «Bettina mi ha spiegato la situazione» replica, con impazienza.

    «Bettina?»

    «La bambina di quattro anni seduta nella mia macchina.»

    «Oh!» dico tirando su con il naso. «Quella è la piccola Bettina? È carina come aveva detto Greyson.»

    Lui annuisce. «Con tutto quello che è successo, non ho controllato il registro delle prenotazioni. Non sapevo che avessimo un’ospite.»

    «E io non sapevo dei tuoi genitori» dico. «Se l’avessi saputo, avrei prenotato altrove.»

    La sua mascella scatta. «Non c’è nessun altro posto. A meno che tu non voglia camminare per dieci chilometri fino a Foley.»

    «Grandioso!» commento con tono sarcastico. Le mie spalle si abbassano in segno di sconfitta. «Semplicemente grandioso.»

    «Perciò, se hai finito di prendere a calci le tue cazzo di valigie, posso portarle dentro per te.»

    «Non starò in casa» ribatto.

    «Okay, fai come vuoi, ma qui fuori fa piuttosto freddo durante la notte.» Si stringe nelle spalle e questo gesto sembra strano per uno così grande e imperturbabile. «Verresti mangiata viva dagli insetti.» L’angolo della sua bocca si gira all’insù di un millimetro. «Sempre che i coyote non ti rosicchino prima le dita dei piedi.»

    «Bene, passerò soltanto questa notte in casa» replico stringendo le braccia al petto. «Puoi restituirmi la caparra dell’affitto domattina e, per prima cosa, troverò un appartamento in affitto.»

    «Domani è festa cittadina.»

    «Scusami?»

    «Il Quattro luglio» ribatte con tono impaziente, come se fosse qualcosa che dovrei sapere.

    «Ma domani è solo il primo di luglio.»

    «Eh già e l’intera città chiude i battenti per quattro giorni.» Si china e afferra le due valigie più grandi, sollevandole con facilità.

    Bastardo.

    Magnolia Springs non è poi così lontana da Fairhope. Sarei potuta restare a casa e venire qui in auto, guidando una mezz’ora ogni giorno, per andare e tornare dal rifugio, ma volevo vivere un’avventura. Ero ansiosa e volevo supervisionare ogni aspetto della nostra nuova espansione. Ho già subaffittato la mia casa a uno dei miei dipendenti, sapendo che restare a Fairhope non mi avrebbe permesso di affrontare la situazione al meglio. Si dice che per allevare un bambino ci voglia un intero villaggio e... a volte, lo stesso vale per guarire un veterano. I veterani hanno bisogno di sostegno e di persone che stiano al loro fianco e non posso essere un punto di riferimento se sono a trenta minuti di distanza e loro si stanno puntando una pistola alla tempia, pronti a premere il grilletto.

    Potrei sempre chiamare Ellie o Jake per chiedere loro di venire a prendermi finché le vacanze per il Quattro luglio non saranno concluse, ma so quanto sia dura questa festa per loro e, con Spencer e la piccola Maybelle, hanno già abbastanza cose da fare. E poi tornerei comunque al punto di partenza. Ho voluto la bicicletta e adesso devo pedalare, anche se significa convivere con questo Marine arrabbiato per qualche giorno. Ho vissuto di peggio.

    «Dai, muoviti» mi esorta August. «Non serve a nulla restartene qui seduta a prendere a calci le tue valigie.»

    Lo guardo male, ma una fitta di senso di colpa si fa strada attraverso il mio petto. Non sono davvero arrabbiata con lui, sono arrabbiata con me stessa. Non solo ho aperto la mia boccaccia e insultato quest’uomo con la mia capacità di dire sempre la cosa sbagliata nel momento sbagliato, e facendolo persino nel peggior modo possibile, ma sono stata anche egoista. August e la piccola Bettina hanno seppellito i loro genitori oggi; i Cotton hanno perso la vita e io sto piangendo per qualche vescica e al pensiero di dover stare con uno stupido Marine finché questa stupida città non si deciderà a riaprire le sue attività.

    August si è avviato e si trova già a metà strada quando afferro la terza valigia, quella che contiene il mio super speciale La Perla, che conservo per i giorni in cui mi sento giù. Il lavoro che svolgo ha i suoi lati negativi – oltre a dover spalare la merda di cane dal canile, intendo – ma le storie di alcuni dei Marine che ho aiutato mi hanno strappato il cuore. E visto che sono una donna che non è sempre stata la persona più felice su questa terra, e ho passato molto tempo a cercare i modi più efficaci per farla finita, posso capire la loro disperazione. A volte trovo difficile lasciare il lavoro alle spalle. Lavorare con i cani ha aiutato me e ora io aiuto gli altri, ma non è sempre stato così e la mia vita non è sempre stata facile. La vita non è sempre facile. Guardandomi non lo si direbbe, ma in questi trent’anni ho combattuto. Lotto ogni giorno con la persona che sono, con la donna che vedo allo specchio. Non sono stata al fronte, ma ho combattuto con una dannata determinazione per essere dove sono, proprio come hanno fatto i nostri reduci.

    Guardo August che cammina davanti a me, portando le mie valigie come se non pesassero nulla. La sua andatura è abbastanza fluida per un amputato, il che significa anche che ha avuto un buon fisioterapista, o che si è fatto il culo da solo. Di certo è claudicante, ma un occhio inesperto non lo noterebbe subito. Sarei disposta a scommettere una gran bella cifra che una persona qualsiasi non lo indovinerebbe mai, a meno che August non indossasse dei pantaloncini. Naturalmente, sarei anche disposta a scommettere che qui tutti lo sappiano. In una piccola città, chiunque sa tutto degli altri, specie quando si tratta di qualcosa di tragico.

    Per mia sfortuna, ciò non lo rende meno uomo ai miei occhi, o comunque meno bello da morire. Per mia fortuna, non è uno stronzo patentato. Avrebbe potuto lasciarmi qui fuori a cavarmela da sola. Per prima cosa, venerdì leverò il disturbo e affitterò una stanza da qualche parte. O almeno lo spero.

    August mi attende alla base della scalinata con un’espressione impassibile, ma sono abbastanza sicura che, tra sé e sé, mi stia prendendo in giro e, anche se la cosa mi infastidisce all’inverosimile, allungo il passo per non farlo aspettare troppo. Una volta là, noto che c’è anche Bettina, seduta sui gradini, a poca distanza.

    Mi guarda con circospezione per un po’. «Hai un facco di valigie.»

    Accenno un sorriso. «Lo so. Non mi piace viaggiare leggera.»

    «Non fono mai ftata al di fuori della mia città» dice, e non posso fare a meno di sorridere perché il suo difetto di pronuncia è una cosa tenerissima.

    «Be’, in realtà nemmeno io sono stata in molti posti. Insomma, ho fatto un viaggio con il mio ex a Dallas, anche se non è stato molto divertente, e non assomigliava a una vacanza.» Sto blaterando. August si schiarisce la voce.

    «La mamma diceva che ftavi coftruendo un canile.»

    «Una specie. Aiuto a mettere in coppia i soldati con i cani da assistenza.» Faccio scivolare il mio sguardo su August, la cui mandibola è serrata mentre guarda oltre la mia testa, verso il vialetto. Probabilmente sta pensando che parlo troppo e vorrebbe avermi lasciato fuori dal cancello, con i coyote.

    «Mi piacciono i cani» dice Bettina, giocando con l’orlo del suo vestito blu notte. È adorabile con quel colletto alla Peter Pan e le maniche a sbuffo. I suoi lunghi capelli castani ricadono fino alla vita e vengono trattenuti da una fascia ornata da un enorme fiocco. Questa bimba, da grande, spezzerà molti cuori. Ancora qualche anno e August dovrà di nuovo familiarizzare con un fucile per allontanare i ragazzi. «La mamma diceva che non poffiamo averne uno, perché le perfone che fi fermano qui potrebbero effere allergiche.»

    «Bett, vai dentro e cambia il tuo vestito buono» interviene August.

    «Ma io non voglio.» Lei si alza e incrocia le piccole braccia sul petto – dev’essere una caratteristica dei Cotton – e so che non dovrei incoraggiarla, ma ridacchio perché in questo momento è il ritratto di suo fratello. August mi lancia uno sguardo di disapprovazione e mi zittisco in fretta. «Mi piace quefto veftito!» dice la piccola, battendo il piede, mentre lacrime di indignazione affiorano nei suoi occhi. «E anche a mamma piaceva.»

    «Ora!» ordina August, con un tono che fa girare a entrambe di scatto la testa verso di lui. «E appendilo. Non voglio trovarlo sul pavimento della tua stanza, quando te lo sarai tolto.»

    Bettina urla: «Ti odio!» e scoppia a piangere.

    Poi corre su per le scale, attraversando il portico, fino in casa, dove una porta sbatte. Rabbrividisco. Non sono

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