Lo zoo delle donne giraffa. Un viaggio tra i Kayan nella Tailandia del nord
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Recensioni su Lo zoo delle donne giraffa. Un viaggio tra i Kayan nella Tailandia del nord
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Anteprima del libro
Lo zoo delle donne giraffa. Un viaggio tra i Kayan nella Tailandia del nord - Martino Nicoletti
Scritti Traversi
LO ZOO DELLE DONNE GIRAFFA
Un viaggio tra i Kayan nella Tailandia del nord
di Martino Nicoletti
LO ZOO DELLE DONNE GIRAFFA
Un viaggio tra i Kayan nella Tailandia del nord
di Martino Nicoletti
© 2011 - Edizioni Exòrma
Via Fabrizio Luscino 73 - Roma
Tutti i diritti riservati
www.exormaedizioni.com
Progetto editoriale Orfeo Pagnani
Collana Scritti Traversi
ISBN 978-88-31461-12-2
Impaginazione omgrafica, roma
Fotografie Le foto senza didascalia sono fotogrammi da materiale girato in Super8 e dal cortometraggio Non devo guardarti negli occhi: lo zoo delle donne giraffa di Martino Nicoletti
Immagine di copertina Fotogramma dal cortometraggio Non devo guardarti negli occhi: lo zoo delle donne giraffa di Martino Nicoletti
Il mito presentato nell’opera si ispira alla narrazione contenuta nel volumetto: The Narratives, Beliefs and Customs of the Kayan People, di Khon Eden Phan, pubblicato in Tailandia nel 2004 dal Kayan Literacy and Culture Committee.
Il cortometraggio Non devo guardarti negli occhi: lo zoo delle donne giraffa(scandito dalla voce dell’ex Cccp Giovanni Lindo Ferretti), presente nel DVD allegato alla versione cartacea di questo volume, è stato realizzato da Martino Nicoletti nell’autunno 2010 e prodotto da Stenopeica (Italia-UK).
© Martino Nicoletti, 2011.
© Martino Nicoletti
Dice il vero, chi dice ombre.
Paul Celan
Le donne con i piattini.
Cartolina illustrata pubblicata negli anni ’30 da La Vulgarisation Ethnographique.
ACCENNI: LE DONNE CON I PIATTINI
In una vecchia cartolina degli anni ’30 proveniente dal Congo, un’anziana donna è ritratta di tre quarti. Avvolta da un tessuto a sottili righe orizzontali, l’indigena, con una mano lunga e ossuta, si copre parte del torace nudo. Necessità di composizione della foto? Discrezione?
La didascalia che accompagna l’immagine, senza ombra di equivoco, indirizza l’attenzione dell’osservatore su ciò che deve essere osservato: Le donne con i piattini.
La donna esiste nella fotografia in quanto i suoi etnici piattini labiali esistono. Smisuratamente esistono. Magnetizzano lo sguardo. Primeggiano sin quasi a ingombrare l’intero quadro.
Due labbra, dunque. Questo è quello che si è visto. Quello che si vuole e si deve guardare; che tutto il resto sembra essere soltanto un insignificante dettaglio.
IN LAOS L’INCONTRO CASUALE CON IL VOLTO DI UNA CARTOLINA
Alcuni anni fa, durante un viaggio nel sud-est asiatico, mi accadde di trovarmi a transitare per qualche giorno a Luang Prabang, la splendida cittadina sul Mekong, racchiusa tra le alte colline del Laos settentrionale e già capitale dell’antico omonimo regno. Una sosta temporanea, necessaria, per spezzare il mio itinerario dopo che, abbandonata Hanoi, avevo intenzione di rientrare via terra in Tailandia.
Una mattina, dopo aver fatto colazione in uno dei caffè dalle parti della centralissima Sakkaline Road, feci visita a una piccola, ma fornita, libreria internazionale. Una libreria in cui, accanto a volumi dedicati alle civiltà e la storia di quella parte di mondo, era possibile rinvenire altri eterocliti frammenti di Asia. Frammenti bidimensionali, fatti di vecchie fotografie, antiche stampe semiammuffite, mappe sbiadite e pallide cartoline alla deriva.
Proprio mentre mi trovavo a cercare del materiale relativo alle minoranze etniche del nord del Laos, ricordo di essermi casualmente imbattuto in una serie di cartoline raccolte alla rinfusa su uno scaffale seminascosto, proprio in fondo alla libreria. Attratto dalla varietà delle immagini abbandonai per un istante il libro che stavo sfogliando e mi diressi verso quel nugolo di volti, corpi e luoghi così mescolati assieme. Mi misi a frugare tra quel groviglio che, senza preoccupazione alcuna, assommava antiche fotografie in bianco e nero di sicura memoria coloniale a coloratissime cartoline postali di recente fattura: intorpiditi, quanto remoti e malinconici, paesaggi tropicali; membri di antiche etnie indigene del sud-est asiatico armati di lance archi e frecce; fantastiche vedute del Mar Cinese meridionale; pagode fatiscenti e antiche rovine buddhiste; nobildonne di altri tempi trascinate da mansueti conducenti di riksho; irriducibili criminali vittime di punizioni esemplari; monarchi in rivista a pomposi eserciti schierati; sensuali giovani donne orientali adagiate su morbidi sofà, in inequivocabili pose osé.
Tra la miriade di immagini trasportate da questa ipnotica lanterna magica, lo sguardo mi cadde in particolare su un esiguo gruppo di cartoline avvolte da un elastico. Come sottolineava la didascalia presente su ciascuna di esse, le immagini si riferivano a donne dell’etnia dei Padaung. Le fotografie, tutte rigorosamente a colori, erano per la maggior parte dei ritratti e scorci di vita: fanciulle seminude colte nell’intimità di un bagno nelle limpide acque di un ruscello; anziane donne alle prese con arcaici telai in legno; ragazze intente ad allattare al seno un minuscolo membro della propria etnia, da poco venuto al mondo. Tutti i soggetti, al di là della diversa età e delle specifiche particolarità somatiche, erano indistintamente accomunati da un unico e riconoscibilissimo particolare: un pesante, quanto imponente, monile costituito da una serie di spirali in metallo avvolte attorno al collo di ciascuna delle donne fotografate. La lunga e compatta torre di spire era stata sapientemente impiantata in maniera tale da provocare un vistoso allungamento del collo stesso e da compromettere, come conseguenza naturale, la normale mobilità del corpo.
Nonostante la presenza di quell’ingombrante ornamento, ogni gesto e attività di quelle donne emanava un’indiscutibile eleganza. Quei corpi manomessi erano infatti capaci di estrudere vita e una potente femminilità. Sembravano degli splendidi e snelli tuberi, delle esotiche patate in grado di germogliare anche se ridotte a sottili fette o se dimenticate nel buio di una dispensa per lunghi mesi.
Nel gruppo di cartoline Padaung, una fotografia in particolare emergeva con una sua prepotenza assolutamente mesmerizzante: nell’immagine una donna era seduta frontalmente di fronte all’obiettivo. La testa e il collo erano visibilmente sproporzionati rispetto al minuto ed esile busto. In un precarissimo equilibrio, questi sembravano essere stati appoggiati lì sopra solo un istante prima, giusto il tempo di scattare una foto.
Dietro la persona, un interno sfuocato privo di dettagli riconoscibili. Soltanto qualche incerto oggetto scintillante e un tessuto, distinguibili grazie alla flebile luce che entrava da una finestra.
Accanto alla donna, aggettando dalla parte inferiore della foto, si innalzava un’ampia spirale di metallo. Questa sembrava viva; sospesa, quasi si trattasse di un serpente invitato a mostrarsi al pubblico grazie al corteggiamento musicale di un invisibile incantatore. Si trattava di un serpente di metallo simile a quello già avvinghiatosi al collo della sua vittima. Simile ma non ancora in azione.
La persona ritratta, seppur presente, sembrava assente. Le sue palpebre, appena abbassate, annunciavano un pensiero capace di rapirla altrove. Nonostante il suo volto fosse interamente esplicitato, la donna, conservava una propria riservatezza, un proprio intimo decoro. Di fronte all’obiettivo vorace e imperioso del fotografo professionista che la stava ritraendo, questa sembrava infatti essersi ritirata per tempo in un suo privato cono d’ombra non visibile e non raggiungibile.
Nella fotografia, l’unica allusione a questo mondo sommerso e intangibile era rivelato dal sorriso della donna. Un sorriso impalpabile appena accennato, sospeso tra imbarazzo e dedizione. Una porta lasciata discretamente socchiusa, protezione e invito al tempo stesso. Tutt’intorno soltanto silenzio.
L’immagine era semplicemente splendida.
Una fotografia in particolare emergeva con una sua prepotenza assolutamente mesmerizzante.
Cartolina illustrata tailandese contemporanea.
Trascorrono alcuni anni. È il 2009. Io non sono più a Luang Prabang. Ora mi trovo invece in un’agenzia di viaggi di Bangkok alla ricerca di un volo per Singapore. Mentre attendo il mio turno, mi trovo circondato da enormi poster pieni di fotografie. Immagini coloratissime che formano un denso collage di corpi e volti. Corpi e volti sorridenti, incastonati in abiti sgargianti mai visti prima e mai neppure immaginati. I corpi stanno, i volti guardano. Gli etnici
del nord. Come è ovvio che sia, di nuovo, affiorano alla mente le vecchie cartoline laotiane. Scorte da qui sembrano frammenti di reperti archeologici. Le fanciulle dal collo lungo che fanno il bagno, le native al telaio. Il sorriso enigmatico della donna seduta vicino all’ampia spirale di metallo.
Ho tempo. Avrò tempo al mio ritorno. Decido di partire per il nord. Dopo Singapore, verso il nord. Casualità che si ripropongono. Possibilità che tornano.
Basta poco, alle volte. Alle volte, basta qualche soldo in tasca e una sottile traccia che ci possa fare da guida.
Per primo venne creato il cielo.
© Martino Nicoletti, 2010.
ETÀ DELL’ORO
Un antico mito racconta che, all’inizio