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L'ultimo rito
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E-book987 pagine11 ore

L'ultimo rito

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Info su questo ebook

Un’avventura mozzafiato alla ricerca di una risposta che salvi l’umanità dal suo destino di schiavitù. Nelle trame di una storia che penetra il tempo, si svela il retroscena occulto del potere mondiale. L’ultimo rito è il sigillo finale dell’Indice di Raffaello... La chiave oscura di una tremenda profezia o la pura esaltazione di una follia millenaria?
LinguaItaliano
Data di uscita7 mag 2014
ISBN9788891141170
L'ultimo rito

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    Anteprima del libro

    L'ultimo rito - Ralph Colemann

    coro.

    Capitolo 1

    Roma, Vaticano,

    lunedì 23 maggio 2011, ore 08.00

    L’urlo rimbombò nel corridoio dagli alti soffitti a volta finemente affrescati. Il fragore di metallo e porcellane infrante profanò il religioso silenzio di quell’ambiente eletto.

    Suor Albertina, paonazza e tremante, stava ritta in piedi sulla porta di quella stanza dove, ogni mattina, aveva il compito di servire la colazione a base di tè e fette biscottate.

    Ora la sorella non sapeva che fare, salvo tenere le dita di una mano strette fra i denti, mentre con l’altra si tappava gli occhi incredula.

    Quel fracasso allarmò qualcuno nella stanza vicina.

    «Per la misericordia di Dio! Che cosa succede?», chiese il giovane diacono precipitandosi fuori.

    Suor Albertina gli puntò addosso gli occhi spalancati e indicò l’interno della stanza con mano tremante.

    Il diacono si affacciò alla porta, cercando di non calpestare i cocci sparsi sul pavimento.

    «Mio Dio!», mormorò in un rantolo, mentre con una mano si tappava la bocca e con l’altra afferrava la spilla a croce che luccicava sul bavero della sua giacca grigia. Senza indugio corse di nuovo nella stanza dove ripartiva e catalogava i nuovi acquisti della biblioteca della Congregazione per la Dottrina della Fede, una volta Santo Uffizio Romano.

    Al piano di sopra, in una sala riccamente arredata, squillò il telefono. Il giovane sacerdote, segretario di quell’ufficio direzionale, sospese a malincuore l’ispezione della posta elettronica quotidiana. Mugolò per il disappunto, sbatté le palpebre e poi si decise a tirare su la cornetta.

    «Vostra Eminenza, cercano lei personalmente», scandì il giovane con una voce chioccia dall’accento tedesco.

    «Per favore, passami qui la telefonata, Kaspar!», lo invitò gentilmente il cardinale dall’altro lato della stanza. Sapeva che si trattava di una chiamata interna, perché quelle esterne giungevano filtrate da un centralino.

    «Mi perdoni, Vostra Eminenza. La vogliono di persona, non al telefono… Giù, agli archivi», precisò. «Sembra una faccenda urgente», concluse con una flemma che contraddiceva il senso della frase.

    Il cardinale Arturo Engalli sorrise amabilmente, immaginando la solita seccatura di Monsignor Vinícios Camargo, il bibliotecario responsabile degli archivi della Congregazione. Costui era giunto dal Brasile da poco tempo e l’incarico affidatogli in Vaticano doveva sembrargli di estrema responsabilità. Così, per ogni minimo dettaglio aveva bisogno dell’approvazione del suo diretto superiore, fosse pure per un’orecchia scoperta nella pagina di un volume.

    Tuttavia, anche Engalli si era stabilito lì di recente. Già monsignore consulente della Pontificia Commissione di Archeologia Sacra, era stato chiamato a dirigere le pubbliche relazioni con gli enti culturali internazionali interessati alla consultazione dell’archivio. Data l’importanza del suo nuovo ufficio, gli era giunta subito la nomina cardinalizia, alla quale sembrava dare poca importanza. Tutto ciò poteva suonare come una promozione, ma la sua vera passione era lo studio delle antiche lingue mesopotamiche.

    Il cardinale si alzò dalla poltroncina puntando entrambe le mani sul massiccio ripiano della scrivania di quercia che, con zampe leonine, faceva una certa impressione.

    Engalli non sembrava dare molta importanza alla forma. La sua figura, piuttosto dimessa, stonava con lo sfarzo della stanza in cui lavorava.

    Allargò le braccia guardando Kaspar in segno di rassegnazione e guadagnò in fretta l’uscita. I suoi passi echeggiarono ritmici nel corridoio, finché iniziò a scendere la prima rampa di scale con andatura quasi atletica. Sebbene avesse superato la cinquantina vantava un’invidiabile forma fisica.

    Giunto al piano di sotto, si trovò di fronte una scenografia inaspettata: una suora, abbandonata su una panca, preda di un singhiozzo convulso. Non la riconobbe, poiché si copriva il volto con le mani. Poi notò il giovane diacono dell’ufficio catalogazione che procedeva verso di lui agitando le braccia come per cacciar via un nugolo di vespe. Infine si accorse del vassoio d’argento rovesciato a terra e dei frantumi che lo circondavano sulla soglia dell’ufficio di Monsignor Camargo.

    Cercò di raccogliere le idee. Che stava succedendo?

    Si affacciò alla porta, noncurante dei frantumi che scricchiolavano sotto il cuoio delle scarpe: un sudore freddo gli imperlò la fronte corrugata, in contrasto con una vampa di calore che nel frattempo gli saliva dal petto. Era la prima volta che si trovava di fronte una situazione del genere. Arretrò di qualche metro, guardandosi intorno incerto sul da farsi.

    Un rumore di passi concitati lo riscosse.

    «Dove si trova il malato?», chiese un uomo distinto sulla quarantina. Al suo fianco, un giovane in camice bianco portava con sé una borsa sulla quale spiccavano il caduceo, simbolo della scienza medica e lo stemma dello Stato Vaticano.

    L’attenzione di entrambi i soccorritori fu attratta da Suor Albertina, ancora accasciata sulla panca, ridotta ad uno straccio. Il pallore del viso e delle mani contrastava talmente con l’abito scuro da farla sembrare il personaggio di un vecchio film di Ingmar Bergman. Pensarono ad un malore della sorella e l’infermiere preparò bomboletta e mascherina d’ossigeno.

    «Malato?», ripeté Arturo Engalli ancora frastornato. La sua voce rimbombò nel silenzio del corridoio.

    Il medico si voltò e lo squadrò da capo a piedi. Il suo interlocutore indossava un clergyman di foggia semplice, al limite della sciatteria. Pensò che per i cardinali non era conveniente andarsene in giro in clergyman, ma ormai la cosiddetta modernità aveva avuto il sopravvento sulle regole più rigide. Però qui c’era di più. Osservando lo strano abbinamento di clergyman, zucchetto e collana con croce tipici dell’abito talare, si figurò un soggetto alquanto bizzarro…

    Gli si rivolse con un leggero inchino. «Eminenza, sono Aldo Franciotti, il medico di turno del servizio d’emergenza. Qualcuno ha telefonato al pronto soccorso».

    «Sono stato io», intervenne timidamente il giovane diacono, che fino a quel momento si era fatto piccolo in un angolo… Avrebbe voluto sparire. Tuttavia, ripreso coraggio, con un gesto della mano indicò al medico la giusta direzione.

    Il dottor Franciotti inarcò le sopracciglia sorpreso, poi si diresse verso la porta spalancata poco distante e si accorse del vassoio e dei cocci sparsi sul pavimento dove fette biscottate e tè versato avevano formato un viscido intruglio.

    Evitando di pestare quella roba, si affacciò per guardare nella stanza, seguito dall’assistente e dal cardinale.

    Monsignor Vinícios Camargo giaceva immobile, seduto sulla sua poltroncina, riverso con la faccia sul ripiano della scrivania.

    Colto da una sincope?

    Engalli detestava pensare al peggio, ma gli occhi sbarrati in un muto grido di dolente stupore e il rivolo di sangue che fuoriusciva dalle narici di quel malcapitato erano segnali che poco spazio lasciavano all’ottimismo.

    «È morto», sentenziò il medico, senza preamboli. Gli era bastata una rapida occhiata, posando le dita sul collo.

    «Morto?», balbettò il cardinale annaspando nella sua stessa domanda retorica. «Santo Iddio! Com’è possibile?».

    «Con tutto il rispetto, eminenza, morire non è impossibile», rispose il medico. «Non sono un patologo e posso solo riscontrare la morte. Inoltre, sulle cause non ho elementi sufficienti. Posso solo…».

    Così dicendo il medico osservò la cute del cadavere nei punti in cui era visibile e poi si abbassò nel tentativo di controllare le caviglie. Con un po’ di sforzo per non modificare la postura del corpo esanime, si abbassò sotto la scrivania, sollevò delicatamente l’orlo dei pantaloni e abbassò i calzini.

    «Posso solo azzardare… Beh, secondo me è già morto da un’ora, forse tre».

    «Almeno un’ora, forse tre?», ripeté il cardinale imbarazzato, ma si sforzò di proseguire la conversazione. «Lo si capisce dalla temperatura del corpo?», chiese cercando di controllare il tremore che gli modificava la voce.

    Il medico scosse la testa e fece un cenno all’infermiere affinché uscisse per occuparsi di nuovo della suora, che, data la situazione, aveva bisogno di sostegno. «Vede, eminenza», disse poi cercando le parole giuste. «Vede… i soggetti magri e longilinei come lui abbassano più velocemente la temperatura corporea… Ciò può trarre in inganno».

    «Allora?», insistette il cardinale alimentando quella conversazione paludosa.

    «Livor Mortis… Comparsa di macchie ipostatiche, eminenza. Cominciano a formarsi sull’epidermide dopo una trentina di minuti dal decesso e il fenomeno aumenta stabilizzandosi nell’arco di dieci ore. Poi l’inizio di irrigidimento muscolare… Però non vorrei entrare in dettagli troppo tecnici».

    «D’accordo, d’accordo», assentì Engalli. «Ma perché questa morte improvvisa?», insistette, incrociando le dita delle mani sotto il mento.

    «Improvvisa o imprevedibile?», chiese il medico con una punta di ironia. «Il soggetto è sulla sessantina, mi pare… Era in cura per qualche patologia? Soffriva di cardiopatie? Ipertensione? Assumeva farmaci particolari? Noto che ha un fisico rifinito… Faceva cure dimagranti? Cominciava ad avere tendenze anoressiche? Faceva uso di droga?».

    A questa ultima domanda il cardinale trasalì. Rosso in viso e con gli occhi sbarrati, serrando la mascella, sembrò voler polverizzare il suo interlocutore.

    «Dottore!», grugnì serrando i pugni. «Dottore! Non le permetto certe insinuazioni! Le chiedo rispetto per il luogo in cui si trova! Almeno rispetto per il defunto!».

    «Mi perdoni, eminenza. Per noi medici non è questione di rispetto, ma è soltanto routine. Sulle cause della morte la visuale è di trecentosessanta gradi… A prescindere dal soggetto in questione. La condotta di vita è importante per la diagnosi. Poi è lei che mi fa delle domande e io le rispondo solo per cortesia. Ora è il turno del patologo».

    Il cardinale si rilassò ingoiando amaro. «Ha notato il sangue dal naso?», chiese con il tono più sereno che riuscì a trovare.

    «Certamente. È per questo che le ho chiesto se il soggetto soffriva di ipertensione. Ciò può causare epistassi. Ma c’è anche l’urto del viso sul ripiano della scrivania. Oppure, che lei sappia, il sacerdote soffriva di malattie polmonari?».

    Il cardinale scosse la testa. «Non sappiamo quasi nulla di lui sotto questo aspetto. È da poco con noi. Neppure se si drogava, se è questo che vuol sapere!».

    «Capisco…», replicò il medico sorvolando la battuta provocatoria. «Non c’è risposta immediata. Potrebbero anche essersi verificate emorragie interne rilevabili con l’autopsia».

    «Autopsia? Allora non si tratta di morte naturale?», tuonò una voce che proveniva dalla soglia della porta.

    Quando i due si voltarono videro che stava entrando un tizio corpulento pieno di lentiggini, con due baffoni rossicci che nascondevano del tutto le labbra. Al suo fianco un giovanotto magro impugnava una fotocamera digitale.

    «Qualcuno ha telefonato al comando dicendo che qui è successo qualcosa di terribile…», aggiunse avanzando. Si guardò intorno circospetto, spostando più volte gli occhi dal cadavere al vassoio rovesciato a terra e viceversa.

    Ascoltando quelle parole da fuori della porta il giovane diacono si sentì inondare da un sudorino freddo. Cresceva in lui il sospetto angosciante di aver fatto troppo chiasso con le sue telefonate. Forse sarebbe stato meglio se ne avesse fatta una soltanto, direttamente alla Segreteria di Stato. Così se la sarebbero sbrigata loro, ma in quel momento di estrema agitazione la mente aveva vagato impazzita e le mani avevano annaspato quasi da sole sui tasti di quel dannato telefono.

    Mentre il medico e l’assistente restavano immobili ad osservare la scena, gli altri due si riconobbero e si salutarono cortesemente.

    «Eminenza… Brutte circostanze per incontrarci! Che succede qui?».

    Il cardinale, nel frattempo, aveva recuperato un certo autocontrollo, così sorvolò ogni prassi e rispose al vicecomandante della Gendarmeria Vaticana con un largo cenno della mano per sottolineare che i fatti parlavano da soli. Tuttavia, non riuscendo a liberarsi dallo sguardo scrutatore del gendarme, si decise a parlare, ma con studiata tranquillità. «Anch’io sono stato chiamato. Del resto sono il responsabile di questi uffici. Ma quando la morte colpisce improvvisa o meglio, come diceva poc’anzi il dottor Franciotti, imprevedibile, la nostra impotenza di poveri esseri umani è totale».

    «Morte naturale, allora, vero dottore?», chiese il vicecomandante spostando lo sguardo sul medico.

    L’altro allargò le braccia e sollevò le sopracciglia.

    «Bene… Visto che, come voi, sono stato chiamato, intanto farò scattare delle foto e informerò gli uffici competenti della Segreteria di Stato», disse come se dovesse seguire una semplice prassi. «Non so se sarà nominato un giudice per le indagini preliminari o se la faccenda sarà subito archiviata. Non so se l’autopsia potrà essere evitata…».

    «Se mai, un vero scempio per quel pover’uomo, morto senza neppure i sacrosanti conforti religiosi», lo interruppe il cardinale e, avvicinatosi alla salma, impartì una solenne benedizione.

    Il vicecomandante, ispezionò ancora l’ambiente con rapide occhiate. «Magari si potranno avviare subito le normali procedure delle esequie. Questo non dipende da me. Io sono stato chiamato per intervenire, prendo atto di questa faccenda e attendo istruzioni. Devo fare solo il mio dovere. Dovrò trattenervi qui per alcune domande di rito…».

    «Mi aspettano al pronto soccorso… Sono di turno. Ho già perso troppo tempo!», obiettò il medico.

    «Solo qualche minuto», assicurò mentre faceva cenno al suo aiutante di chiamare la suora, il diacono e l’infermiere.

    Quando tutti furono dentro, il gendarme passeggiò su e giù un paio di volte guardando bene in faccia uno per uno i suoi testimoni con i piccoli occhi cerulei dalla pupilla pungente. «Su quel tavolo laggiù vedo una bella postazione tecnologica», osservò. «Una docking station all’avanguardia… Però manca il portatile. Che fine ha fatto il computer?», chiese a bruciapelo, ma con naturalezza come se quella fosse la domanda più ovvia del mondo.

    Capitolo 2

    Hierosolyma,

    Saturni dies - Pridie Idus Iulias DCCCXXIII ab Urbe condita, hora sexta²

    Si respirava un’aria pesante.

    Non solo per il caldo afoso.

    Certo, la vampa del sole piombava dall’alto dello Zenith come un macigno, ma quello era un prezzo messo in conto da tempo. Era il suo lavoro, se così lo poteva chiamare, o meglio era il suo dovere.

    Galenus procedeva meditabondo, ancora stordito dal clamore… Tuttavia, davvero pesante era qualcos’altro per lui: un’oscura oppressione del cuore.

    Sudore, sangue, polvere gli imbrattavano il viso, ma, peggio, oscuri pensieri gli graffiavano l’anima, suo malgrado incrostata di ribrezzo.

    Da anni, ormai, aveva vissuto esperienze terribili, eppure, adesso ingoiava male certe atrocità. Come restare indifferenti? Mal sopportava il cinismo acre che la maggior parte dei soldati sguinzagliati in quella terra ostile, aveva dimostrato in battaglia… E, peggio, anche dopo.

    Questa volta neppure un briciolo di pietà aveva sfiorato gli animi, quella pietà del vincitore che molte volte era stata elargita ai nemici sconfitti.

    Qui però, bisognava dirlo, non c’era il solito nemico, ma una minaccia più subdola: lo spirito di ribellione di un popolo riottoso e inflessibile.

    Come piegare un popolo convinto di avere dalla sua parte un dio ultrapotente e invincibile, un dio che manda periodicamente sulla terra i suoi mashìach?

    Questa volta ce ne voleva uno speciale, nelle vesti di un grande condottiero o di un re potente che liberasse la sua gente dall’infame dominio dell’invasore.

    Illusioni. Nessun dio s’era fatto vivo sul campo e ora la sua stessa imponente casa doveva essere di nuovo profanata e distrutta.

    Quella doveva essere la fase estrema del conflitto dopo l’ultima battaglia: la mortifera umiliazione finale, il duro colpo fatale ad una presunzione secolare. La magnanimità e la proverbiale clemenza di Tito, che era persino rimasto ferito in battaglia, non erano servite granché… Neppure la mediazione di Yoseph Ben-Matityahu, il capo ribelle consegnatosi al nemico dopo la disfatta di Yodfat. Un uomo saggio per i Romani, degno del nome Flavius, un viscido traditore per i Giudei, degno di maledizione.

    Ora l’ultima battaglia era quasi finita, col nemico in fuga dopo un vero massacro. Una vittoria scontata.

    Qui non contava il numero dei soldati o delle migliaia di civili gettati nella mischia. Contavano le strategie, le tattiche militari… Insomma, l’arte della guerra di cui i Romani erano da tempo maestri. Era stata un’idea geniale e crudele di Vespasiano quella di far assalire Gerusalemme dal figlio Tito proprio nel periodo della Pasqua! Un momento assai particolare e delicato per quella gente.

    E l’assalto al tempio orchestrato proprio di sabato? Galenus si fermò un attimo, guardandosi intorno circospetto. Una finezza, architettata con vera astuzia!

    Bisognava sconvolgere nel profondo non solo chi doveva combattere un forte nemico, ma soprattutto chi entrava in conflitto con se stesso nella scelta fra l’ossessivo ossequio verso i precetti religiosi e l’estrema necessità di difenderli.

    Perché quello spettacolo lo intristiva? Scrollò il capo come per liberarsi dai pensieri e riprese il cammino. Tuttavia i sentimenti che da un po’ di tempo lo assalivano gli restavano appiccicati al petto. No, non voleva! Non poteva essere vero che quelle parole gli fossero entrate dentro come un tarlo corrosivo. Lui era un uomo pratico e ragionevole, dunque non poteva lasciarsi influenzare dalle follie che da un pezzo spargevano a destra e sinistra i seguaci di quel folle galileo che si era spacciato per Re dei Giudei. Un galileo era disprezzato in terra di Giuda. Poi era stato rigettato e condannato dai suoi stessi fratelli. Sì, fanatici! Sovversivi, malvisti anche dalla loro gente, costretti a vivere come talpe. Ed era pericoloso averci a che fare. Che le era preso alla cugina Lucilla di mescolarsi con quella setta che alcuni chiamavano cenacolo degli Essaíoi? Così lei, tutta presa da languori interiori insisteva per coinvolgere anche lui, un soldato romano!

    Galenus, tentò di cancellare quelle ossessive elucubrazioni con un colpo di spugna, ma invano. Cercava di volgere altrove la mente, di concentrarsi sulla missione, ma ogni volta le stesse sensazioni forti e peregrine lo assalivano impietose. Non solo…

    Vide un’ombra uscire lesta da un cumulo di cespugli e rocce. L’ombra saettò feroce verso di lui.

    Si riscosse.

    Menò un fendente con la rapidità di un felino. Un fiotto di sangue lo investì mentre l’aggressore gli si aggrappava disperatamente al mantello prima di rotolare a terra esanime.

    Latet anguis in herba!³. Amava citare il suo poeta preferito e conosceva a memoria parecchi passi delle sue opere.

    Ripulì il gladio ancora grondante sangue usando alla bell’e meglio la veste stracciata di quel cadavere riverso ai suoi piedi. Quello non era neppure un soldato, ma un giovane imberbe che stringeva in pugno un’arma rudimentale e manteneva negli occhi una fissità singolare, carica d’orgoglio. Lo sguardo, sebbene spento, saettava come un ultimo gesto di sfida contro l’invasore assassino.

    Parcere subiectis et debellare superbos!,⁴ rimuginò, quasi recitando a se stesso.

    Il fatto era che lì di sottomessi neppure l’ombra, salvo uno, il capo moderato dei rivoltosi suicidi, Yoseph Flavius, amico intrigante di Vespasiano.

    Vespasianus quomodo tecum? In che modo te la fai con Vespasiano? Così parafrasando i Sermones di Orazio, si convinse che dopo la morte di Nerone c’era stata parecchia confusione a Roma.

    I suoi pensieri furono interrotti dal sopraggiungere di alcuni uomini del drappello al suo seguito, tutti soldati scelti e valorosi che in quel momento avevano temuto per la vita del comandante. Non si sarebbe dovuto allontanare da loro in modo così imprudente.

    Intorno echeggiavano ancora le grida forsennate di inseguitori e inseguiti. Poi un inferno di fuoco? Certo! Una logica conseguenza. Mancava poco, se lo sentiva. Sarebbe successo, anche se Tito non aveva dato precisi ordini in merito.

    Dunque, scoccava l’ora anche per il tempio. Restava da mettere a ferro e fuoco il cuore più sacro dei Giudei. Quel cuore era un vero tesoro per loro, custodito da tempo immemorabile, una fortuna dal significato non soltanto religioso e simbolico, ma spudoratamente materiale: oro, gemme, ricchezze d’ogni sorta si nascondevano nei recessi più nascosti di quel luogo sacro. Un bottino inebriante per l’Imperatore e il suo valoroso figlio.

    Distruzione del tempio, sì! Però non doveva succedere prima che la sua missione fosse compiuta.

    Gran parte del tesoro era già stato trafugato anni addietro, durante la prima profanazione del tempio e proprio quella mossa, studiata a tavolino, aveva acceso la miccia della rivolta. A Roma lo sapevano bene che per sconfiggere un popolo di rivoltosi bisognava provocare una sommossa da soffocare nel sangue… Per scatenare una rivolta ci voleva un’esca adatta, una forte dissacrazione. Quale effetto avrebbe provocato trafugare gli arredi preziosi del Sancta Sanctorum con spavalderia e cinismo?

    I Romani l’avevano fatto beffandosi di ogni sacralità, profanando la linfa dell’animo ebraico!

    Galenus sapeva, come del resto tutta Roma, a quali incredibili livelli giungesse l’avidità dell’Imperatore: era inesauribile, fino a perdersi in un miraggio.

    Forse non si trattava soltanto di avidità, ma anche di curiosità, di sete di conoscenza, di gusto della scoperta.

    Secondo un’antica leggenda c’era ancora molto da portare via da Gerusalemme e Vespasiano lo voleva per sé.

    La mitica tomba di Davide… Se ne parlava da tempo. Lì doveva essere custodito il vero tesoro. Cento libbre d’oro e chissà quanti altri preziosi in gemme, monete e monili.

    Si mormorava che quella tomba giacesse nelle viscere della terra in prossimità del tempio e che vi si potesse giungere attraverso dei sotterranei segreti costruiti dagli Essaíoi, gli strani cenobiti capeggiati da quel Yèshuè, il povero esaltato, il sovversivo che molti, ancor più fanatici di lui, proclamavano Re dei Giudei. Sembrava che costoro praticassero dei riti particolari in quella tomba e che Yèshuè fosse ritenuto figlio di Davide e dunque suo legittimo erede. Comunque, per quel regale erede era finita davvero male, sotto la sferza dei Romani e gli sputi dei Giudei, fino alla morte sul palo.

    Il tesoro doveva essere ancora lì.

    Galenus aveva ricevuto ordini precisi direttamente dall’Imperatore Vespasiano, un privilegio impensabile anche per un primipilus⁵ e gli ordini erano che doveva radunare gli uomini più fidati, per organizzare e guidare un’ispezione ai sotterranei del tempio. Così egli pensò immediatamente al contubernium⁶ sotto il comando di Albinus, il decano più abile e fedele al comando degli uomini più abili, forti e fedeli che lui conoscesse.

    Albinus non aveva accolto quegli ordini con troppo entusiasmo. Durante la campagna in quella terra rovente aveva sofferto a lungo la ferocia del sole sulla sua pelle bianca. Folti capelli biondo platino ne tradivano l’origine nordica. Tuttavia, per quell’operazione Galenus si fidava solo di lui. Vespasiano era stato chiaro: porta con te solo uomini fidati e nessun’altro entri nella sala del tesoro e quelli che caricheranno i carri giureranno per la vita di non rivelare nulla.

    Quella era una catena della fiducia che non poteva essere spezzata. Galenus sapeva bene quali erano le responsabilità di un primipilus che deve agire nel corso di una guerra al cospetto del comandante in capo. Costui era Tito, proprio il figlio dell’Imperatore.

    Non doveva, non poteva fallire, ma la confusione era tanta e sapeva che ben presto qualcuno avrebbe appiccato il fuoco per bruciare tutta la città e il suo tempio.

    Il clamore era assordante. Non c’era tempo da perdere. I legionari, ormai sguinzagliati senza più governo, si abbandonavano a razzie, saccheggi, stupri e nefandezze d’ogni genere, come dei barbari incivili. Quasi tutti passavano da un estremo all’altro: dopo la ferrea disciplina, ora gli eccessi. Lui stesso aveva lasciato i suoi soldati a bivaccare senza ritegno alcuno.

    Lui, però, aveva un compito speciale.

    Niente vino, per ora, e niente donne.


    ² Gerusalemme, Sabato, 14 Luglio 70 d. C., ore 12.00.

    ³ In latino: La serpe si cela nell’erba!, Virgilio, Egloghe, III, 93.

    ⁴ In latino: Risparmiare chi si arrende e sterminare i superbi. Virgilio, Eneide, VI, v. 853.

    ⁵ Primipilus (Primus Pilus): ufficiale al comando della prima coorte, ovvero il primo fra tutti i centurioni a capo delle varie centurie.

    ⁶Contubernium: unità militare minima nella struttura dell’esercito romano, composto da dieci uomini, che alloggiavano nella stessa tenda, al comando di un decano subalterno del centurione.

    Capitolo 3

    Hierosolyma,

    Saturni dies - Pridie Idus Iulias DCCCXXIII ab Urbe condita, hora sexta.

    Adesso Galenus sapeva che era giunto il momento cruciale della sua missione.

    Oltre il torrente Kidron, una rozza, ma imponente barricata di pietre, terra, rottami di carri ammucchiati, aguzzi pali di legno e cadaveri abbandonati difendeva inutilmente il portico di Salomone presso il muro orientale del tempio. Lì si era concentrata la più tenace resistenza dei Giudei. Sapevano che lo sfondamento della porta orientale avrebbe abbreviato l’accesso al Qodesh ha-Qodashim, il cuore della suprema divinità. Quel lato della città, del tutto allo scoperto, salvo l’insignificante barriera di un fiumiciattolo, era il più aggredibile e dunque maggiormente difeso.

    Intanto, i soldati delle truppe provenienti da est, massacrati i difensori senza indugio alcuno, avevano aggirato le barricate, procedendo lungo le mura del tempio. Così si erano ricongiunti con le schiere che avanzavano dal lato opposto per invadere la città ormai sfiancata dopo il lungo assedio. Quel piano era opera di Tito e per suo ordine la porta orientale era stata totalmente ignorata dai Romani. Per questo motivo le residue difese dei Giudei, impegnate in un ultimo terribile sforzo, si erano concentrate tutte sul lato occidentale.

    Galenus stava battendo una zona praticamente deserta. Restò per qualche attimo incantato, esitante.

    Sarà almeno cinquanta iugeri.

    Non era la prima volta che vedeva così da vicino il tempio, ma quell’imponente costruzione progettata con caparbia fermezza da Erode il Grande, mai finiva di stupirlo. Come poteva stupirsi chi veniva dalla Roma della Domus Aurea, dalla giovane e nuova Roma faraonica costruita da Nerone dopo l’incendio?

    Incendio… Bisogna sbrigarsi prima che anche qui vada tutto a fuoco.

    Da quel lato e a ridosso del muro, non era possibile scorgere neppure l’estremità più alta della Torre Antonia, la vecchia Fortezza che si trovava dall’altra parte, ma era molto probabile che fosse sul punto di capitolare. Le forze combattenti dovevano essere tutte concentrate lì, il punto vitale della città. Dunque, l’ingresso nel tempio non avrebbe dovuto riservare sorprese. In ogni caso sapeva di avere con sé uomini forti e addestrati al pari di gladiatori.

    Si tranquillizzò.

    Voltò lentamente il capo ed osservò con ammirazione la sommità del Pinnaculum che spuntava spavaldo dall’angolo di sud-est delle mura, il segno inconfondibile che quello doveva essere il percorso. Certamente, entrare nel tempio a sud, dall’ingresso principale del portico Regio, sarebbe stata una tattica migliore. Esso, ormai sguarnito e abbandonato a se stesso, era una facile via d’accesso, priva di rischi. E, lì, neppure avrebbe scoperto il fianco, perché, il lato occidentale dove si estendeva la città, era ormai sotto il totale controllo delle truppe. Quando il nemico è ormai sbaragliato, l’arte della guerra e le sue finezze teoriche valgono a poco. A quel punto della situazione la scelta tattica del varco non faceva molta differenza.

    Eppure per Galenus valeva un’altra tattica ben più sottile: la segretezza e la rapidità d’azione. Ciò significava agire velocemente e il più lontano possibile da occhi indiscreti e soprattutto prima che il grosso delle truppe, impegnato nei saccheggi, si rendesse conto di ciò che stava succedendo all’interno del tempio. Soprattutto prima che qualcuno appiccasse il fuoco.

    Galenus attraversò la breccia nella barricata mentre la scorta lo seguiva in silenzio.

    Il drappello penetrò in quella zona ormai sguarnita e, dopo una breve salita, si trovò dinnanzi quella porta maestosa. Essa dava l’idea di una robustezza sovrumana, forse capace di resistere ai colpi dell’ariete più ostinato. Quello che i soldati portavano con sé era abbastanza collaudato, malgrado le piccole dimensioni.

    Galenus restò dubbioso per un attimo, ma poi scrollò il capo. Quelle non erano certo le Porte Scee costruite dal dio Apollo in persona! Ora bastava dare un ordine e Albinus avrebbe provveduto all’abbattimento.

    Nel gridare quell’ordine la voce gli si strozzò in gola.

    Non capì.

    Poi un’idea vagabonda gli balenò nella mente. Proprio il giorno prima, a Roma, cadevano i Ludi Apollinares ed era stato festeggiato l’Anniversario del tempio del dio Apollo. Strana coincidenza: un tempio glorificato a Roma, un tempio distrutto a Gerusalemme. Una guerra fra dèi per il dominio…

    Il filo dei suoi pensieri fu interrotto dal primo colpo assordante.

    Alcuni cardini avevano appena scricchiolato.

    «Questo fracasso ci tradisce», osservò rivolgendosi ad Albinus.

    L’altro tese l’orecchio e batté una mano sulla spalla dell’amico.

    «Non senti il clamore che rimbomba per la valle? Il tumulto che sale dal centro della città…. Chi vuoi che faccia caso a noi, a un colpo d’ariete?».

    «Meglio non rischiare. Ravvolgi le corna negli stracci».

    Albinus impartì gli ordini al suo secondo.

    Dopo l’abbattimento della porta, i soldati sbirciarono all’interno, ma non videro nessuno.

    Ad un cenno del loro comandante si impegnarono nello sforzo di aprire una pista abbastanza scorrevole per il carro destinato a trasportare il prezioso carico.

    Quando il recinto del Sacro Atrio gli si parò davanti, Galenus, mosse subito verso la Porta Speciosa. I suoi uomini lo seguirono cauti a corta distanza. Quella porta sfociava in un cortile al quale potevano accedere soltanto i cosiddetti circoncisi, e, fino ad un certo punto, le donne. Da lì si poteva passare nella sala dell’altare ed infine nel Qodesh ha-Qodashim, il cosiddetto Sancta Sanctorum, il Santo dei Santi.

    Sulle labbra di Galenus si dipinse un sorriso amaro. Lui ignorava la lingua aramit dei Giudei, ma sapeva benissimo che quella frase tradotta nella sua lingua significava luogo inviolabile, anzi, inviolabilissimo. Lì potevano entrare soltanto i sacerdoti incaricati dei sacri servizi e del culto al loro dio. Quella profanazione lo agitava un po’, ma si sforzò di non darlo a vedere e si rivolse con decisione ad Albinus per autorizzarlo a procedere. Gli arredi sacri attendevano soltanto di essere presi e caricati sul carro, mentre lui, nel frattempo, doveva occuparsi d’altro.

    «Per gli dèi dell’Olimpo!», esclamò Albinus appena entrato nell’atrio delle donne.

    L’imprecazione richiamò l’attenzione di Galenus che tornò sui suoi passi e si stupì.

    Sei anziani, usciti dalla stanza del vestibolo, si erano schierati uno di fianco all’altro tra i soldati e la porta dell’altare. Non brandivano armi di sorta, ma indossavano vesti e paramenti sacri mentre la loro espressione austera era mista di odio e sfida.

    Galenus e Albinus si scambiarono alcune occhiate prima di focalizzare la situazione, ma quell’atteggiamento caparbio dei Giudei era ben noto.

    Galenus mascherò il forte imbarazzo che gli paralizzava la volontà con il gesto di insofferenza di chi ha molta fretta. Bastava che dicesse caedantur⁸, come sempre aveva fatto in circostanze simili. Non capiva questi indugi e stentava a riconoscere se stesso.

    «Fai tu!», intimò ad Albinus che aspettava un ordine e si affrettò fuori dell’atrio.

    «Nolite nos impedire! Statim abite!»⁹, gridò minaccioso, ma aveva afferrato la disponibilità alla clemenza da parte del suo comandante.

    «Minime quidem! Moilè! Moilè! Moilè!»¹⁰, fu la risposta corale.

    «Senes deliri! Ecce sacrilegium admittendum… Caedantur!»¹¹, urlò, allora, Albinus che capiva qualcosa di aramit e i soldati si mossero rapidi.

    Sancta Sanctorum…Tutta una parvenza. Galenus si allontanò di fretta per non udire i gemiti di morte di quei vecchi pazzi suicidi. Sapeva benissimo che quanto stava cercando non era lì e il problema era capire da che parte cominciare.

    Il tempo stringeva.

    Si lasciò guidare da una strana sensazione che faceva aumentare via via i battiti del suo cuore. Avvertì dentro di sé una forza che lo conduceva fuori del recinto sacro, verso l’atrio dei gentili. Tutto, lì, era deserto. Pareva un’assurdità, ma non permise che la ragione si opponesse all’istinto. Percorse a passo svelto il lungo tratto che lo separava dalla balaustra di pietra che segnava il limite oltre il quale i pagani e i cosiddetti incirconcisi non potevano avanzare.

    Scavalcò il recinto e si soffermò a leggere alcune iscrizioni:

    Lo straniero che oltrepassa questo limite sarà punito con la morte.

    Rise.

    Lui, quel limite mortale lo stava oltrepassando al contrario!

    Raggiunse il portico Regio e poi si diresse spedito verso la base del Pinnaculum.

    I muri, fatti di grosse e lisce pietre ben squadrate, sembravano privi di segni particolari.

    Gironzolò avanti e indietro e frugò dappertutto con occhiate rapide, ma senza successo… Poi chinò il capo quasi vinto dallo sconforto.

    Fu allora che notò sul pavimento alcune piastre di colore leggermente diverso che, dal centro del portico, si snodavano a formare un curioso arabesco. Bisognava aguzzare bene la vista per poterlo distinguere, ma quello era certamente un percorso.

    Lo seguì passo passo e si ritrovò quasi al punto di partenza, a ridosso di uno spigolo della base del Pinnaculum che dava sul portico di Salomone.

    Bella beffa! Storse il naso. Si sentì cadere le braccia. Non poteva certo ispezionare palmo a palmo tutto quel tempio immenso. Tornare da Vespasiano a mani vuote? Mai! Meglio il suicidio. In quel momento capì perché centinaia di giudei, al momento della resa di Yodfat, avevano preferito uccidersi a vicenda piuttosto che cedere al nemico, come quei vecchi sacerdoti.

    Non sapeva che fare. Eppure la logica e l’istinto lo guidavano lì. Era quello il punto notevole del tempio e persino l’arabesco che aveva scoperto sul pavimento conduceva da quella parte. Una semplice coincidenza?

    Mentre rifletteva notò un altro particolare a prima vista irrilevante. Una piccola pietra rettangolare alla base del Pinnaculum era coperta da un’incrostazione che sembrava dipendere da infiltrazioni d’acqua. Così appariva screziata e ruvida, ed era l’unica.

    Galenus estrasse il gladio e con la punta si mise a scrostare la piastra. Si sgretolarono diverse scaglie di materiale madreperlaceo e ben presto la superficie fu del tutto ripulita.

    Vista da vicino la pietra pareva simile a tutte le altre. Avrebbe dovuto lavarla, ma non aveva acqua a disposizione.

    Galenus pensò che era il momento di agire. Già da un pezzo avvertiva un certo peso alla vescica, dunque niente di meglio che urinare proprio su quella piastra. Il flusso del liquido caldo la fece brillare. Ora bisognava asciugarla per levar via ogni residuo di polvere, così il centurione si chinò e si diede a sfregare energicamente con un lembo del mantello.

    Al contatto col liquido caldo il sangue appena rappreso che già impregnava il tessuto si sciolse parzialmente e formò una patina rossastra sulla pietra.

    Galenus provò disgusto e sorpresa. Rimase sbigottito per qualche istante, poi cercò un altro lembo asciutto del mantello, deciso a finire l’operazione.

    Passò delicatamente il panno sulla superficie ancora umida del masso e subito apparve l’incredibile sorpresa. Polvere, sangue e urina avevano formato un impasto roseo che, nell’essere rimosso, era penetrato in una serie di sottili solchi altrimenti invisibili.

    Il centurione attese che il venticello caldo di quell’ora infernale asciugasse la pietra, facendo seccare del tutto la piccola colata. Si abbandonò a qualche respiro ristoratore e infine si decise ad un’ultima spolverata per vedere risaltare il disegno che si era formato.

    Erano tre simboli posti verticalmente uno sull’altro e rappresentavano qualcosa che lui credeva di conoscere… Ciò grazie alla cugina Lucilla che da un po’ di tempo lo stava assillando con le storie di quella setta che lei frequentava segretamente. Alla base c’era una scritta composta da cinque caratteri di una lingua che lui non conosceva. Poteva trattarsi di aramit...

    Subito sopra la scritta riconobbe il simbolo del pesce, stilizzato in forma di rombo, poi, salendo, il sigillo di Salomone ed infine, all’apice, la sacra Menorah. Né lui né altri a Roma avevano ancora capito le funzioni e il senso di quel misterioso candelabro.

    Alla meglio, con la punta del gladio, cercò di scalzare la piastra che, ad un certo punto, si mosse. Galenus volle insistere, ma con cura per non rovinare la spada. Provò a scalzare tutt’intorno. Il masso cominciò a tentennare come un dente malato e così, combinando le leve di spada e pugnale, riuscì finalmente a rimuoverlo.

    Sotto, quasi mimetizzato nella sabbia, scorse un anello di ferro incastrato nel terreno. Era una specie di maniglia. Lavorando con pugnale e spada lo fece ruotare sul suo perno in modo da poterlo afferrare e tirarlo con una mano.

    L’anello non oppose molta resistenza. Ne seguì subito uno scatto e un rumore sordo.

    Una trappola! Galenus percepì che dall’alto un masso gli stava piombando sulla testa.

    Non c’era il tempo di scansarsi.


    Iugero: circa 2.500 metri quadrati.

    ⁸ In latino: Siano passati a fil di spada.

    ⁹ In latino: Non ci ostacolate! Andatevene immediatamente!.

    ¹⁰ In latino: Minime quidem!, Niente affatto!. In ebraico: Moilè! Moilè! Moilè!, Sacrilegio! Sacrilegio! Sacrilegio!".

    ¹¹ In latino: Vecchi pazzi! Ecco il sacrilegio da commettere… Siano passati a fil di spada!

    Capitolo 4

    Roma,

    lunedì 23 maggio 2011, ore 11.00

    Il sovrintendente Antonio Caputello aveva appena parcheggiato in Viale Trastevere, quasi sotto casa. Una vera fortuna. Già pregustava qualche ora di sonno nel suo beato letto, ma il cellulare scatenò le note assordanti di 'A storia 'e nisciuno. Spento il motore dell’Audi A6, si affrettò a rispondere. Il suo volto si increspò in una smorfia. Guidare era per lui il miglior trastullo, ma questa volta risentiva delle troppe ore di viaggio accumulate durante quel week-end di guerra.

    «Brutte notizie?», gli domandò il commissario Sandro Varcàro con voce da sonnambulo, mentre si stiracchiava sul sedile di fianco.

    «Commissa’, quelli mi vogliono subito alla sezione e io casco dal sonno!», spiegò l’altro che, quando si innervosiva, accentuava la cadenza napoletana.

    «Ma non avevi il turno di pomeriggio?».

    «Appunto, Commissa’…».

    «Beh, questo non cambia i nostri piani, no?», lo consolò il commissario. «Anzi, meglio… Così potrai raccattare più novità da riferirmi. Dai, fatti in là, scendi che passo al posto di guida».

    «E io in ufficio come ci vado?».

    «In taxi, no?».

    «E ridagli col taxi!», esclamò Caputello ripensando alle scorribande dei giorni precedenti fra Roma e Monterotondo. San Gennaro famm’a grazzia! Non gli sembrava neanche più di essere un poliziotto, ma un turista o peggio un truffatore in fuga. Ed era meglio non pigiare su quel tasto. Le violazioni della legge, in certe impensabili circostanze, erano state piuttosto pesanti per due impeccabili tutori dell’ordine come lui e il commissario. Sciocchezze! Al fianco del commissario Varcàro, il suo idolo, sarebbe andato persino all’inferno.

    Ravvolto in pensieri contrastanti, il sovrintendente scese e salutò i passeggeri ancora accoccolati nei sedili posteriori, i quali risposero amabilmente, ma debolmente. Helena Moroni e Fredrik Hildenberg fino a quel momento avevano sonnecchiato. Il più sveglio di tutti era l’anziano dai folti capelli grigi. Costui giurava di essere il professor Arnoldo Teofilo Vian e per tutto il viaggio aveva parlato di cospirazioni e misteri.

    Quando avevano incontrato il sedicente Vian in quel lugubre palazzo nell’isola veneziana di San Giorgio, costui aveva dimostrato di possedere una vasta e profonda cultura: storia, letteratura, filosofia, esoterismo. Conosceva perfettamente l’inglese, il latino e la Qabalah ebraica. Certamente doveva essere un professore, ma anche un burlone che amava prendersi gioco della gente. Non si sarebbero mai aspettati di ritrovarlo lì, in quella macchina, assieme a Caputello.

    Per tutto il viaggio i due avevano cercato di scalzarlo per fargli confessare la vera identità, ma lui aveva sempre tergiversato, portando il discorso altrove, di nuovo sulle sue incredibili teorie del complotto mondiale. Un po’ l’aria di pazzo l’aveva ed era impossibile capire se fidarsi di lui. Tuttavia il commissario si divertiva a spalleggiarlo: aveva un naturale senso dell’umorismo che funzionava egregiamente nelle situazioni più drammatiche.

    Helena e Fredrik avevano deciso di soprassedere e lasciare che ormai gli eventi scivolassero su un destino che sembrava davvero segnato. Per quanto giovani e robusti, anche loro avevano messo a dura prova le batterie. Da una settimana tonda la loro vita si era trasformata in un affannoso scappa e fuggi, corri e rincorri, senza governo di regole e possibilità di requie. Avevano rischiato di soccombere sotto una scarica di pallottole, di marcire nelle celle sotterranee di Villa Rosenberg, quella meraviglia cinquecentesca nei dintorni di Linz e di finire annegati negli scoli del fiume Traun che ne lambiva l’immenso parco.

    Sembrava impossibile che fossero successe tante cose in così poco tempo. Da quando i due si erano incontrati per caso alla stazione di Vienna, la loro vita era radicalmente cambiata. Austria, Germania, Polonia e adesso Italia: dovunque braccati da una manica di pazzi criminali, forse sicari di una setta satanica ed infine ricercati dalla polizia per ciò che avevano combinato nelle loro scorribande in mezza Europa.

    E dalla polizia italiana? Lo stesso commissario Varcàro li aveva seguiti di nascosto in lungo e in largo perché all’inizio li aveva sospettati di omicidio, ma adesso conosceva la verità e aveva in mano la prova della loro innocenza. Varcàro sapeva bene che i due studiosi si erano trovati coinvolti loro malgrado in qualcosa di grosso. Gli avevano riferito che alla fonte di tutto c’era lo zampino di una fantomatica Confraternita e quella storia era costata cara anche a lui. Era stato sollevato quasi subito dalle indagini su gli omicidi al Policlinico Gemelli: una pacchia per andarsene in vacanza. Però, quando sentiva puzza di bruciato e veniva estromesso con ordini dall’alto senza alcun motivo plausibile, allora si incaponiva e proseguiva dritto a costo di finire nel peggiore dei guai.

    Il sovrintendente Antonio Caputello aveva affiancato il commissario in tutto e per tutto ed era diventato la sua primaria fonte d’informazione. Non volava una mosca alla sezione omicidi o in altri uffici della Polizia di Stato senza che lui lo sapesse a tempo record. Caputello era un piccolo mago del computer, in grado di intrufolarsi dove voleva senza essere scoperto, al pari di un hacker dalla consumata esperienza.

    Varcàro era sempre stato scettico riguardo a complotti e cospirazioni, ma adesso aveva toccato con mano una patata davvero bollente. Qualcuno agiva da dietro le quinte e questo gioco non si esauriva nei fatti dell’attualità, ma sembrava affondare da secoli le sue radici nella storia. C’era di mezzo il sangue che si tramandava nel tempo e apparteneva a personaggi dalle particolari caratteristiche psicofisiche.

    Che si trattasse di fanatici, di esaltati alla ricerca di chissà quale potere occulto? La stranezza però stava nel fatto che questa fantomatica Confraternita, al pari di un’enorme piovra, sembrava affondare i suoi innumerevoli tentacoli nelle trame delle istituzioni.

    Il costante ripetersi soprattutto del numero 13 e poi del 15, del 6, del 666 e del numero aureo, seguiva una logica rigorosa. Inoltre, le coincidenze geografiche, legate al numero 36 che formavano geometrie del tutto particolari sulle cartine, unendo fra di loro città speciali, induceva ancora di più a pensare che tutto ciò non dipendesse dal caso.

    Da bravo ingegnere, Fredrik era partito con una certa dose di scetticismo, ma poi tutte quelle coincidenze, che mandavano a farsi benedire ogni statistica, gli avevano suscitato forti perplessità. Lui aveva elaborato una teoria su come era fatto il mondo e come dovesse funzionare. In pratica non credeva al caso, ma era convinto che tutto accadesse grazie ad un algoritmo matematico. La cosa interessante era la convinzione di poter leggere nel libro degli eventi a prescindere dal tempo e dunque di poter prevedere persino l’uscita dei numeri della lotteria nazionale.

    Ora, però, stava vivendo un’avventura che sembrava confermare la sua bislacca teoria. Insomma, era un caso che lui, proprio in quei giorni, dovesse partire dall’Australia per partecipare ad un importante congresso a Vienna e quindi per caso incontrare Helena?

    Nel salutare il sovrintendente Caputello, Fredrik mosse d’istinto il braccio destro e si accorse che la ferita, subita poche ore prima, gli doleva.

    Il dolore fisico scomparve sopraffatto da un altro dolore che provava lancinante nell’anima. Ancora non riusciva a credere che a sparargli fosse stato Peter, Peter Morris, il suo caro amico e collega da tanti anni. Come poteva pensare che l’incappucciato, entrato alle loro spalle nella chiesetta per ucciderli fosse proprio lui? Il buon vecchio Peter si era venduto alla cosiddetta Confraternita per trafugargli il mini DVD contenente i brevetti del Centre for Advanced Computer Technology e il metodo per vincere alle lotterie nazionali.

    Fredrik si toccava la ferita d’arma da fuoco riportata al braccio… Una sciocchezza, ma ora Peter stava lottando tra la vita e la morte in qualche ospedale nei pressi di quel paesino toscano della Versilia.

    Guardò Helena seduta al suo fianco mentre stringeva a sé il cofanetto di metallo ritrovato sotto l’altare della chiesetta di Camaiore. Da sessantasei anni esatti esso custodiva l’ampollina con il sangue del tredicesimo illuminato della dinastia.

    Lei stava fissando vagamente Caputello che si allontanava trascinando passi svogliati.

    «Come va?», le domandò affettuosamente.

    «Da schifo?», rispose lei, guardandolo appena con occhi lucidi e stanchi. Il momento euforico delle grandi scoperte e quello schiacciante della verità dolorosa si erano confusi nella sua mente e nel suo cuore.

    «Ti capisco. Siamo sulla stessa barca, stesse ferite. Poi ti devo la vita», mormorò Fredrik, toccandosi delicatamente la ferita.

    «La dobbiamo entrambi al commissario Varcàro», ribadì lei. «Ma il punto è un altro… Ho un magone insopportabile per quella faccenda. Chi l’avrebbe mai detto? Anche nonno Albert stenterà a crederci».

    «Davvero un duro colpo. Io Peter e tu Venante. Come potevi pensare che un uomo come lui, l’uomo che stimavi come un padre, il luminare dell’Università fiorentina che ti cullava come la migliore assistente…».

    Fredrik si interruppe quando Helena si coprì gli occhi con le mani tentennando il capo. «Mi sembra ancora di sentire la sua voce chioccia dirmi: Sveglia, dottoressa! Sei l’unica in grado di farlo. Questo è un compito per te, Helena. Te ne vai in Austria a recuperare l’indice di Raffaello!».

    «Beh, tu pensavi che scherzasse, no? Che lui non potesse credere sul serio a quella leggenda e…».

    «Sì, e poi invece era tutto vero!», lo interruppe lei.

    «Ma tu come potevi immaginare che Venante ti avrebbe gettata in quel ginepraio? Impossibile pensare che proprio lui fosse un venerabile di quella dannata Confraternita! L’uomo che tu credevi dolce e paterno era un vecchio spietato e malvagio che ti avrebbe lasciato morire di fame e di sete in una cella».

    Il rombo del motore, esagerato ad arte pestando sull’acceleratore, li riscosse dal loro dialogo.

    «Forza, ragazzi!», esclamò il commissario, mentre usciva cauto dal parcheggio. «Avete dimenticato che abbiamo qualcosa da fare?».

    Fredrik non capì esattamente la frase, ma ne percepì il tono ed Helena evitò di tradurre in inglese.

    A quelle parole di Varcàro, il sedicente professor Arnoldo Teofilo Vian si adagiò sul sedile e rise sotto i baffi. «Beh, che ne direste, prima, di un buon cappuccino?».

    Capitolo 5

    Hierosolyma,

    Saturni dies - Pridie Idus Iulias DCCCXXIII ab Urbe condita, hora septima¹².

    Una frazione di secondo.

    Il saggio Seneca aveva detto che il destino guida coloro che si accordano con esso, ma trascina via chi vi si oppone. Così Nerone aveva suggerito al suo maestro di suicidarsi e lui l’aveva fatto con virile serenità.

    Anche Galenus era disposto ad affrontare la morte. Forse meritava un premio per questo? Oppure gli dèi avevano già tracciato per lui una strada precisa? Come può servire un uomo morto ai disegni degli dèi?

    Nella mente del centurione il quadro del destino aveva galoppato alla velocità del lampo.

    L’agire istintivo era stato più veloce del pensiero razionale. Con una mossa felina era rotolato da una parte, come spinto da una folata di vento improvviso. Ora, il tonfo e lo spostamento d’aria gli avevano sconvolto i timpani e la testa gli ronzava. Poi focalizzò che tra lui e il grande masso piombato dall’alto poteva passare a stento un foglio di papiro.

    Per un po’ restò rannicchiato lì, a terra, con la schiena appoggiata al muro del Pinnaculum, ma quando udì altri tonfi e rumori sordi subito si riscosse e avvertì che il suo corpo perdeva l’appoggio. Gattonò freneticamente in avanti per allontanarsi da lì, e allora ecco la sorpresa. Alcuni massi del muro stavano scivolando in basso per lasciare aperta una breccia a misura d’uomo. Un rotolio, un polverone e poi il silenzio.

    Galenus si mosse circospetto. Osservò quella breccia da lontano, poi si avvicinò pian piano, fino a penetrarvi per un mezzo passo. Da lì si entrava in una stretta galleria che conduceva verso il basso e spariva inghiottita dal buio.

    Quello era il portico di Salomone. I simboli di quella piastra erano chiari nella loro apparente oscurità. Tra gli altri cosiddetti misteri della setta, Lucilla gli aveva rivelato che il sigillo di Salomone era chiamato, in segreto, scudo di Davide. Quale miglior traccia, allora?

    Si guardò intorno, stupito di essere ancora vivo. Studiata bene la trappola!

    L’anello andava tirato a distanza con un lungo gancio. Solo chi doveva sapere poteva saperlo.

    La mano di Apollo mi ha strappato alla morte. Però era ieri la sua festa!

    Si diresse rapido al centro del tempio per avvisare Albinus. Non c’era tempo da perdere.

    «Nulla!», protestò Albinus, mentre i suoi soldati assistevano con occhi bassi al suo sfogo iroso. «Non c’era nulla in quel maledetto Sancta Sanctorum. Vuoto come un tamburo e quei vecchi idioti si sono fatti trucidare per nulla. Teste dure… Li chiama così anche il loro dio!».

    «Ci avrei scommesso», lo calmò Galenus. «Più facile che ai dadi!».

    «Ho la bile in gola».

    «Basta chiacchiere! Ora muoviamoci… Al Pinnaculum!».

    «Pinnaculum? Vuoi dire il baratro da dove voleva buttarsi giù il pazzo Re dei Giudei dopo aver vagato quaranta giorni nel deserto del lago di sale?»¹³.

    «Buttarsi giù?».

    «Sì! Dicono che minacciava di buttarsi giù se i capi dei sacerdoti si fossero rifiutati di ascoltarlo».

    «E se fossero tutte maldicenze?», chiese Galenus mentre affrettava il passo.

    Albinus rallentò e guardò bieco l’amico. «Non crederai che quel Yèshuè fosse davvero un re… L’hanno fatto fuori per quella bestemmia!», esclamò incerto fra il riso e lo stupore.

    Galenus nicchiò. «No, certo… Però era un tipo strano».

    «Strano? Appunto, un pazzo…».

    «Strano in un altro senso. Aveva barba e capelli rossi, gli occhi celesti ed era piuttosto alto. Non sembrava uno del posto».

    Albinus finalmente rise a tutta bocca. «Anch’io sono abbastanza alto, ho i capelli da candida pecorella, gli occhi trasparenti e la pelle chiara come il marmo… Però non mi spaccio per un re o per un figlio di Giove! Mi chiamo Albinus, appunto, e sono un cittadino romano come te che sei basso, scuro di pelle, con gli occhi di carbone e i capelli da pecora nera».

    Galenus lo squadrò e pensò a se stesso. In effetti loro due sembravano uno il rovescio dell’altro ed erano lì a combattere insieme.

    «Nel deserto fra Gerico e il lago di sale si nasconde un’antica setta di tipi strani», insistette Galenus. «La gente comune non sa dove siano e chi siano, ma vengono chiamati Essaíoi. Quel galileo la sapeva lunga. Secondo me i quaranta giorni li ha passati in mezzo a loro».

    «Beh? Un pazzo finito in una manica di pazzi. Cosa cambia?».

    Galenus indugiò. «Per esempio che... Forse non sai che Yèshuè aveva già predetto ciò che sta accadendo qui, proprio in questi giorni».

    «E tu ci credi?».

    «Ascolta, alcuni vecchi del posto giurano di averlo sentito dire con le loro orecchie: Non relinquetur hic lapis super lapidem, qui non destruetur. Orate ut non fiat sabbato fuga vestra…¹⁴ Insomma la conquista di Gerusalemme da parte dei gentili e la totale distruzione del tempio».

    Albinus ridacchiò. «Ah! Questa da chi l’hai saputa, da Lucilla?».

    Galenus stava per dire Vespasiano, ma si trattenne in tempo perché i suoi rapporti con l’Imperatore erano coperti da segretezza. Ora però avvertiva una certa confusione in testa. Per la prima volta gli era sorto spontaneo il sospetto che l’Imperatore avesse deciso di muovere guerra ai Giudei affinché la profezia si avverasse. Perché? No, non poteva essere vero. Che aveva a che fare Vespasiano con quel mashìach?

    «Sì, scommetto che c’è lo zampino di Lucilla. Quella, prima o poi, ti porta alla rovina. Dai! Circola voce che lui sia scappato e sul palo ci fosse un sosia».

    «Ecco il posto. Occorrono torce e bisogna che gli uomini stiano pronti ad agire al mio segnale», tagliò corto Galenus, indicandogli la breccia nel muro.

    «Ma che accidenti è successo qui?», chiese stupito Albinus di fronte a quello scenario.

    Galenus gli raccontò la sua disavventura, poi afferrò una torcia accesa e penetrò nella galleria.

    Albinus fece cenno di seguirlo con alcuni uomini, ma l’altro lo bloccò. «Vado da solo», asserì deciso. «Al mio ritorno vi dirò cosa fare», concluse.

    Albinus sussultò. Per gli dèi dell’Olimpo! Già si è salvato per un pelo. Questo non è coraggio, è pura follia! Dev’essere l’aria di questi luoghi infetti. Stentava a riconoscere il suo amico, ma non osava dirglielo.

    Neppure Galenus sapeva perché aveva voluto andare in avanscoperta, affrontando l’ignoto e mettendosi a pieno rischio tutto da solo. Aveva soltanto seguito un impulso, com’era sempre successo negli ultimi tempi e senza che neppure lui ne capisse il perché.

    Mentre percorreva la galleria contò scrupolosamente i passi e registrò che la discesa si faceva sempre meno ripida. La fiaccola ardeva allegra e si poteva respirare aria pulita. Era chiaro che quella galleria nascondeva condotti di aerazione.

    Osservò tutto con ammirazione. Bravo, l’architetto! Bravo… Da far invidia a quelli dell’Urbe, ai Greci e agli Etruschi! Bravo.

    Ogni pensiero gli si congelò quando si trovò di fronte ad una porta riccamente ornata. Contò che aveva percorso quasi cinque stadi¹⁵.

    Si bloccò a debita distanza. Non intendeva cadere in un’altra trappola.

    Il destino va seguito, ma non sfidato, mio buon Seneca…

    Si portò cautamente di lato per poi sondare col gladio vari punti delle ante e soprattutto la maniglia che appariva anche troppo invitante per la sua raffinata fattura. Senza oltrepassare lo stipite sondò anche il pavimento della soglia e alla fine, convinto di aver fatto tutto quanto poteva fare, si decise ad aprire.

    Torcendo la maniglia constatò, sorpreso, che la porta non era serrata da chiavistelli: si aprì subito, senza neppure un cigolìo. La stanza in cui entrò era ampia, linda… C’era aria fresca e profumata. Neppure una ragnatela o polvere stantia. Quel luogo doveva essere stato frequentato assiduamente, anche di recente. Come era possibile? Lui, per entrare, aveva dovuto far crollare un muro. Doveva esserci un altro ingresso, magari mimetizzato. Dove poteva condurre un passaggio del genere? Certamente a est, verso la sponda settentrionale del lago di sale…

    Accese le torce fissate alle pareti e lo spettacolo che si presentò ai suoi occhi lo lasciò senza fiato. Al centro della sala troneggiava una cripta monumentale di diorite nera maculata di verde. Le sue superfici dardeggiavano lampi spettrali alla guizzante luce delle torce.

    Il coperchio doveva essere pesantissimo e Galenus neppure si sognò di smuoverlo. Malgrado la naturale curiosità, non era il corpo di Davide il suo obiettivo, ma il tesoro. Così si guardò intorno alla ricerca di qualche forziere e ne vide subito tre sistemati in un angolo della sala.

    Ne aprì uno senza difficoltà e i suoi occhi furono abbagliati dalla luce sfolgorante di oro e gioielli. Il suo cuore pulsava forte. Missione compiuta! Ora Vespasiano poteva essere soddisfatto. Bastava consegnare a Tito tutto il carico e il gioco era fatto. Finalmente riposo, canti, balli, vino e donne! Al rientro a Roma ricompensa e gloria.

    Tutto il carico? Un fremito lo sconvolse.

    Quel lampo fugace nella mente significava che avrebbe potuto sottrarre dal mucchio alcune ricchezze per sé? Beh, chi se ne sarebbe accorto? Un po’ di roba nella sacca del cinturone e via!

    Si vergognò. Era sempre stato onesto, leale e ligio a principi e doveri. Perché ora quella strana tentazione? Perché rubare? Vespasiano lo avrebbe comunque premiato, forse con somme ancor più ricche di qualche gioiello giudeo.

    «Per gli dèi!», mormorò. La sua mano annaspava fra i monili come se agisse da sola. Che gli stava prendendo? Forse era soltanto curiosità, perché lui, Lucius Fufius Galenus veniva da Cales… Per questo si chiamava Galenus. Cales, città ricca nei pressi della montagne sannitiche sulla via latina, era certamente famosa per il vino, ma altrettanto per le ceramiche e l’arte orafa. E lui era un buon intenditore, perché il nonno era stato stimato orafo e gioielliere in quella città fino alla morte.

    Smise di contorcersi in quei pensieri e alla fine strinse fra le dita qualcosa di largo, levigato e sottile, come una specie di tavoletta cerata usata per la scrittura. La estrasse curioso dal mucchio e la guardò. Sicuramente era qualcosa di assai meno prezioso rispetto a tutto il resto.

    Aveva afferrato una tavoletta rettangolare d’oro, non troppo pesante, circondata da una cornicetta d’avorio. Ai quattro lati spiccavano, ben incastonate, altrettante pietre.

    Galenus riconobbe quattro pezzi di diamante su una faccia e altrettanti di onice nera sull’altra. Notò alcune iscrizioni incise sulla superficie d’oro. Erano strane, anche se assomigliavano molto alle lettere della lingua locale che lui ignorava. L’oggetto era carino, un bel monile, semplice, forse un portafortuna. Poteva tenerselo come ricordo.

    Stava pari pari nella palma di una mano. Non sottraeva nulla di così prezioso al grande imperatore.

    Senza indugiare, con un gesto deciso, infilò la tavoletta nella sacca del cinturone.

    Ignorava il perché.


    ¹² Gerusalemme, Sabato, 14 Luglio 70 d. C., ore 13.00.

    ¹³ Mar Morto, anticamente chiamato lago di sale.

    ¹⁴ In latino: Qui non sarà lasciata pietra su pietra che non sia diroccata. Pregate affinché la vostra fuga non avvenga di sabato. (Matteo, 24, 2 - 20).

    ¹⁵ Stadium: 185 metri lineari.

    Capitolo 6

    Roma,

    lunedì 23 maggio 2011, ore 11.00

    Sulla sponda destra del Tevere si stava formando un crocchio sempre più numeroso di curiosi. Poi una sorta di contagio: dalla parte opposta, sul Lungotevere degli Altoviti, alcuni gruppetti di persone si sforzavano di vedere cosa stesse succedendo di così interessante a Castel sant’Angelo. Alcuni, sfruttando lo zoom della fotocamera, informavano gli altri su particolari altrimenti invisibili.

    Una pantera della polizia, smorzate le sirene, parcheggiò veloce sul lato fiume di Lungotevere Vaticano, in prossimità del ponte Sant’Angelo.

    Uno degli agenti parlottò con un pensionato dall’aria spaurita e immediatamente lo seguì giù per la scalinata, fin sotto la seconda arcata del ponte, dove l’acqua lambiva un groviglio di sterpi e foglie fradice.

    Appena l’agente si rese conto della situazione, chiamò alla radio il collega della pattuglia e gli urlò poche parole. Tornato su, intimò ai curiosi di stare alla larga e poi si precipitò all’auto. Parlò di nuovo alla radio che gracchiava qualcosa di incomprensibile, infine tornò a fare del suo meglio per mantenere l’ordine nella piccola folla che si accalcava.

    Di lì a poco, altre sirene dal suono nervoso e assordante tormentarono l’aria.

    «Allora non è più roba nostra?», chiese l’agente seduto al posto di guida.

    «No, ora tocca ai colleghi della Giudiziaria», rispose l’altro, mentre, appoggiato sul cofano, esaminava i documenti dell’anziano che aveva chiamato il 113.

    «Lei dovrà restare a disposizione. Dovrà firmare una deposizione».

    «Stamani avrei da sbrigare delle faccende. Fare la spesa. Ho la moglie a casa che non sta bene», replicò l’altro mentre malediceva fra sé il momento in cui aveva usato il cellulare.

    «Lei ci ha chiamato, lei l’ha trovato, lei mi ha accompagnato sul posto. La sua testimonianza è fondamentale», sentenziò l’agente.

    «Arrivano i corpi speciali e la scientifica», avvertì l’altro agente.

    Dopo una serie di reciproci saluti, i due agenti della volante parlarono con i colleghi appena giunti, poi corsero a regolamentare il traffico, proteggendo quell’area dall’afflusso sempre maggiore di spettatori.

    «Via, via! Non siamo allo stadio… Go away, go away! Non c’è niente da vedere!», ripeté più volte uno degli agenti, mentre il collega gli dava manforte, sospingendo la folla più lontano possibile.

    Ben presto la zona fu delimitata dal classico nastro rosso e bianco e cominciò il concitato via vai dei responsabili delle varie operazioni.

    «Go away, go away!», urlò per l’ennesima volta l’agente di guardia proprio in faccia ad un uomo sulla quarantina, alto e robusto, con i capelli neri, lisci, ben pettinati all’indietro che si avvicinava ostinato. Con occhiali da sole Ray-Ban, completo grigio da mezza stagione con camicia bianca e cravatta a fiori dai colori accecanti, pareva un turista texano o un bancarellaro di Porta Portese.

    L’uomo restò rigido e impassibile per qualche secondo, poi sollevò gli occhiali da sole e fissò l’altro con sguardo torvo.

    «Complimenti per il suo inglese, agente. Si vede che segue i corsi di formazione con solerzia!», esclamò infine in tono studiato e collo torto.

    Mentre l’altro diventava paonazzo e già poneva istintivamente mano alle manette, lo bloccò con un gesto risoluto e mostrò il distintivo.

    L’agente sbalordì, maledicendo la propria incarnita impulsività. Dopo una rapida occhiata al collega della volante che lo fissava, salutò rispettosamente Carlo Corsaro della sezione omicidi.

    Quel

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