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Perfide fiabe
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E-book244 pagine3 ore

Perfide fiabe

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Info su questo ebook

Sette racconti che danzano ai confini del surreale senza la pretesa di correre incontro al lieto fine.

Un antropologo alle prese con una strana scoperta in

un sito preistorico.

In un futuro distopico una ragazza cerca di sottrarsi ad un tragico destino.

I progetti di una coppia di fidanzati finiscono sospesi nel tempo a causa di un incidente stradale.

La veglia di una donna nell'ultima notte di un amore

nato sulle ali della rivalsa.

I curiosi effetti di un viaggio accidentale laddove può costare molto caro manifestare i propri saperi.

Uno strumento dalle inaspettate proprietà finisce nelle mani di un ragazzino dal promettente futuro.

E infine, siamo proprio sicuri che negli acceleratori di particelle tutto procederà senza problemi?
LinguaItaliano
Data di uscita10 feb 2021
ISBN9791220322911
Perfide fiabe

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    Anteprima del libro

    Perfide fiabe - Anna Pulizzi

    633/1941..

    SILVIA PER SEMPRE

    Mancavo da casa da una sola settimana ma non vedevo l’ora di tornare, il che a dir la verità è una cosa che mi succede raramente. Eppure la mia non era stata esattamente una vacanza.

    In qualità di fanatico collezionista di souvenir, in casa mia se ne potevano trovare ovunque, disposti qua e là a simboleggiare un groviglio di stagioni e latitudini ormai inestricabile. Così anche in quella occasione recavo con me alcuni tangibili ricordi della trasferta appena conclusa: un trompe l’oeil davvero carino da appendere a qualche porzione di muro ancora libera, una buona riproduzione d’una balestra medievale e soprattutto una fotografia che avevo fatto stampare in grande formato. Completavano l’elenco del bottino una sciarpa in cachemire ed un profumo, entrambi per Silvia, che naturalmente ero ansioso di riabbracciare.

    Non vivevamo insieme, anche se da qualche tempo facevamo seri progetti in merito e davo per scontato che ciò sarebbe accaduto di lì a breve. Così avevo disfatto in fretta il bagaglio ed ero corso da lei, per imbattermi poco dopo nella sua reazione sconvolta e nel sospetto che il suo atteggiamento doveva nascondere qualcosa di molto strano.

    Io sono un antropologo e lo dico solo perché questa vicenda richiede un chiarimento preliminare. Trascorro parte del tempo all’università, ma la mia attività non si limita all’insegnamento. La porzione restante si dispiega in una serie di incontri, convegni e seminari che talvolta comportano trasferte di cui farei volentieri a meno. In questi casi, se è possibile e se mi rimane del tempo, inserisco nell’itinerario una località in grado di offrirmi qualcosa che sia attinente alla materia che insegno. La ragione è ovvia; io posso descrivere i particolari di un ritrovamento, ad esempio le caratteristiche di una pittura rupestre, la sua collocazione cronologica e la facies culturale di appartenenza, facendo confronti con aree e periodi diversi, ma col tempo ciò che dico finisce per apparirmi in un certo modo estraneo. Visitando le grotte del Tassili in Algeria, le medesime emozioni si sposano sempre con la scoperta di dettagli cui non avevo prestato attenzione. E’ solo un esempio, ma io ci sono stato tre volte in dieci anni e tuttavia desidero tornarci perché riuscirò sempre a cogliervi nuovi elementi su cui riflettere come studioso e nuova sostanza da trasmettere come insegnante.

    Eccoci quindi tornati a quel settembre, quando insieme all’estate andò tramontando una buona dose di quelle certezze che rendono più rassicurante l’immagine del futuro. Mi ero recato in Bretagna per l’annuale convegno di etnologia a Rennes, ma avevo deciso di partire un giorno prima per poter visitare un sito nel Perigord, leggermente fuori percorso. La regione è particolarmente interessante per via dei siti recanti tracce di produzione artistica del Paleolitico superiore, tra cui il più celebre è certamente la grotta di Lascaux. Evidentemente le sorprese in quest’area non erano finite, poiché due anni prima era stato esplorato un nuovo sito ed erano state rinvenute pitture rupestri risalenti ad un periodo relativamente recente, ovvero alla fine del periodo magdaleniano, circa dodicimila anni fa. Si tratta dell’epoca terminale dell’ultima glaciazione; a quel tempo i ghiacci cominciavano a ritirarsi e le grosse mandrie di erbivori migravano progressivamente verso nord, seguite da vicino dai gruppi umani che ancora vivevano di caccia e di raccolta. Di queste pitture avevo potuto ammirare su alcuni siti delle immagini davvero splendide; il realismo delle figure era stupefacente, tanto che sulle prime qualcuno aveva sospettato trattarsi di uno scherzo.

    Figuriamoci! Oggi le bufale di questo tipo hanno le gambe davvero corte e praticamente non sono più realizzabili. Esistono tecniche grazie alle quali si può stabilire subito se ci si trova di fronte ad un raggiro, quand’anche venisse ideato con la massima cura. Quindi, perché non andare a vedere di persona queste meraviglie, ora che una parte delle grotte era stata aperta al pubblico?

    Giunto a destinazione, avevo deciso di pernottare in una pensione nei pressi di Varetz e la mattina successiva m’ero inconsapevole recato all’appuntamento col destino. Non c’erano molti visitatori e la cosa era piuttosto strana, dal momento che per qualche tempo di queste grotte s’era parlato parecchio. Le visite guidate non erano obbligatorie, per cui avevo seguito il percorso per i fatti miei, gettando occhiate curiose lungo i cunicoli rigorosamente sbarrati che si diramavano ogni tanto dal tracciato principale. Si scendeva, incrociando i sorveglianti che osservavano i turisti con insistenza. E’ pieno il mondo di deficienti che amano lasciare traccia del proprio passaggio mediante scritte sui muri, incisioni, sottrazione di materiale ed altre abitudini idiote. Durante alcune spedizioni in luoghi dove la sorveglianza è insufficiente, mi ero imbattuto spesso in danni di questo tipo.

    Verso metà del percorso si giungeva in una grande sala scarsamente illuminata, attraversata sul lato più lungo da una passerella che correva a ridosso delle rocce, mentre dalla sommità piovevano le gocce d’acqua che andavano ad alimentare uno stagno sottostante. L’alito di una decina di visitatori era divenuto improvvisamente visibile, formando nuvolette di vaporoso stupore ad ogni boccata d’aria, poiché una decina di metri più avanti, lungo una parete liscia e piuttosto concava, si stagliavano immagini incantevoli dai colori quasi inalterati. Un gruppo di bisonti era stato dipinto con una leggera inclinazione verso l’alto, così che la corsa del branco pareva quasi il tentativo di spiccare il volo. Un cavallo dalla criniera scompigliata era ritratto nel momento in cui scartava lateralmente, come se lungo il suo tragitto qualcosa l’avesse spaventato. Quindi due buoi dalle lunghe corna acuminate, uccelli che allargavano le ali puntando verso i lati della parete e poi ancora animali, ovunque vi fosse un tratto di roccia sufficientemente levigata. Non avevo mai visto in precedenza esecuzioni di fattura tanto pregevole. Ma in quella sala si trovavano solo raffigurazioni zoomorfe e benché il loro realismo fosse così straordinario da apparire inquietante, la singolarità del sito risiedeva in qualcos’altro che avremmo osservato di lì a poco.

    La passerella tornava a percorrere stretti cunicoli ed attraversava ambienti di modeste dimensioni, lungo i quali erano tracciati disegni meno accurati, forme stilizzate di uomini ed animali o scene di caccia la cui esecuzione doveva essere stata rapida ed occasionale. Ma ecco che subito dopo aver superato una specie di budello, si accedeva ad una nuova sala, dove gli antichi artisti non avevano potuto usufruire di pareti molto lisce ma ne avevano ugualmente impressa tutta la loro sapienza rappresentativa. E cosa davvero sbalorditiva, i soggetti erano questa volta esclusivamente umani. Cacciatori in marcia, una famiglia al completo sulle soglie di un riparo di rami e pelli disegnato alle loro spalle, donne chinate in mezzo all’erba nell’atto di raccogliere frutti e poi volti umani, visti di fronte o di profilo, ovunque ci fosse un po’ di spazio, perfino sul soffitto o laddove la roccia aveva un andamento irregolare.

    Chi avrebbe immaginato che dodicimila anni fa si mettesse in opera la tecnica del ritratto? O che si abbozzasse un tentativo abbastanza felice di rappresentazione prospettica? Nelle raffigurazioni preistoriche le figure umane sono quasi sempre un complemento ed appaiono tracciate senza molta cura per i dettagli. Mai e poi mai ci si era imbattuti in scene di vita quotidiana e tantomeno in ritratti accurati di persone comuni.

    Mi ero soffermato a lungo su quei volti, trovando in ognuno di essi elementi che possiamo tranquillamente scorgere nelle persone che incrociamo ogni giorno per strada. Uomini e donne come noi, dotati della nostra stessa intelligenza.

    Eh già, l’intelligenza. Quante volte ho dovuto ribadire questo dettaglio nel corso delle mie lezioni?

    Badate che gli individui di quest’epoca appartengono già alla nostra specie Sapiens e pertanto le loro facoltà cerebrali sono identiche alle nostre. Oggi usufruiamo di conoscenze e tecniche assai più avanzate rispetto alle loro e non per via di una maggiore intelligenza bensì grazie all’accumularsi delle cognizioni precedenti, correttamente conservate e tramandate

    Nel mio lavoro ci sono cose che occorre ripetere spesso, perchè altrettanto spesso ci si illude che siano scontate.

    Gli individui di quella comunità erano stati colti dall’artista nei momenti di vita più ordinari. Appariva evidente che l’artefice di quei capolavori era spinto dal desiderio di riprodurre fedelmente ciò che vedeva, senza aggiungere o sottrarre nulla alla realtà. E chissà, magari in mezzo a quei volti si trovava anche il suo autoritratto. Il gruppo di turisti che mi precedeva era avanzato verso nuove scoperte, mentre io avevo preferito restare lì ancora un poco, cercando di cogliere qualche particolare aggiuntivo. Si sapeva che in epoche remote era usuale dipingersi il corpo o tracciarvi disegni propiziatori e infatti molti individui presentavano sulle guance e sulla fronte striature di vario colore. Era un peccato non avere abbastanza tempo per trattenermi né poter ritornare a visitare il sito già l’indomani, dato che dovevo raggiungere Rennes, ma avrei sempre potuto fermarmi al ritorno, al termine del convegno. Ecco, avevo deciso che poteva essere questa la soluzione migliore e così ragionando mi ero voltato verso un altro lato della grotta.

    Ed è stato allora che l’ho vista. Il mio sguardo è scivolato sulle pareti come una pennellata veloce, sfiorando le immagini senza più vederle, esitando, fermandosi e tornando indietro, fissando infine il viso di una ragazza dai capelli lunghi e corvini dipinta vicino ad una convessità di roccia, in mezzo ad altre figure di cui non ricordo più nulla. La somiglianza con Silvia era impressionante. Era praticamente lei. Perfino un angolo della bocca era piegato all’insù nell’espressione discola e provocante che le è consueta in certi momenti. Non potevo avvicinarmi più di tanto senza scendere dalla passerella ed inoltrarmi in territorio proibito. Avevo notato l’arcigna presenza lì vicino di una telecamera che teneva l’area sotto controllo e che stava certamente inquadrando anche me. Così feci qualche passo in avanti, come per raggiungere gli altri turisti, quindi improvvisamente saltai giù dalla passerella, estrassi la mia piccola fotocamera ed avvicinandomi il più possibile alla parete immortalai quella figura con uno scatto.

    Il bagliore del flash fece accorrere immediatamente uno dei sorveglianti che in quel momento stazionava nella sala precedente, ma quando giunse sul posto io mi trovavo di nuovo sulla passerella ad osservare con aria innocente le meraviglie impresse sulla roccia. Era un ragazzo alto e ben piantato. Mi disse qualcosa in francese con sguardo di rimprovero ma io allargai le braccia fingendo di non capire una parola. Mi guardò torvo, aspettando che proseguissi verso gli ambienti successivi. Per il resto del percorso me lo ritrovai sempre alle calcagna.

    Ecco, quella è la foto che avevo riportato a casa. L’ingrandimento evidenziava inoltre un particolare che durante la visita alla grotta non avevo notato. Seguitavo ad osservare il ritratto, provando ogni volta un inspiegabile disagio, come se la mente continuasse ad inciampare nell’embrione di un’idea senza saper bene dove collocarla. Poi avevo capito: il ciondolo. Quello che la ragazza della foto portava legato sulla fronte. Quel ciondolo io l’avevo già visto. Così andando da Silvia avevo pensato di farle una sorpresa; volevo dirle guarda un po’ chi ho incontrato gettando la foto sul tavolo davanti a lei per riderne insieme. Invece qualcosa mi trattenne. La riabbracciai e lei apprezzò molto i regali che le avevo portato.

    Silvia era entrata nella mia vita in punta di piedi, se così posso dire. Le prime volte ci incontravamo nella birreria dove lei lavorava e dove io andavo a passare ogni tanto qualche serata tranquilla in compagnia di una buona lettura. Aveva scambiato con me solo qualche parola, come in genere accade con i clienti abituali, ma fin da subito mi era sembrata una persona bella e interessante; mi ero anche reso conto di produrre in lei la medesima impressione. La nostra relazione era andata solidificandosi senza fretta, quasi come se all’inizio non fossimo certi di muoverci in direzione di una maggiore confidenza reciproca. Mi piaceva il suo carattere solo apparentemente introverso e ne indovinavo la funzione di sipario, dietro al quale doveva nascondersi una personalità disponibile e solare. Avevo visto giusto e non molto tempo dopo imparavamo a fidarci l’una dell’altro, accettando perfino di immaginare e infine di lavorare alla realizzazione di un futuro comune.

    Quante circonvoluzioni! Perchè non dire semplicemente che ci siamo piaciuti ed abbiamo deciso di stare insieme? Beh, non lo so. Ho sempre intravisto al di là del suo sorriso il passaggio verso una parte di lei che non avevo diritto di esplorare e conoscere; non ho mai tentato di violare la sua riservatezza e mi limitavo a pensare che mostrandomi ai suoi occhi genuinamente e senza timori, alla lunga sarei riuscito a minare le ragioni della sua ritrosia.

    Il giorno in cui le proposi di andare a vivere insieme non ero del tutto sicuro di ciò che stavo facendo. Ed ebbi l’impressione che, dicendomi di sì, non lo fosse nemmeno lei. Non che avessi la sensazione di non amarla abbastanza o che il nostro rapporto poggiasse su basi precarie, intendiamoci. Benché avessi sempre trovato la mia vita da single comoda e piacevole, l’entrata in scena di Silvia la rendeva ai miei occhi improvvisamente illogica ed assai meno gratificante. Sapevo che non sarei più riuscito ad apprezzare il tipo di vita a cui ero abituato ora che il mio cuore aveva cominciato ad abitare altrove. Tuttavia avvertivo la presenza di un insondabile ostacolo alla nostra felicità futura, pur non riuscendo ad inquadrarlo entro schemi razionali. Forse per lei era lo stesso. Col senno di poi e conoscendo già la fine di questa storia, dovrei eliminare il ‘forse’ ed aggiungere che già da allora Silvia si rendeva conto benissimo che non avremmo vissuto insieme il futuro che normalmente ognuno desidera.

    La sera del mio ritorno cenammo insieme a casa sua e le raccontai brevemente del convegno, del collega che non avrei voluto incontrare e di quell’altro con il quale invece avrei desiderato intrattenermi più a lungo. Silvia non si annoiava mai nel sentirmi raccontare i dettagli del mio lavoro ed io tendevo colpevolmente ad approfittarne. Dopo cena le chiesi di mostrarmi il suo bracciale, quello in argento e madreperla che aveva messo in alcune occasioni. Poco dopo rigiravo il gioiello tra le mani e lo esaminavo attentamente. Silvia spostava il peso da una gamba all’altra e se ne stava in piedi a braccia conserte accanto ai fornelli della cucina, in attesa che s’accendesse il led della macchina per il caffè. Avevo pensato e forse anche sperato d’essermi confuso, ma dovevo ammettere che quel piccolo oggetto incastonato nell’argento e recante una serie di incisioni era identico a quello del ciondolo della fotografia. Non vi erano dubbi.

    E’ in pietra conclusi tenendo il monile tra le mani e concentrandomi sul ciondolo che vi era stato inserito. Sulla sua superficie levigata vi erano incisi dei segni che un occhio affrettato avrebbe giudicato privi di significato.

    Che cosa?

    Questo oggetto incastonato nel cerchietto d’argento, qui in mezzo. E’ in pietra. Sembra selce precisai.

    E allora?

    Beh, e allora somiglia molto a quest’altro aggiunsi, tirando fuori tutto soddisfatto la foto dalla mia cartellina e posandola sul tavolo.

    Anzi, è uguale. E anche la ragazza che lo porta. Guarda! E’ uguale a te

    Vidi Silvia sbiancare. Prese con decisione la foto, l’osservò con sguardo incredulo e cominciò a torcerla come se avesse voluto farla a pezzetti.

    Dove hai trovato questa roba? mi chiese con gli occhi colmi di odio.

    Vicino a Varetz, in Francia. Ma che hai... perché fai così?

    La sua espressione sconvolta non l’ho dimenticata e non l’avevo mai vista in precedenza. Sembrava terrorizzata. L’abbracciai provando a calmarla e subito seguì da parte sua un qualcosa di simile ad un’improvvisata prova di recitazione, durante la quale tornò a sorridere senza convinzione e con lo sguardo ancora sbigottito.

    Ero rimasto da lei quella notte, come ormai capitava spesso e come preludio di quella che speravo sarebbe presto divenuta la più ovvia delle consuetudini. Per il resto della serata non avevo più toccato l’argomento e la fotografia era stata prudentemente riposta nella cartellina. L’unica cosa che riuscii a pensare era che l’improvvisa visione di quella ragazza così somigliante poteva averla sconvolta; a letto le chiesi scusa per averla impressionata in un modo così brutale e stupido. Lei s’era già assopita ed io cercai per qualche ora di annegare nel sonno il turbamento che non intendeva abbandonarmi.

    ----------

    L’inizio dell’autunno regalava giornate piuttosto miti che si alternavano ad altre fin troppo fresche. Silvia non era più tornata sulla questione e io invece l’avevo fatto un po’ più spesso di quanto lei avrebbe desiderato. Era più forte di me. Rimuginavo su un insieme di dettagli ai quali non avevo mai prestato attenzione e che ora sgomitavano nella mente chiedendo di essere disposti secondo uno schema coerente. La somiglianza con la ragazza delle grotte era impressionante e si trattava chiaramente di una circostanza fortuita. Ma se a questa andava ad aggiungersi il ciondolo in pietra e infine l’istintiva reazione di Silvia il giorno del mio ritorno, la cosa sembrava assumere contorni diversi. Non è che passassi il tempo a fantasticare sulle possibili spiegazioni; molto più semplicemente, mi domandavo per quale motivo la mia compagna evitasse l’argomento e soprattutto perché di fronte a quella serie di strani particolari non provasse alcuna curiosità.

    Era ottobre, una sera di quelle in cui non si capisce bene ciò che è meglio indossare per evitare il disagio di temperature impreviste. Silvia ed io eravamo seduti ad un tavolo d’angolo del ristorante in cui avevamo cenato nel corso del nostro primo appuntamento. Sentivo che non avrei potuto trattenere a lungo gli interrogativi che mi assillavano e sapevo che per l’ennesima volta lei avrebbe finto di non dare importanza alla cosa ed avrebbe subito cambiato discorso.

    Fu una serata particolarmente silenziosa. A tavola lei continuò a guardarmi in un modo che avrei giudicato ambiguo, se non avessi notato sul suo viso la medesima espressione tante altre volte; la testa leggermente inclinata, lo sguardo che si levava verso di me per poi precipitare verso il piatto, quindi dal piatto di nuovo ad incontrare il mio muto turbamento. Ogni tanto lei diceva qualcosa per introdurre un argomento lieve, ma questo non sopravviveva a lungo e tra noi andava ergendosi un imbarazzo che il nostro rapporto non aveva mai conosciuto in precedenza. Più tardi, camminando lungo i giardini nei pressi di casa sua sotto un cielo insolitamente terso, decisi che era giunto il momento di risolvere il dilemma.

    "Ti ricordi quella canzoncina che cantavi ogni tanto... ‘Ranne upra ei... scan, scan’?

    Silvia annuì divertita e subito intonò il motivo aggiungendo la parte mancante.

    La naa pra ranne upra macia. L’hai imparata a memoria? domandò con un lieve sorriso che subito andò spegnendosi.

    Beh, mi ricordo quando la cantavi. Per la verità me ne ricordavo solo una parte, infatti era un po’ più lunga... Era una ninna nanna, no?

    Silvia non mi rispose. In ascensore continuai a studiare l’espressione grave del suo viso e pensai al modo migliore per sciogliere il grumo d’incomprensione che si stava creando tra noi.

    Avevamo modi diversi di osservare il mondo, forse perfino una scala di valori differente. Io sono un uomo di scienza e lo dico senza presunzione alcuna. Sono un seguace della dea Verità e la inseguo ogni giorno. Non ha importanza se non vivrò abbastanza per raggiungerla, anzi forse il bello è proprio questo. Le corro dietro ipotizzando che ci si potrebbe avvicinare in eterno senza mai arrivarci del tutto, come nei paradossi di Zenone. Cerco leggi unificanti, un adesivo efficace che tenga insieme la visione di un mondo che altrimenti apparirebbe caotico e incomprensibile. La scienza ha timore del caos e vorrebbe penetrarlo per trovarvi un ordine nascosto. Invece il suo approccio alle cose è sempre stato più duttile. Mai tormentata dall’idea del disordine, forse ne coglieva le svariate opportunità di arricchimento. Mai presa dalla necessità di regole tranquillizzanti, pareva affascinata dall’esistenza di realtà plurali e tutte ugualmente degne di considerazione. Su certe cose forse non avremmo mai trovato una vera intesa.

    Poco dopo ero seduto al tavolo di cucina e la guardavo armeggiare davanti al lavello. Avevamo optato per una tisana e non avevo espresso

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