Indagine a due facce (eLit): eLit
Di Rebecca York
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Anteprima del libro
Indagine a due facce (eLit) - Rebecca York
1
Era da anni che Laurel Coleman dormiva all'erta, e fu proprio questo a salvarle la vita in quella calda notte di agosto.
Stava sonnecchiando nel letto, quando una dura voce maschile la fece sussultare. Si tirò a sedere, tese l'orecchio. Poi sentì la voce di Cindy, scossa dalla paura.
«No, Eric. No! Cosa fai?»
Eric?
Eric Fees, il marito di Cindy, era fuori per lavoro. Sarebbe dovuto tornare dopo tre giorni. Eppure era sua, la voce che Laurel sentiva in quel momento.
«Dov'è il bambino?» stava domandando alla moglie.
«In camera sua.»
«Ho controllato. Non c'è. Non sei nemmeno in grado di tenere d'occhio tuo figlio, stupida sgualdrina.»
Laurel spostò gli occhi sulla testolina bionda che sporgeva dalle coperte del suo letto. Teddy, il figlio di Cindy, aveva soltanto cinque anni. Quella notte si era svegliato spaventato da un incubo e si era rifugiato nella stanza di Laurel e lei, pur di tranquillizzarlo, gli aveva consentito di restare a dormire lì.
Eric, in tono adirato, alzò ancora di più la voce. «Tu menti. Voglio il bambino, e lo voglio subito.»
Il rumore di un violento schiaffo la fece rabbrividire. Poi Cindy urlò, con un grido acuto, disperato.
Teddy spalancò gli occhi. «Laurel?»
Lei gli fu subito accanto. «Teddy, tesoro, non dire una parola» lo mise in guardia premendogli una mano sulla bocca.
Eric, intanto, aveva incominciato a sbraitare ordini. Probabilmente si rivolgeva ai poco di buono che lo accompagnavano ovunque. «Trovate il bambino. E trovate anche la tata. Non voglio testimoni.»
«Eric, ti prego, mi stai facendo male. Si può sapere cosa succede? No, non farlo! Mio Dio, non puoi...» La frase fu interrotta dal suono secco di un altro schiaffo, poi di un secondo grido.
Pochi istanti più tardi, Laurel sentì un tonfo sordo in fondo alle scale, come se qualcosa di pesante fosse stato scaraventato al piano di sotto.
Un corpo.
Paralizzata dal terrore, si sforzò di immaginare la scena che si stava svolgendo oltre la porta chiusa della sua stanza da letto. Eric Fees era impazzito, aveva spinto la moglie giù per le scale. E adesso stava cercando lei e Teddy.
Bastò quel pensiero per spingerla ad agire in fretta. Non aveva scelta, doveva fuggire. Prendendo tra le braccia il bambino, si infilò un paio di jeans e le scarpe da ginnastica e si avvicinò alla finestra per aprirla.
«Vieni, Teddy, adesso giochiamo a nascondino» gli bisbigliò.
«È papà?» le sussurrò il piccolo di rimando. «È arrabbiato? Pensi che voglia picchiarmi di nuovo?»
«Non glielo permetterò» replicò Laurel. «Sta' tranquillo, Teddy. È tutto a posto. È tutto a posto» ripeté, più per tranquillizzare se stessa che per calmare il piccolo. Prese dal cassetto i soldi che stava risparmiando da tempo, se li infilò nella borsa, poi uscì dalla finestra insieme a Teddy.
La sua camera si affacciava sul porticato della villa che il milionario Eric Fees aveva costruito nella contea di Howard, nel Maryland. Dopo avere deposto Teddy sul tetto del porticato, Laurel scese accanto a lui, lo prese per mano e lo condusse verso l'acero, i cui rami arrivavano fino a loro.
«Sali sulle mie spalle» lo istruì, accovacciandosi davanti a lui. «E stringimi le braccia intorno al collo.»
«Ho paura, Laurel.»
«Lo so, tesoro. Ne ho anch'io, ma dobbiamo andarcene in fretta.» Cindy le aveva raccontato più volte delle dure punizioni che Eric infliggeva al figlio, punizioni che avevano finito per incutere nel bambino un profondo timore del padre. Ed era proprio quel timore che indusse Teddy a obbedirle e a stringerle forte le braccia intorno al collo.
Laurel si aggrappò al tronco dell'acero e lentamente incominciò la discesa. Quando furono in giardino, si precipitò verso l'auto che Cindy le lasciava usare, spalancò la portiera per far entrare il bambino, quindi balzò alla guida e mise in moto.
Un grido squarciò la notte. «È qui. Quella sgualdrina è qui.»
Laurel spinse l'acceleratore a tavoletta mentre una serie di esplosioni rimbombava alle sue spalle. Un proiettile scalfì il lunotto dell'auto.
Le stavano sparando addosso! Quei delinquenti volevano uccidere lei e Teddy!
Senza neppure preoccuparsi di guardarsi alle spalle, imboccò il viale lungo il quale sorgeva la villa di Fees e si allontanò come una saetta nella notte. Continuò a guidare come un'invasata per decine di chilometri e solo quando fu certa che nessuno li avesse seguiti si risolse a rallentare. Arrischiò un'occhiata al sedile posteriore. Teddy aveva le braccia strette intorno alle ginocchia, gli occhi chiusi. Lo chiamò per nome, ma lui non rispose. Laurel sperava con tutto il cuore che si fosse addormentato.
Non aveva mai conosciuto bene Eric Fees, ma non le era mai piaciuto molto. Le metteva paura, ecco perché aveva sempre fatto del suo meglio per non stargli tra i piedi. Non era stato sempre facile, tuttavia, visto che Cindy, l'unica amica di un tempo disposta ad aiutarla, le aveva offerto un lavoro come tata e l'aveva invitata a vivere in casa sua.
Laurel strinse le mani intorno al volante. Negli ultimi sei mesi, aveva fatto di tutto per evitare i guai, ma adesso c'era dentro fino al collo.
Cielo! Era stato giusto portare via Teddy? E se avesse male interpretato le grida di Cindy, le minacce di Eric, i suoni e i rumori che l'avevano spinta alla fuga? No, impossibile. I colpi di pistola che le avevano esploso contro gli scagnozzi di Eric non erano certo stati frutto della sua immaginazione. E questo non poteva che condurla a un'unica conclusione: Cindy era morta.
Cosa poteva fare, adesso? Chiedere aiuto alla polizia? No, impossibile. Le bastava ricordare ciò che le era accaduto quando in un'occasione precedente aveva cercato di spiegare la sua versione dei fatti a un agente di polizia per rabbrividire.
Non poteva rischiare di nuovo. Doveva sbrigarsela da sola.
E se voleva evitare che gli uomini di Eric la ritrovassero, doveva cambiare immediatamente la targa dell'auto. Non le piaceva l'idea di rubare, ma non aveva scelta.
Ormai stava guidando da quasi un'ora, era giunta in un quartiere modesto della città. Lungo la strada sorgeva una casupola dall'aria abbandonata. Nel giardinetto antistante c'era un'auto sfasciata. Laurel si fermò di colpo e si accinse a scendere dalla macchina.
«Laurel, dove vai?»
La voce spaventata di Teddy la fece arrestare. «Sta' tranquillo, devo occuparmi di una cosa.»
«Dov'è la mamma?»
Una morsa gelida le serrò il cuore. «A casa.»
«Allora come mai noi siamo qui?»
«Perché temevo che tuo padre volesse farti del male e ho deciso di portarti al sicuro.»
«Ma dopo torneremo a casa a prendere la mamma?»
Per un istante, lei non seppe che cosa rispondere. «Decideremo cosa fare quando sarà arrivato il momento» si risolse a mormorare alla fine. «E adesso sta' qui buono e aspettami. Devo soltanto prendere qualcosa dal portabagagli e poi avvicinarmi a quell'auto laggiù. Non avere paura, torno subito.»
Rassicurato, il bambino si rimise rannicchiato sul sedle posteriore mentre lei usciva. Le ci vollero soltanto pochi secondi per prendere un cacciavite dal cofano e poi avvicinarsi all'auto parcheggiata nel giardino abbandonato. Aveva già svitato i bulloni della targa, quando la voce di Teddy risuonò spaventata alle sue spalle.
«Laurel, attenta!»
Lei sollevò gli occhi appena in tempo per vedere un tipo smilzo andarle incontro. Sogghignava con aria minacciosa.
«Cosa credi di fare, ragazzina?»
Laurel si alzò, si girò verso di lui, si sforzò di trovare una spiegazione.
«Non è un po' tardi per andartene in giro da sola?» Baldanzoso, l'uomo le si avvicinò di un passo e tese una mano per afferrarle il braccio.
L'istinto di conservazione la spinse a colpirlo con il cacciavite. Sentì la lama affondare nella carne, udì il grido di dolore dell'uomo, poi si diede alla fuga verso la sua macchina, mise in moto e partì.
L'uomo la seguì correndo, prese a calci il paraurti, ma non riuscì a fermarla.
Laurel riprese a guidare senza una meta, guardando nello specchietto retrovisore a intervalli ravvicinati per assicurarsi che nessuno la seguisse. Fu soltanto dopo diversi minuti che si accorse di un suono nella macchina... i singhiozzi di un bambino.
«Oh, tesoro!»
Accertandosi che per strada non ci fosse nessuno, si fermò accanto al marciapiede, spense il motore e raggiunse Teddy sul sedile posteriore.
Fino a quel momento era stato l'istinto di sopravvivenza a darle la forza di andare avanti, ma adesso era giunta anche lei alla fine delle proprie riserve emotive. E mentre prendeva tra le braccia il bambino singhiozzante, sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime e non ebbe la forza di trattenerle.
Sam Lassiter emise un suono strozzato mentre cercava di svegliarsi. Invano. Era di nuovo prigioniero di un incubo. Sempre lo stesso.
Jan era alla guida dell'auto, gli aveva dato il cambio dopo dieci ore di viaggio. Ellen dormiva sul sedile posteriore. Poi, all'improvviso, una macchina sbucava dal nulla, superava la mezzeria e si dirigeva verso di loro.
Sam urlò un avvertimento. Jan! Jan!
Ma era già troppo tardi. Troppo tardi per sua moglie e sua figlia. La macchina si schiantò contro di loro, il rumore stridente di lamiera squarciò l'aria, riportandolo alla realtà. Alla consapevolezza.
Sam spalancò gli occhi, si rizzò a sedere sulla sedia a dondolo, si asciugò la fronte madida di sudore.
Un fruscio si insinuò in quel momento nel silenzio della stanza. I fogli che teneva in grembo, quelli che stava leggendo prima di addormentarsi, erano scivolati per terra.
Sam si chinò a raccoglierli. Riguardavano il caso Dawson e Somerville. I suoi amici Hannah Dawson e Lucas Somerville, che da tempo vivevano nascosti per sfuggire a Dallas Sedgwick, il signore della droga che dava loro la caccia con l'intenzione di eliminarli.
Sam aveva deciso di aiutarli. Quella sera si era seduto nella vecchia cameretta della figlia Ellen, che nel corso degli ultimi mesi aveva trasformato in studio, e aveva incominciato a rileggere alcuni documenti inerenti al caso. La stanchezza poi aveva avuto la meglio e adesso eccolo lì, mezzo intontito dal sonno, che doveva ancora prepararsi per accogliere un nuovo cliente.
Un'occhiata all'orologio lo fece sussultare. Aveva soltanto un quarto d'ora a disposizione prima che il cliente in questione lo raggiungesse a casa.
Gli ci sarebbe voluto un bel bicchiere di bourbon per tirarsi su, pensò. E subito dopo si maledisse per quell'idea. Dopo la morte della moglie e della figlia, aveva trovato sollievo nell'alcol, ma, quando si era reso conto del male che si stava facendo, aveva impegnato tutte le energie che gli rimanevano per uscire dal tunnel. Alla fine ce l'aveva fatta e non aveva nessuna intenzione di ricadere nella stessa trappola.
Senza perdere tempo, entrò in bagno per sciacquarsi il viso e ravviarsi i capelli. Non aveva il tempo per radersi, così decise di cambiarsi semplicemente la camicia.
In quel momento sentì squillare il campanello.
«Sam Lassiter?» gli chiese l'uomo fermo sotto il porticato. Statura media, corporatura normale, capelli neri che incominciavano appena a ingrigire alle tempie.
«Sì. Si accomodi.»
«Eric Fees.» I due si scambiarono una stretta di mano. «La ringrazio per avermi ricevuto in casa. Ci tengo a mantenere il riserbo.»
«Non c'è problema. Mi segua, la prego.» Mentre lo precedeva verso lo studio, Sam avvertì un'improvvisa sensazione di disagio. Quell'uomo aveva un'aria normale, eppure l'intensità dei suoi occhi azzurri lo faceva rabbrividire. «Di cosa vuole parlarmi?» domandò quando entrambi si furono seduti.
Fees prese fiato. «Della morte di mia moglie e della scomparsa di mio figlio.»
«Episodi accaduti di recente? Non ricordo di avere letto niente al riguardo sui giornali.»
«Risalgono a pochi giorni fa. La polizia ritiene che la morte di Cindy sia stata accidentale. Io non ne sono sicuro.»
«Perché?»
«Per via della fedina penale di Laurel Coleman, la tata che aveva assunto mia moglie.»
Quel commento suscitò l'attenzione di Sam. «E non ha fatto indagini sulle sue referenze prima di assumerla?»
«Cindy sapeva del suo passato. Avevano frequentato la scuola insieme. A proposito, il suo vero nome è Laurel Ames, ma lo ha cambiato dopo essere uscita di prigione.»
«Sa per quale motivo è stata in galera?»
«Rapimento» rispose amaro Fees. «Lei ha sempre sostenuto che fosse stato il fidanzato a coinvolgerla e mia moglie si fidava di lei. Adesso Cindy è morta e mio figlio è scomparso.»
«Ha parlato dei suoi sospetti alla polizia?»
Una smorfia distorse il viso dell'uomo. «Non posso dimostrare che sia Laurel la responsabile della morte di Cindy e la scomparsa di mio figlio è una faccenda piuttosto delicata. I miei suoceri non mi hanno mai potuto sopportare. Per questo voglio trovare il bambino prima che scoprano cosa gli è successo.»
«Vuole farmi credere che, nonostante la morte della figlia, non le abbiano chiesto di vedere il nipote?»
«Sono partiti per l'Alaska. Vogliono trascorrere quindici giorni nel più assoluto isolamento, è impossibile mettersi in contatto con loro. E questo mi dà ancora dieci giorni per trovare mio figlio.»
Sam rifletté in fretta. Eric Fees non gli ispirava fiducia. Il suo atteggiamento non era quello del marito e del padre in pena, quanto piuttosto quello dell'uomo d'affari che cerca di riportare in carreggiata un progetto andato a monte.
«Se dovessi accettare di lavorare per lei» commentò, «avrò bisogno di tutte le informazioni possibili che potrà darmi sulla tata, questa Laurel Coleman.»
«Ho già scritto un rapporto corredato da diverse fotografie.»
Efficiente, pensò Sam. «Mi serviranno informazioni anche su di lei, signor Fees.»
«Non ha che da chiedere.»
«Andava d'accordo con sua moglie?»
«Sì.»
«E non era infastidito dall'atteggiamento che i suoi genitori avevano nei suoi confronti?»
«È naturale, ma questo non ha niente a che vedere con la morte di Cindy.»
Aveva