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Memoria violenta (eLit): eLit
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E-book354 pagine5 ore

Memoria violenta (eLit): eLit

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Info su questo ebook

Anna Kimble, professoressa universitaria, è alle prese con il blocco dello scrittore, che le impedisce di realizzare il proprio sogno di scrivere un romanzo. Accetta quindi volentieri l'invito di una sua allieva, Rachel, a trascorrere una vacanza in un'isola caraibica. Ma non è certo per il mare meraviglioso, il sole instancabile e le palme al tramonto che questo soggiorno caraibico rimarrà indimenticabile. Ci sono infatti dei dettagli di cui Anna è all'oscuro. Ad esempio, la casa lussuosa che avrebbe dovuto ospitarle è in realtà un catamarano. E Rachel non è esattamente in vacanza; sta scappando da un anonimo persecutore che le lancia le sue minacce via e-mail. Essendo infatti una sorta di genio del computer, a soli 19 anni, la ragazza ha sviluppato per il fratello un programma di simulazione del cervello umano, senza preoccuparsi se lo scopo per cui sarà usato sarà dei più nobili o dei più pericolosi.

Se si riesce a sopravvivere, non mancheranno poi spunti originali per un romanzo di successo.
LinguaItaliano
Data di uscita31 mag 2017
ISBN9788858971260
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    Anteprima del libro

    Memoria violenta (eLit) - Olga Bicos

    successivo.

    Prologo

    Los Angeles - Poliziotti chiamati sul luogo di un furto con scasso scoprono che l'unico oggetto rubato è un cervello umano. Due studenti universitari sono stati incriminati per quella che le autorità definiscono una bravata forse compiuta sotto l'effetto di stupefacenti. Il cervello, che non è ancora stato ritrovato, veniva utilizzato in una ricerca sulla memoria umana condotta da un'azienda farmaceutica locale specializzata in preparati erboristici.

    Agenzia Stampa Reuters

    La donna seduta davanti al computer lavorava con frenetica energia, le gambe percorse da una sorta di incessante fremito, il busto curvato in avanti. Le sue unghie rosicchiate fino alla carne viva correvano sopra la tastiera mentre sul volto si alternavano i riflessi colorati del monitor da ventuno pollici.

    Con lo sguardo fisso sullo schermo piatto a cristalli liquidi, scriveva come sotto dettatura, analizzando i risultati del programma di simulazione da lei ironicamente battezzato Neuro-Sys.

    Aveva cominciato a scriverlo due anni prima, ma erano necessari continui aggiornamenti. Perciò la sua era diventata una presenza costante nel laboratorio a tarda ora, facilmente riconoscibile per i capelli quasi bianchi ritti sulla testa e le eccentriche lenti a contatto che trasformavano le sue pupille in sconcertanti creazioni grafiche, dal nero totale alle ipnotiche spirali bicolori.

    Il sistema operativo era veloce, ma in attesa dei risultati, la donna decise che avrebbe avuto il tempo di prendere un caffè alla macchina automatica posta nella stanza attigua.

    Gli uffici occupavano soltanto due locali collegati da porte a vetri. L'incessante andirivieni aveva usurato la moquette. Dopo essersi versata un caffè reso amaro dal surriscaldamento, lei guardò l'orologio. Era in ritardo sulla tabella di marcia, ma non era un problema. Non avrebbe trovato traffico a quell'ora.

    Con il condizionatore d'aria spento, il calore dei computer faceva lievitare la temperatura a livelli infernali. Ma lei aveva bisogno di restare sveglia, perciò aggiunse nella tazza una dose massiccia di zucchero e di quella panna in polvere che alcuni studenti chiamavano cancro bianco. Lei non aveva paura del cancro.

    All'improvviso le giunse dall'altra stanza l'esplosivo Alleluia! tratto da un coro del Messiah di Händel, che lei aveva installato sul computer per segnalare il completamento dell'operazione. Era giunto il momento di controllare i risultati.

    Lo schermo mostrava l'immagine tridimensionale di un cervello. Linee orizzontali definivano le sezioni trasversali. Neuro-Sys le consentiva di ruotare il cervello in qualunque direzione, evidenziando ciascuna sezione. Al pari dell'apparecchio a scansione usato negli ospedali per misurare l'attività cerebrale, Neuro-Sys mostrava i livelli di attività delle cellule cerebrali stesse. Gli ultimi risultati sembravano promettenti.

    Lei stampò i dati relativi a parecchie sezioni, lanciando un'altra occhiata all'orologio - avrebbe davvero dovuto schiacciare a fondo l'acceleratore se voleva arrivare in tempo. Scribacchiò alcuni appunti lungo il margine prima di infilare i fogli in una busta per le comunicazioni interne, ma quando già stava spostando il cursore per uscire dal sistema, improvvisamente esitò.

    Si disse che non era il caso di allarmarsi. Il file conteneva soltanto pure e semplici invenzioni che qualcuno stava usando per turbarla e confonderla. La sua società aveva per le mani qualcosa di grosso - chiunque, perfino all'interno della stessa Phoenix Pharmaceuticals, avrebbe potuto tentare di sabotare il progetto.

    Ma nemmeno lei credeva veramente a quell'ipotesi. E non era per quel motivo che era passata dal laboratorio all'ultimo minuto o che aveva un biglietto aereo nello zaino.

    Prima di poter cambiare idea, copiò anche il file LYNN STRATFORD. Nelle ultime due settimane aveva trafficato col sistema operativo, disattivando la registrazione cronologica delle operazioni per evitare che altri scoprissero quali file lei aveva copiato.

    Uscendo frettolosamente dal laboratorio, girò l'angolo e si fermò davanti alla labirintica distesa di cassette della posta per infilare una busta in quella che recava il nome Gunnar Maza.

    «Maledetto idiota» borbottò a mezza voce. Lo Squalo credeva di sapere cosa era meglio per lei, sempre a comandare, a dirle cosa doveva fare. Ma questa volta era lei che aveva un bel vantaggio su suo fratello.

    Soltanto mentre si girava verso le doppie porte dell'uscita, si accorse che dalla sua cassetta postale sporgeva qualcosa.

    Si fermò di colpo, raggelata, il cuore che pompava come quello di un tossicodipendente che avesse iniettato una dose di droga troppo pura. Aveva svuotato la cassetta appena prima di entrare nel laboratorio quella sera. Conteneva il consueto assortimento di insulsaggini: un volantino per un'ennesima festa studentesca sponsorizzata dai greci, una fiaccolata di protesta contro l'imperialismo yankee e l'immancabile fascio di stampe pubblicitarie.

    Ma ora c'era qualcos'altro. Una busta piegata in due.

    Il suo primo istinto fu quello di scappare. Non guardare! Non toccarla nemmeno! Ma lei doveva sapere. Non poteva semplicemente andarsene - doveva assicurarsi che fosse qualcosa di concreto e non una specie di miraggio.

    Con il respiro quasi affannoso, sfilò la busta e la aprì. All'interno c'era un comune foglio di carta. Per comporre il proprio messaggio, il mittente aveva ritagliato da una rivista le lettere, che formavano sbilenche righe ondulate in un arcobaleno di colori.

    Le lettere di minaccia ormai arrivavano quasi ogni giorno. Lei non aveva mai tentato di scoprire chi ne fosse l'autore. E tantomeno aveva denunciato il fatto alla polizia. Non voleva avere nulla a che fare con quei messaggi.

    Voleva soltanto fuggire e cancellare tutto.

    Appallottolò il foglio e lo cacciò nella tasca della giacca. È tutto passato. Sparisci. Varcò di slancio le doppie porte e scese di corsa i gradini, ma nella foga inciampò e barcollando finì al centro della piccola corte interna, rischiando di cadere a terra.

    A quel punto si girò, scrutando il buio del campus universitario. Sparisci.

    Si rese conto che stava trattenendo il respiro, spaventata e tremante come un bambino... ma non vide nessuno. Nessuna auto sospetta, nessuna figura in agguato.

    Ma lui poteva essere lì, ad aspettarla.

    «Anna. Devo trovare Anna» mormorò. «Dobbiamo andarcene da qui.»

    Tuffandosi nell'oscurità, Rachel Maza si precipitò verso la propria jeep, sperando di riuscire a correre più veloce dei suoi fantasmi, quella sera.

    A una certa distanza, i sommessi e ripetuti scatti di una macchina fotografica accompagnavano ogni suo passo.

    Osservando il veicolo che si allontanava, un uomo uscì dall'ombra, stringendo l'apparecchio fotografico in una mano. Aveva regolato velocità dello scatto alla scarsità della luce, con una pellicola ad alta esposizione. Nelle fotografie che avrebbe sviluppato più tardi, l'immagine della donna sarebbe apparsa come una spettrale sagoma sfocata.

    L'uomo sussurrò le parole che aveva composto nella sua lettera, quasi volesse richiamarle alla mente.

    «Io posso vederti. Io so chi sei. Non c'è possibilità di fuga per te.»

    1

    Per Anna Kimble, fissare la pagina bianca era una prova terribile. Le righe e gli spazi vuoti sulla carta sembravano gridarle: Ti sfidiamo a dimostrarti all'altezza. E ciò spiegava come mai, seduta al bancone di una tavola calda semivuota all'aeroporto internazionale di Los Angeles, non le veniva in mente nulla da scrivere.

    Fortunatamente, aveva tutto il tempo che voleva. Era in ferie. Una vacanza imposta da un gruppo di eletti che avevano raccomandato ai membri del consiglio d'amministrazione dell'università presso la quale lei insegnava - sgobbava? vendeva l'anima? si giocava i suoi anni migliori? - di bocciare il suo tentativo di ottenere la cattedra.

    Anna Kimble era disoccupata.

    Ci dispiace che non abbia funzionato per lei, Anna. Arrivederci.

    Il preside di facoltà in persona, Jim Bannor, le aveva dato la notizia. Grazie, Jimbo! L'aveva guardata dritto negli occhi mentre le annunciava - a lei, l'autrice di numerose pubblicazioni accolte con favore dalla critica, votata per due anni consecutivi professore eminente, e per di più suo lacchè personale - che era licenziata. E per aggiungere un tocco speciale, proprio Norman Fish, il suo ex marito, era stato chiamato a capeggiare il comitato dei tagliateste che con estrema disinvoltura l'aveva buttata fuori del nido accademico. Din! Il suo tempo era scaduto.

    So di averti delusa, Anna. Fish dava sempre il meglio di sé quando doveva comunicare brutte notizie. Ma le iscrizioni sono in calo e le teste cadono. Corre addirittura voce che Darth Bannor intenda cancellare interi dipartimenti per risolvere il problema delle cattedre. Due cromosomi X e una spruzzata di sangue cubano non basteranno a salvarti, e non credere che io non abbia cercato di sfruttare quel risvolto.

    «E la giungla la divorò» mormorò Anna nel silenzio della tavola calda, parafrasando Rivera, adorato autore alle cui opere lei aveva dedicato parte della sua vita... lavoro che la commissione, nella propria sconfinata saggezza, aveva giudicato irrilevante.

    «Avviso di spirale depressiva in arrivo.» Con i gomiti sul banco, Anna si massaggiò le tempie, dicendosi che non avrebbe pianto nella tazza di puro arabica. Molto più saggio riorganizzarsi. Buttare giù la caffeina tiepida e convincersi che Jim e Norman in realtà le avevano fatto un favore, poiché lei stava già contemplando nuovi orizzonti.

    Non sarebbe scivolata silenziosamente nell'incubo di dover aggiornare il proprio curriculum vitae, come familiari e amici temevano. Nossignore, lei aveva scelto il sogno: scrivere il Grande Romanzo Americano.

    «Celebrità, sto arrivando» disse rivolta alla pagina bianca.

    Fece segno alla cameriera di portarle una seconda tazza di caffè. L'unico altro avventore presente nel locale era un uomo che sedeva appiccicato al bancone del bar, con un vistoso quanto incongruo paio di occhiali da sole calato sul viso, come se le luci fluorescenti fossero troppo forti per lui.

    Distogliendo lo sguardo, Anna si girò a scrutare l'atrio in cerca di Rachel, la sua pupilla nonché istigatrice di quella vacanza.

    Era occorsa tutta la travolgente insistenza della giovane donna per staccare Anna, come lichene, dal guscio delle proprie responsabilità, malgrado il traumatico licenziamento.

    «Quegli schifosi ti hanno dato il benservito, Anna! Tu non devi niente a quella gentaglia, perciò non tirarmi fuori la baggianata del non posso piantare tutto nel bel mezzo del trimestre. Ascolta, io ho un amico che ha una casa ai Caraibi» l'aveva blandita Rachel. «Immagina... lozione solare, piña colada e giovani uomini dai corpi muscolosi. Ecco l'ispirazione che ti serve. Dai, Anna. Questa è la tua occasione. Finalmente avrai il tempo per scrivere il tuo libro.»

    Oh, la proposta suonava molto allettante - l'irresistibile magia di isole lontane - e pazzesca. Poiché una fida ape operaia come Anna Kimble continuava tenacemente a tenere le sue lezioni, a classificare elaborati, ad affrontare noiose riunioni del corpo docente, impermeabile a ogni tentazione di fuga.

    Ma perfino Anna Kimble aveva dei limiti. Quando dal suo ufficio l'avevano fatta traslocare nella stanza delle fotocopiatrici, la sua dedizione al lavoro si era incrinata. Mi dispiace, Anna, ma la biblioteca della facoltà ha bisogno di ampliamento e il tuo ufficio è perfetto. Perché aspettare l'estate per cominciare i lavori se il tuo impiego verrà soppresso? Jimbo, al massimo della forma.

    Nelle settimane successive, il disagio era cresciuto. L'incessante rumore di fondo di quelle macchine avrebbe spinto perfino il più ligio collaboratore a un ammutinamento di metà trimestre. Gli sguardi compassionevoli dei colleghi esprimevano identici sentimenti: sollievo per lo scampato pericolo, timore che la disoccupazione potesse diventare contagiosa come l'influenza.

    E poi la goccia che aveva fatto traboccare il vaso - Rachel che le si presentava davanti in lacrime, annunciando che sarebbe partita, con o senza di lei. Perché suo fratello, custode dei cordoni della borsa di famiglia, aveva posto il veto al proseguimento del suo programma di dottorato all'Harbour College. Gunnar Maza voleva che Rachel archiviasse i propri sogni beat di scrivere poesie ed entrasse a tempo pieno nell'azienda di famiglia. Diversamente da lei, Rachel non si faceva scrupoli a scappare.

    Anna controllò l'orologio, dicendosi che avrebbe concesso alla ragazza altri cinque minuti prima di lasciare campo libero al panico. E vedendo il polso privo di gioielli, ricordò che aveva dimenticato a casa il suo bracciale portafortuna.

    Non era superstiziosa. Bracciale portafortuna era soltanto un modo di dire. Tuttavia, nelle orecchie le ronzava il vecchio consiglio di sua nonna. Giaietto. Per tenere lontano il malocchio.

    In realtà, lei aveva perquisito il suo appartamento in cerca del bracciale prima di andarsene frettolosamente a mani vuote, quando si era resa conto che avrebbe rischiato di non farcela se avesse trovato traffico sulla superstrada 405. Afferrando le valigie, si era detta che delle perline di giaietto e oro non avrebbero potuto proteggerla.

    Lungo il tragitto le era venuto in mente dove aveva lasciato il piccolo gioiello. Sul piano di lavoro della cucina. E non aveva incontrato traffico, essendo ormai tarda notte. Così aveva avuto il tempo di consegnare i bagagli, acquistare un sacchetto di mentine, una barretta energetica e parecchie riviste, individuare il cancello di imbarco e memorizzare ogni dettaglio di quella tavola calda.

    Troppo Kimble e non abbastanza Montes. Quella era l'affettuosa osservazione di sua madre, l'artista sudamericana che si era innamorata del futuro padre di Anna, saldo yankee coi piedi ben piantati per terra. La americanita, così Anna era stata soprannominata dai parenti materni - un chiaro riferimento al suo spagnolo dalla imperfetta cadenza e a un corpo che, col suo metro e settantacinque di altezza, era più adatto alle passerelle della moda che alla rumba.

    E da suo padre lei aveva anche ereditato l'ossessione della puntualità, mentre Rachel sarebbe comparsa giusto pochi istanti prima che i portelloni si chiudessero e l'aereo si staccasse dalla rampa d'imbarco. Meglio tardi che mai - quello era il credo di Rachel Maza.

    Ancora una volta, lei era arrivata troppo presto - era stata troppo pronta. Troppo Kimble e non abbastanza Montes. Uno schema di comportamento che con quel viaggio si proponeva di spezzare - perfino mentre sincronizzava l'orologio con quello della tavola calda, recitando mentalmente una piccola preghiera cattolica affinché Rachel le facesse la cortesia di non perdere il loro volo.

    L'uomo strofinò le mani sul camice verde da chirurgo prima di mettersi all'opera. La tenuta lo faceva sentire a proprio agio, più simile a ciò che era stato un tempo.

    Il laboratorio era una sua invenzione - improvvisato e squallido, facile da trasportare. L'intera attrezzatura era composta principalmente da oggetti che altri avevano già buttato via, con poche eccezioni acquistate tramite Internet.

    La ragazza stava scappando. Lui lo aveva messo in conto.

    Canterellando a bocca chiusa, si chinò sopra la porzione di un cervello umano sezionato, prelevando con cautela l'ippocampo e lasciandolo cadere in un recipiente cilindrico colmo di soluzione salina. Fotografie in bianco e nero su carta lucida coprivano un pannello in sughero appeso a una parete. Ne aveva scattata la maggior parte usando un teleobiettivo.

    Interrompendo il suo lavoro con il bisturi, l'uomo premette le dita su una di quelle immagini, che catturava un raro momento in cui la ragazza rideva. Non capitava molto spesso negli ultimi tempi.

    Ormai era chiaro che lei poteva quasi avvertire la sua presenza, sempre più vicina, lo sguardo che la spiava. Le sue dita accarezzarono il volto della giovane. L'aveva spaventata con i suoi piccoli messaggi anonimi. Ma lui voleva che avesse paura. Perché la paura l'avrebbe spinta a commettere qualche errore. Come stava succedendo ora.

    Lui invece non poteva permettersi di sbagliare. Gli errori lo avrebbero rispedito nella clinica con le finestre munite di inferriate e le cinghie in cuoio che lo imprigionavano nel letto, e dove il puzzo di disinfettante e di urina saturava l'aria. Gli errori avrebbero richiamato i medici che non smettevano di chiedere: Frédéric? Che cosa vedi adesso?.

    L'uomo tornò a occuparsi della sezione di cervello. Di un grigio rosato e a forma di cavalluccio marino, l'ippocampo era considerato uno degli elementi coinvolti nel processo di formazione della memoria. Era noto che le lesioni in quella parte del cervello provocavano amnesia. Lui lo aveva immerso nella soluzione salina, per conservarne la funzione vitale. Una sostanza fissativa come la formaldeide avrebbe ucciso le cellule.

    Ogni tanto, lui lanciava un'occhiata verso le fotografie della ragazza e mormorava tra sé, formulando promesse. Sul tavolo dove lavorava c'era un foglio, una copia della lista dei passeggeri del volo American Airlines numero 509. Un nome era evidenziato con un piccolo cerchio rosso. Rachel Maza.

    Quando fu pronto, tirò fuori un frullatore. Lo sistemò sul piano della scrivania e inserì la spina nella presa. Era un po' malconcio, lo aveva comprato in una vendita di oggetti usati. Ma serviva allo scopo.

    Prendendo il contenitore cilindrico, rovesciò l'ippocampo e la soluzione salina nel bicchiere del frullatore e premette il pulsante.

    2

    Dopo avere trascorso un'ora e mezzo a osservare il decrescente numero di persone che percorrevano l'atrio dell'aeroporto - nessun segno di Rachel, naturalmente - Mister occhiali neri stava cominciando ad apparirle interessante.

    Fatta eccezione per i Ray-Ban, lo sconosciuto aveva un aspetto del tutto ordinario. Chiaramente non si trattava di un divo del cinema o di una celebrità che viaggiasse in incognito. Non c'era nulla di singolare o straordinario in lui. Eppure, Anna non poteva evitare di fissarlo.

    Per un istante, prese in considerazione l'ipotesi che ad attirarla fosse proprio quella sua normalità, cui si sommava un tale senso di noia che le consentiva di cominciare a riconoscere sagome di svariati animali nelle venature del piano in finto legno del bancone. L'uomo teneva la testa girata di lato per sorvegliare il salone delle partenze come se anche lui stesse aspettando qualcuno, e ciò le consentiva di studiarlo senza farsi notare.

    Era un tipo attraente, sul modello di George Clooney, o di quell'attore irlandese, Colin Farrell. Bruno, vigoroso... insomma, il classico maschio senza tentennamenti. Anna aveva gusti del tutto diversi in fatto di uomini. Li preferiva d'aspetto più elegante, come Norman - Lo so, papà. Un errore madornale.

    Gli abiti, l'atteggiamento del corpo, il volto non rasato. Più lei ci pensava, più si rendeva conto che lo sconosciuto incarnava un archetipo.

    Anna girò la pagina ormai piena di scarabocchi e sul foglio bianco e invitante annotò di getto: Un viso nel quale si intuiva l'eco segreta di un'anima che da tempo si era perduta.

    Forse era il caffè, la sua terza tazza, oppure soltanto la noia. O forse a ispirarla era il timore che da un momento all'altro lo stimatissimo Gunnar Maza potesse entrare in quella tavola calda, con piglio militaresco e la polizia al seguito, per accusarla di avere plagiato la sua sorellina - sempre che Rachel si fosse presa il disturbo di presentarsi. Per qualche strana associazione di idee, Anna ripensò a sua madre e alla veemenza con cui aveva accolto la notizia del trattamento riservatole dal college dove entrambe avevano insegnato.

    «Animal! Bestia!» aveva esordito Isela in spagnolo, varcando la soglia dell'appartamento di Anna. Snella e flessuosa, arrivava a malapena al metro e cinquanta, a meno che non portasse tacchi vertiginosi, dai quali in effetti raramente si separava e che non rallentavano in alcun modo la sua andatura.

    Si era fermata un momento davanti al divano prima di sedersi, gettando i lunghi riccioli dietro le spalle. Isela tingeva i capelli di un rosso cupo, un colore che nel suo caso inaspettatamente non appariva incongruo o ridicolo nonostante i suoi sessantadue anni.

    «Che potesse riservarti un trattamento del genere» aveva aggiunto in spagnolo. «E solo per colpire me.»

    «Chi, mamma?» le aveva chiesto Anna, in inglese. Poiché era così che operavano, lei e sua madre. L'americana d'elezione e l'esule cubana caparbiamente attaccata alle proprie radici.

    «Bosque.» Un suono secco e tagliente come una scudisciata. Isela aveva sollevato il mento, il gesto di una donna avvezza a parlare in pubblico. «Avanti, Anita. Doveva soltanto sussurrare la parola sbagliata alla persona giusta. L'ho osservato per tutti questi anni, e so quanto può essere astioso. E solo perché è incapace di accettare la mia superiorità.»

    Il professor Armando Bosque aveva fatto parte della commissione cui era spettato il compito di decidere l'assegnazione della cattedra ad Anna. Al pari di molti dei suoi compatrioti, Isela tendeva a scorgere trame e complotti dietro ogni torto di cui era vittima.

    «Nelle vene di quell'uomo scorre veleno al posto del sangue» aveva aggiunto sua madre. «Non mi ha mai perdonato il fatto che il Nobel sia stato assegnato a me invece che a lui.»

    Isela Montes aveva ricevuto l'ambito riconoscimento una quindicina di anni prima. Valente poetessa, le veniva attribuito il merito di avere creato il movimento Neoromantico. Per Anna, uno dei primi ricordi d'infanzia era appunto quello di sua madre impegnata ad autografare copie dei suoi libri - e dell'orgoglio provato in quella circostanza.

    «È il peggiore esemplare di scrittore che possa esistere, Anita. Le sue sono soltanto scopiazzature! Ma fa credere a metà dei membri del consiglio d'amministrazione del college di essere un genio. È venuto da me la scorsa settimana a sottopormi una novella che ha presentato a Editorial Sudamericana. Pura pornografia, te lo garantisco, ma in fondo non è forse proprio la pornografia che ha fatto la fortuna di un nome o due? Io l'ho rifiutata, naturalmente. E questa è la sua vendetta.»

    Isela aveva assunto in pieno il ruolo di leonessa che proteggeva il proprio cucciolo, dando fondo a tutta la gamma espressiva del suo temperamento latino. Ma nel silenzio che era calato sulla stanza dopo quelle veementi parole, il suo volto si era addolcito, riflettendo il raro passaggio da famosa poetessa a madre preoccupata.

    «Anita? In che modo devo sistemare la faccenda?»

    Come se ne avesse gli strumenti. Come se fosse possibile.

    Anna fissò il blocchetto di fogli sul bancone della tavola calda. Le frasi che aveva annotato cominciarono ad apparirle indistinte. Allora chiuse gli occhi, consapevole che qualunque cosa avesse scritto su quelle pagine a righe non avrebbe potuto ridefinire una vita. Lei era una donna di trentadue anni, da tempo divorziata e senza figli. Fra le mani non le restava nulla dopo avere follemente sacrificato la propria linfa vitale per una fantomatica carriera.

    E lei voleva di più. Ne aveva bisogno. Non era mai successo prima, ma ora osava sondare il proprio animo in cerca di un pizzico della magia di sua madre, fermamente decisa a vedere il mondo in maniera diversa.

    E poi, del tutto inaspettatamente, accadde.

    Quando aprì gli occhi, le pareti che la circondavano scomparvero. La cameriera, l'atrio, le sue ansie, tutto sembrò dissolversi come in uno sbuffo di fumo. Un sommesso ronzio le riempì le orecchie mentre una foschia le annebbiava la vista in una sorta di effetto speciale cinematografico.

    Per la prima volta nella vita pragmatica e austera di Anna, l'immaginazione prese il comando. Proprio come sua madre, la famosa poetessa cubana e premio Nobel, aveva preannunciato, Anna troppo-Kimble-e-non-abbastanza-Montes a quel punto penetrò nel mondo fantastico dello scrittore.

    Al di là del bancone, la giungla che lei aveva studiato e amato in anni di ricerche su polverosi volumi cominciò incredibilmente a prendere forma, mentre piante rampicanti si avviluppavano sopra il piano di formica e l'aria fremeva del respiro caldo e umido della giungla, battuta da una pioggia torrenziale che scrosciava così assordante da coprire il sottofondo creato da rane e insetti.

    Anna tornò a osservare l'uomo seduto al bar. Abiti e occhiali scuri non c'erano più, e i muscoli del torace scintillavano di sudore sotto una chiazza di peli scuri che si assottigliava fino a scomparire nella cintura di un paio di jeans tagliati al ginocchio e sfrangiati. Il primo bottone era slacciato, come se lui avesse avuto fretta e non si fosse preoccupato di quell'ultimo brandello di decoro. E nella mano possente stringeva un machete, appoggiato di traverso sulla coscia.

    Quando lo sconosciuto si girò a guardarla, lei si rese conto che aveva occhi verde scuro, come le profonde acque del Rio delle Amazzoni.

    Un nome le si affacciò alla mente, un sussurro che giungeva da un punto nel profondo del suo essere. Raul.

    «Vuole che glielo riscaldi?»

    La penna di Anna rotolò sopra il bancone, dal quale rampicanti e carnosi calici erano misteriosamente scomparsi. Lei alzò gli occhi e si accorse che la cameriera attendeva una risposta con la caraffa in mano.

    E lo sconosciuto continuava a sorvegliare l'atrio attraverso la vetrina, abiti e occhiali da sole saldamente al loro posto, inconsapevole del minuzioso esame di cui era oggetto.

    La cameriera indicò la tazza di caffè, pronta a versare.

    «No. No, grazie» le rispose Anna, chiedendosi quale fosse il potere visionario della caffeina. Grazie agli studi di Rachel sui principi attivi ricavati da vegetali della foresta pluviale, conosceva gli effetti allucinogeni di alcuni preparati galenici, ma non riteneva che la caffeina rientrasse in quella categoria, indipendentemente dal quantitativo ingerito.

    D'altra parte, la possibilità che l'assennata Anna Kimble avesse appena trascorso oltre cinque minuti sognando a occhi aperti le appariva altrettanto improbabile.

    Afferrò la penna, un regalo dei suoi genitori, e la cacciò nella borsa da viaggio insieme al bloc-notes. Dopo avere prelevato dal portafoglio la somma appropriata in monetine, badando di aggiungere una generosa mancia, si avviò verso l'uscita più vicina. Camminava a testa bassa, evitando deliberatamente di guardare l'uomo seduto al banco.

    Come se a lui potesse interessare la sua fuga precipitosa. Con tutta probabilità quel tipo non l'aveva neppure notata.

    Lasciato il locale, studiò per un attimo i propri scarponcini da trekking, sbalordita e un po' confusa. Lei non sognava mai a occhi aperti. Una simile attività esigeva un allentamento di quel ferreo controllo che era parte integrante della sua persona. Insomma, lei non riusciva nemmeno a farsi ipnotizzare.

    Ma era pronta a giurare che in quella tavola calda aveva perso la cognizione del tempo e forse anche il contatto con la realtà.

    Dietro di lei, una voce familiare chiamò il suo nome. Mentre si girava, Rachel le sfrecciò accanto, sollevando la mano che stringeva un pacchetto di sigarette per indicare la sala d'attesa riservata ai fumatori. Indossava pantaloni in tela cachi trattenuti in vita da

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