Nella vita tutto è possibile
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In costante equilibrio tra due continenti, quella di Damiano Carrara è una storia di coraggio e sfide, sapori e ricette (tutte da provare!), per scoprire quanto può essere sorprendente la vita e… che il bello deve ancora venire!
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Anteprima del libro
Nella vita tutto è possibile - Damiano Carrara
genitori
PRIMA PARTE
ALLA CONQUISTA DI UN SOGNO
LA CITTÀ DEGLI ANGELI
Spettacolo!
Questa è la prima cosa che penso appena si aprono le porte del Lax, l’aeroporto di Los Angeles, e vengo abbagliato dalla luce della California. Inforco gli occhiali da sole e trascino il trolley verso il parcheggio 6, dove il mio amico Jack mi ha dato appuntamento.
Dire che sono felice è poco. Sapevo che sarei riuscito a tornare, che nonostante le difficoltà ce l’avrei fatta, perché questo posto, fra tutti quelli che ho visto negli ultimi anni, è l’unico che mi sia entrato nel sangue, l’unico dove mi sia sentito a casa.
Un clacson strombazza insistentemente alle mie spalle, mi volto e vedo il muso della Lexus di Jack. Mi allungo per aprire la portiera, ma lui è più veloce di me e l’ha già spalancata.
«Ciao Damiano! Dài, salta su, che qui vanno sempre tutti di fretta.» Jack è uno che non ama perdere tempo, l’ho capito appena l’ho conosciuto a un barbecue a casa di Simone. E come potrebbe, visto che è un paramedico?
Non me lo faccio ripetere due volte e gli sono subito seduto accanto, con il trolley tra le gambe e un sorriso a trentadue denti stampato in faccia.
«Ciao, Jack. Cavolo, che meraviglia il sole» esclamo, stiracchiandomi sul sedile e lasciandomi illuminare da un raggio caldo. «A Lucca ultimamente non faceva che piovere. Non ne potevo davvero più.»
«Il bello della California è che non esiste l’inverno, almeno non come da voi. Questa è la terra dell’eterna primavera!» Il mio amico mette la freccia e cerca di aprirsi un varco nel traffico impietoso della città. «Devo farti i complimenti, sai, Damiano?»
Lo guardo con aria interrogativa.
«Sì, perché sei un uomo di parola» continua Jack, «avevi detto che entro due o tre mesi saresti tornato. E infatti eccoti qui. Bravo!»
«Ormai dovresti aver capito quanto posso essere tenace e determinato se mi metto in testa qualcosa» ribatto.
«SE MI PREFIGGO UN OBIETTIVO, DEVO RAGGIUNGERLO, COSTI QUEL CHE COSTI E A PRESCINDERE DA QUANTI SFORZI RICHIEDA. AMO LE SFIDE, MI PIACE ALZARE OGNI VOLTA L’ASTICELLA E SCOPRIRE FIN DOVE POSSO SPINGERMI, QUANTO POSSO MIGLIORARE, CRESCERE, IMPARARE. ALTRIMENTI, SE HO L’IMPRESSIONE DI RESTARE FERMO, IN PARTICOLARE NELLA MENTE, RISCHIO DI IMPAZZIRE. NON VOGLIO SPRECARE NEMMENO UN GIORNO DELLA MIA VITA.»
«Parole sante, amico, te lo dice uno che sa quanto sia importante la vita, soprattutto quando la stai perdendo.»
La Lexus sfreccia sull’autostrada e io intanto osservo Los Angeles. Questa città mi ha stregato fin dal primo istante, oggi però ci rimetto piede con le idee molto più chiare, ho pianificato a lungo il mio ritorno, valutato con attenzione pro e contro, programmato ogni minimo passo, nei limiti del possibile chiaramente.
Stavolta sono tornato per restare.
Finalmente sulla sinistra vedo profilarsi il campo da golf, il che significa che tra qualche minuto siamo arrivati.
Svoltiamo nella piccola salita ed ecco apparire poco dopo la villetta a schiera in legno bianco e cartongesso, in perfetto stile americano.
Prima di rientrare in Italia, avevo deciso di non disdire la camera presa in affitto da Sophie qui a Woodland Hills, il sobborgo di L.A. dove c’è la famosa Mulholland Drive. Anzi, avevo persino lasciato dei vestiti nell’armadio e nel garage la mia Honda Accord del 1990 con più di duecentomila miglia, giusto per scaramanzia e per darmi un incentivo a ritornare, semmai ce ne fosse stato bisogno.
Ricordo di aver detto a Sophie: «Ti lascio i soldi per altri due mesi d’affitto, se al terzo non sono tornato, vendi pure l’auto e la mia roba, così con quello che ricavi ti ripaghi la stanza e il disturbo».
«Grazie mille del passaggio, Jack» gli dico appena si ferma davanti all’ingresso.
«Non c’è di che. Chiamami se hai bisogno, mi raccomando!»
Scendo dalla macchina e suono il campanello. Devo ammettere che comincio a sentirmi un po’ frastornato dalla stanchezza, dal fuso orario e dallo choc climatico, ma non appena si apre la porta il buon umore ha il sopravvento e ritrovo le energie perdute.
«Damiano, ben tornato!» mi saluta abbracciandomi Sophie con il suo incantevole accento francese.
«Grazie, madame! Come sei in forma, stai benissimo.»
Lei scuote i lunghi capelli castani con un gesto molto femminile e io penso che i suoi cinquant’anni se li porta davvero alla grande. Sono proprio contento di rivederla.
«Mi sono iscritta a un corso di bikram yoga che fa miracoli, non trovi?»
La prima volta, quando sono arrivato in California con Bastjan, siamo stati ospiti per un paio di settimane dal suo amico – ora anche mio – Simone di Empoli. Poi però, dato che Simone viveva con la moglie, avevo pensato che per gli ultimi quindici giorni sarebbe stato meglio trovare un posto mio. Così lui mi aveva presentato Sophie che, oltre a essere un’amica, gli forniva i formaggi per il suo deli. Et voilà.
«Vai a lasciare le tue cose in camera, tanto sai dov’è. Io ti aspetto in veranda» mi dice.
«Come potrei dimenticare il tremendo divanaccio su cui mi hai fatto dormire?» rispondo scherzando.
Noto che dalla mia partenza non è cambiato nulla: il tavolino basso al centro del piccolo soggiorno all’ingresso, il corridoio con l’ufficio di Sophie, il bagno e, in fondo, la mia camera con il terribile divano-letto. Stavolta compro un letto vero, mi riprometto entrando.
Appena torno in veranda, resto stupito nel vedere il prato verde e ben curato.
«Sophie, non dirmi che ti stai finalmente dedicando al giardinaggio!»
«È stato merito tuo. Senza di te non avrei mai trovato il coraggio di avvicinarmi a tutte quelle sterpaglie» replica porgendomi un calice di vino rosso, ovviamente francese.
Apro la porta-finestra e ricordo che quella distesa verde, fino a poco tempo fa, era un misero pezzo di terra coperto di radici e fango, incolto, brullo e abbandonato che mi aveva impressionato, anche perché spiccava tra i giardini ben tenuti delle altre villette.
Allora avevo proposto a Sophie di occuparmene io per una modica cifra da scalare dall’affitto. Lei aveva accettato e per tre giorni non avevo fatto altro che estirpare le radici di quelle maledette canne di bambù, che erano cresciute sotto il prato distruggendolo, vangare e rivoltare la terra e piantare nuovi semi. Eh no, proprio non mi andava che la casa in cui stavo fosse così trascurata, volevo che fosse bellina.
«Devi vedere la piscina» aggiunge, «stavolta puoi fare il bagno.»
«Era ora, Sophie! La tua piscina era talmente marcia che ci nuotavano le rane!»
Scoppiamo entrambi a ridere e poi le propongo: «Ti va se ti cucino una torta da leccarsi i baffi? Mi ha insegnato a farla mia mamma».
«Assolutamente sì!»
«Sentirai che bomba. È la torta alla ricotta (vedi) più buona di sempre. A proposito, ce l’hai la ricotta?»
«Sei fortunato, ne ho una buonissima che ho dato anche a Simone.»
«E il cioccolato fondente?»
«Quello non manca mai, dovresti saperlo…»
In effetti, sì, dovrei saperlo: Sophie è una donna che sa godersi la vita e il suo bel fisico formoso lo dimostra.
«Limone? Panna da cucina? Uova?»
«C’è tutto.»
«Dammi un quarto d’ora per prepararla e quarantacinque minuti per cuocerla e poi mi dirai.»
Sophie addenta un boccone e sul suo viso appare un’espressione di pura beatitudine.
«Quindi? Ti piace?» le domando.
«Damiano, wow, è una vera delizia! E questo retrogusto al limone che si sprigiona dopo qualche secondo è il tocco che fa la differenza. Sembra quasi di…»
«Di sentire i sapori dell’Italia?»
«Sì, esatto. È come se ci fosse l’Italia qui dentro» annuisce lei. «Alors, cosa hai fatto in questi tre mesi?» mi chiede.
«Sostanzialmente tre cose: lavorato, lavorato, lavorato.»
«Be’, immagino che sia stato divertente…» e mi strizza l’occhio.
Le rivolgo un sorriso storto. «Sai che sono tornato in Italia unicamente per guadagnare un po’ di soldi per potermi pagare un affitto e per rinnovare il visto. Se non fosse stato necessario, sarei rimasto. La cosa positiva è che il mio amico Antonio, quel santo, mi ha passato il contatto di un ristorante italiano qui a L.A. Devo fissare un colloquio.»
«Questa è una bella notizia» commenta Sophie. «Hai più saputo niente di Bastjan nel frattempo?»
«No, niente» e sento subito che il nervoso comincia ad artigliarmi lo stomaco. «Credo che sia a New York dalla sorella» taglio corto.
Bastjan, un argomento che brucia ancora, benché sia trascorso ormai del tempo. Il fatto è che certe cose le vivo come tradimenti e non riesco a dimenticare, a smettere di soffrirci.
No, non si tratta di donne. Si tratta di amicizia, e forse è pure peggio.
Poi guardo il tatuaggio che ho sul braccio sinistro e penso che per fortuna gli amici veri esistono eccome. Io ne ho la prova addosso: Federico, che conosco da una vita. Frequentavamo infatti la stessa scuola, oltre ad abitare a pochi metri di distanza, in pratica a separarci c’era solo la chiesa di Sant’Angelo in Campo.
Ricostruire in maniera esatta come è nata la nostra amicizia è impossibile, perché non si può isolare l’istante in cui decidi che quello sarà l’amico di sempre. Accade e basta.
Accade che giorno dopo giorno si trascorrono ore insieme, si accumulano esperienze, si vivono avventure, si condividono emozioni e si sta bene. Ci sono sintonia e complicità, quelle che si creano quando cercarsi diventa naturale come respirare.
Per questo avevamo stabilito che dovevamo fare qualcosa per rendere ancora più speciale la nostra amicizia: avevamo bisogno di un gesto dimostrativo. E a diciannove anni cosa c’è di più dimostrativo
di un tatuaggio? Niente.
Così un pomeriggio eravamo andati a farci tatuare entrambi una frase che avrebbe dovuto ribadire la differenza tra le finte amicizie e la nostra.
Distendo il braccio e la rileggo:
IL TEMPO DI UN ALTRO NEGRONI E DI UN’ALTRA BIRRA E SAREMMO DIVENTATI AMICI PER LA PELLE, UN ALTRO GIRO ANCORA E AVREMMO PROGETTATO DI PASSARE INSIEME TUTTI I CAPODANNI DELLA NOSTRA VITA. LA NOSTRA AMICIZIA SAREBBE DURATA IL TEMPO CHE IMPIEGA UN FIAMMIFERO ACCESO A BRUCIARTI LE DITA CHE LO REGGONO TROPPO A LUNGO. LA NOSTRA INVECE È TUTTA UN’ALTRA STORIA
.
Purtroppo, però, in questi anni la vita non è stata generosa con Federico, anzi. Un male devastante si è portato via suo padre nel giro di poche settimane e, altrettanto in fretta, la situazione in famiglia è precipitata. Sono esplosi vecchi rancori e liti e lui si è dovuto mettere alla guida di un camion per sopravvivere.
Eppure, nonostante le sue difficoltà, è sempre rimasto un amico leale, sincero e presente. L’amico su cui sai di poter contare in ogni momento, quello che non ti tradisce e che non ti volta le