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Fidati di me: Harmony Destiny
Fidati di me: Harmony Destiny
Fidati di me: Harmony Destiny
E-book150 pagine2 ore

Fidati di me: Harmony Destiny

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Info su questo ebook

Lei gli aveva affidato il suo cuore e lui glielo aveva spezzato. Adesso è costretta ad affidargli la vita.
Lilah Cantrell. Non avrebbe mai immaginato nulla di più terribile dell'essere rinchiusa in prigione. Fino a quando non ha posato lo sguardo sull'unico uomo che abbia mai amato. E l'unico che le ha spezzato il cuore.
Dominic Steele. Ha cercato in tutti i modi di mantenere la sua missione su un piano strettamente professionale. Ma Lilah e i ricordi che porta con sé ha risvegliato il suo istinto protettivo e una passione sopita troppo a lungo, che adesso rischia di travolgerlo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 ago 2019
ISBN9788830502444
Fidati di me: Harmony Destiny
Autore

Caroline Cross

E' letteralmente affascinata dalla possibilità di esplorare, con i suoi romanzi, l'inarrestabile potere che l'amore ha sulla vita delle persone.

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    Anteprima del libro

    Fidati di me - Caroline Cross

    Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:

    Trust Me

    Silhouette Desire

    © 2005 Jen M. Heaton

    Traduzione di Carlotta Picasso

    Questa edizione è pubblicata per accordo con

    Harlequin Books S.A.

    Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o

    persone della vita reale è puramente casuale.

    Harmony è un marchio registrato di proprietà

    HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.

    © 2007 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano

    eeBook ISBN 978-88-3050-244-4

    1

    La serratura della porta della cella cigolò nel silenzio di quel torrido pomeriggio.

    Agghiacciata, Lilah sollevò la testa di scatto, poi si andò a sedere nell’angolo più distante del pagliericcio che fungeva da letto e si appiattì contro la parete. La porta si spalancò, proiettando un triangolo di luce all’interno. Entrarono due guardie carcerarie che sostenevano un uomo dall’andatura claudicante, la testa che gli ciondolava in avanti e i piedi che strusciavano sul pavimento polveroso.

    Si avvicinarono a lei e Lilah notò le braccia abbronzate e muscolose del prigioniero che riempivano le maniche della maglia verde oliva. I capelli, neri come l’inchiostro, luccicavano nonostante la penombra e un rivolo di sangue gli colava dall’angolo destro della bocca.

    I carcerieri lo sollevarono a fatica e Lilah riuscì a intravederne il profilo.

    Incredibilmente quel volto le parve familiare.

    No, non poteva essere. Il cuore cominciò a batterle all’impazzata. Che cosa ci faceva l’amore della sua gioventù, il ragazzo che aveva sempre vinto il paragone con tutti gli altri uomini, che ancora le appariva in sogno, in quel posto dimenticato dei Caraibi, a San Timoteo, nella prigione privata di El Presidente?

    Doveva avere le allucinazioni. Aveva tentato di farsi coraggio, di essere forte, ma dopo tutti quei giorni di isolamento stava crollando e la cosa peggiore era che stava perdendo il senso della realtà.

    Tuttavia...

    Le guardie spinsero il nuovo arrivato nella cella adiacente alla sua. Una di loro gli sferrò un calcio tra le costole prima di richiudere la porta alle sue spalle con un colpo secco.

    I nervi tesi fino allo spasimo imponevano a Lilah di agire, ma quel mese di prigionia le aveva insegnato a essere cauta e a ragionare prima di fare qualsiasi mossa.

    Ignorò il battito impazzito del suo cuore e aspettò di udire la chiave girare nella serratura. Appena i passi delle guardie si furono allontanati, incapace di restare ferma un secondo di più, corse alla porta e infilò il viso tra le sbarre di ferro. Il cuore continuava a batterle nel petto con un rumore assordante e le parve di svenire, riconoscendo il mento forte e la mascella quadrata del nuovo prigioniero. Non c’erano dubbi: era proprio lui. Il passare degli anni lo aveva reso più robusto: le spalle erano più muscolose, le braccia più forti, e il suo viso, segnato da qualche piccola ruga intorno agli occhi, aveva acquistato un fascino ancora maggiore. Non poteva essere altri che Dominic Devlin Steele.

    Sconvolta, cercò di riprendersi. Che cosa ci faceva lì?Era una semplice coincidenza? Un incredibile scherzo del destino?

    Era difficile crederci. L’alternativa era che lui si fosse fatto imprigionare per uno scopo preciso e l’unica persona in grado di orchestrare una simile messa in scena poteva essere soltanto sua nonna. Tuttavia, non riusciva a capire come si fossero incrociate le strade di Abigail Anson Clarke Cantrell Trayburne Sommers e Dominic Steele.

    Ancora più incredibile era che lui si trovasse in quella situazione pericolosa a causa sua. Ma non aveva importanza. Dopo un mese di prigionia, solitudine e disperazione era meraviglioso trovarsi di fronte un volto familiare, di chiunque fosse.

    Persino quello di Dominic.

    Lo chiamò. «Dominic? Sono io. Lilah. Lilah Cantrell» sussurrò, allungando una mano oltre le sbarre e sfiorandogli una guancia.

    Avvertì il calore della sua pelle e la ruvidità della barba sotto le dita e, nonostante fossero passati dieci anni, quel contatto le provocò un brivido lungo la schiena.

    Peccato che fossero in due celle separate. «Non riesco a credere ai miei occhi. Sei tu, l’ultima persona al mondo che avrei immaginato di incontrare. Avanti, svegliati, parla con me, fa’ qualcosa. Non stare lì fermo come se fossi morto. Per favore, dammi un segno di vita» lo implorò.

    Ma lui non si mosse.

    Lilah si morsicò le labbra. Non sapeva che cosa fare, si sentiva impotente e in preda al panico.

    Non poteva lasciarsi sopraffare dalla disperazione, mettersi a piagnucolare. Era pur sempre una Cantrell e non poteva permettersi di perdere l’autocontrollo e il coraggio. Possibile che vedere un viso familiare le facesse pesare ancora di più la sua condizione di prigioniera? Non doveva perdere la speranza, ma combattere. Nei momenti di disperazione si era persino chiesta se nel mondo civile si fossero dimenticati di lei.

    Dopotutto, non sei tu quella che giace per terra semi cosciente e contusa, si disse. Doveva trovare il modo per aiutare Dominic, inutile continuare a stringere le sbarre di ferro, sperando che il calore delle mani le piegasse miracolosamente.

    Per l’amor di Dio, bambina! l’avrebbe rimproverata sua nonna con voce autoritaria e inflessibile. Smettila di commiserarti e cerca di essere all’altezza del nome che porti.

    Quelle parole dette con disprezzo le risuonarono nelle orecchie più gelide che mai. Deglutì, tirando un profondo respiro. Il nodo alla gola si allentò e le mani smisero di tremare. Rincuorata, focalizzò la sua attenzione su Dominic, cercando di individuare il punto in cui era stato ferito.

    Era difficile raggiungerlo da quella posizione, ma Lilah allungò le braccia oltre le sbarre di ferro più che poté e gli sfiorò la testa e il viso in cerca di eventuali ferite. Riuscì persino a tastare il collo e la gola, poi gli controllò la spalla e le costole, ma non era un medico e non sapeva giudicare le sue condizioni.

    Di una cosa era certa, però. Il suo fisico era solido e muscoloso come ricordava. «Avanti, Nicky» sussurrò, usando il diminutivo con il quale si rivolgeva a lui ai tempi in cui si erano frequentati. Il solo sfiorarlo le trasmetteva ancora una forte emozione. «Coraggio, reagisci. Ho bisogno di te. Svegliati, per favore. Per favore, per favore svegliati...»

    «Shhh, Li, ti sento. Si gela qui dentro.»

    «Oh» sussultò lei, affondando gli occhi in quelli verde smeraldo di lui. «Finalmente ti sei svegliato.»

    «Sì.» Dominic restò immobile, fissandola per un tempo che parve lunghissimo. Poi, lentamente, girò la testa e la sollevò, appoggiandosi alla parete, con la cautela di chi viene trafitto dal dolore a ogni movimento. «Mi sento fortunato» sussurrò, strizzando gli occhi come se la scarsa luce della cella fosse eccessiva da sopportare.

    Lilah si sentì gelare il sangue nelle vene. Se avesse avuto una commozione cerebrale, o si fosse rotto la testa? Incrinato una costola, o spappolato la milza? Poteva anche avere un’emorragia interna e nessuno se ne sarebbe accorto. Deglutì, la gola di nuovo secca. «In che punto senti dolore?»

    «Dove non lo sento, vorrai dire» si lamentò lui. «Però...» Le puntò un dito contro. «Mi sono accadute delle cose peggiori, perciò non agitarti, d’accordo?» Rassegnato, riaprì gli occhi, si puntellò sui gomiti e posò una mano su quella di lei. «Comunque fidati di me. Sto bene. Dammi solo un minuto.»

    Fidati di me. Quelle parole la investirono come un treno in corsa, un ricordo del passato che riaffiorava improvviso. Quante volte le aveva detto quella frase, sfidandola a compiere azioni pericolose, proibite, solo perché le riteneva audaci? Quante volte lei non aveva saputo resistergli, persa nei suoi occhi verdi, pieni di promesse? Quante volte le sue carezze erano bastate ad annebbiarle la testa, annullando ogni sua difesa e accendendo il suo desiderio?

    Tante di quelle volte che non l’aveva mai dimenticato. Il ricordo di lui sarebbe rimasto vivo nella sua mente, per sempre.

    Dominic ritirò la mano e si girò su un fianco e una smorfia di dolore si dipinse sul suo viso. Serrò la mascella, si toccò il labbro tagliato e con il dorso della mano si asciugò il sangue, poi balzò in piedi con agilità.

    Lilah restò a guardarlo impietrita, fingendo una calma che non sentiva, mentre lui sembrava valutare la situazione.

    Dominic irrigidì i muscoli del collo e delle braccia, ruotò le spalle, si piegò sulle ginocchia, poi sospirò sollevato. «Buone notizie, principessa. Non sto per morire» dichiarò con un sorriso.

    Principessa. Aveva mormorato quel vezzeggiativo in tono casuale e freddo, e per lei fu come ricevere uno schiaffo. Solo in quel momento realizzò di essere ancora in ginocchio ai suoi piedi e si alzò di scatto.

    Ignorandola, Dominic si guardò intorno, studiando quella piccola cella dotata di un’unica finestra con le inferriate, incastrata nella parte alta della parete, un materasso sottile come una foglia che fungeva da letto e una griglia che ricopriva un buco nel suolo, difficile da definire un gabinetto.

    Emise un fischio di disapprovazione. «Accidenti. Devi aver pestato i piedi a un pezzo grosso. Ne ho viste di prigioni, ma non riesco a ricordarne una peggiore di questa» mormorò, riportando lo sguardo su di lei. Uno scintillio sinistro gli illuminò lo sguardo e i suoi denti luccicarono in quella luce fioca. «Già. Ma d’altronde questa è una prigione.»

    Il suo sarcasmo era fuori luogo. Lilah si era preoccupata per lui, credendolo ferito e invece Dominic si divertiva a stuzzicarla.

    Indignata, si lasciò sopraffare dalla collera nonostante l’orgoglio le imponesse di non mostrarsi troppo suscettibile.«Il fatto che tu sia qui non è una coincidenza, vero?» domandò, conoscendo già la risposta. Dominic non aveva tradito la minima sorpresa, trovandola imprigionata in quel luogo lurido e angusto, lontano mille miglia da casa sua.

    «È come immaginavo» proseguì, ignorando il suo sguardo penetrante. «Hai agito in modo che ti sbattessero qui dentro perché eri certo di trovarmi.»

    Silenzio.

    «Un punto a favore della ragazza ricca e intraprendente» la schernì lui dopo un po’.

    Avrebbe voluto colpirlo. Piena di rabbia, Lilah si aggrappò alle sbarre. Non poteva perdere il controllo. Era pur sempre una Cantrell e doveva mantenersi lucida e distaccata, ma era divorata dalla curiosità di sapere il modo in cui quel ragazzo, che un tempo aveva avuto l’illusione di amare, era arrivato fino a lei. «Come hai fatto a trovarmi? Come hai fatto a scoprire che ero imprigionata in questo posto? Ti ha mandato mia nonna? E come sei arrivato fin qui? Perché corri un rischio del genere?» domandò.

    Il senso logico le suggeriva che non poteva essere una semplice coincidenza. Ci doveva essere per forza lo zampino di sua nonna, altrimenti che senso avrebbe avuto quella faccenda?

    Erano passati dieci anni da quando lei e Dominic si erano visti l’ultima volta e non riusciva a capire per quali strane congiunzioni astrali lui e

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