La sindrome di Proust
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Anteprima del libro
La sindrome di Proust - Lorenzo Sartori
minivan.
2.
Londra, il giorno dopo
Quando Alec Raines entrò negli uffici della Keepsake, la grande parete digitale segnava le nove e cinquantatré minuti. I secondi scorrevano disciplinati alle spalle di Kate, impegnata a smistare sul touchdesk gli appuntamenti della settimana.
«Salve Kate, la dottoressa Kimble è già arrivata?»
La donna staccò per un attimo gli occhi dagli ologrammi per posarli sul giovane.
«No, dottor Raines, ma sarà qui a momenti. Il cliente è in sala riunioni con il capo, può raggiungerli.»
Alec esitò solo un attimo davanti al distributore automatico, avrebbe voluto farsi un caffè doppio, ricaricarsi prima di quell’incontro importante. Epocale, lo aveva definito il suo capo, Mr Saunders, con il solito entusiasmo.
Aveva lavorato fino a tardi e un po’ di caffeina lo avrebbe traghettato verso l’ultimo giorno di una settimana passata in immersione pressoché totale nella vita degli altri.
Ricontrollò l’ora. Odiava arrivare in ritardo, quanto attendere.
Pensò al cliente, giunto dagli Stati Uniti, che si trovava già in sala riunioni con il capo. Rinunciò, iniziando a percorrere con passo veloce il corridoio.
La porta di cristallo della sala si aprì con un leggero sibilo. Mr Saunders, un uomo di circa sessant’anni, magro, con il viso scavato e gli occhi vispi e indagatori, gli si parò davanti raggiante.
«Le presento il dottor Raines, il nostro miglior memo designer» esordì, introducendolo a un uomo sulla cinquantina, molto robusto e con una barba folta e rossiccia. Il cliente si alzò in piedi e andò incontro ad Alec.
«Piacere, Peter Grossman.»
La stretta non lasciava scampo.
«Piacere mio, signor Grossman.»
«Ah, ecco la dottoressa Kimble» intervenne con un guizzo Saunders.
Sarah Kimble entrò con passo sicuro e felpato, nonostante il tacco dodici. Quando le strinse la mano Grossman sembrò perdere parte della propria sicurezza. Era una donna affascinante di circa quarantacinque anni, con i capelli lisci biondo cenere che le arrivavano poco sotto le spalle del tailleur grigio scuro.
«La dottoressa Kimble è una neuropsicologa di fama, ha scritto molti saggi sulle reti neurali e la stimolazione cognitiva transcranica, una vera autorità in materia. Tutto ciò che facciamo non sarebbe possibile senza di lei» osservò Saunders compiaciuto.
Alec annuì, perfettamente consapevole che senza Sarah non sarebbe mai riuscito a fare quel lavoro. Certo, Onyric, Syndrome o Receptor erano software che per lui ormai avevano ben pochi segreti. Ma il cervello umano era un’altra cosa.
Per rielaborare i dati neurali digitalizzati era necessario intervistare i proprietari di questi ricordi, coloro che avevano generato la contorta matassa di immagini, suoni, odori e sensazioni. E così lutti, traumi emotivi, esperienze che la psiche aveva rimosso o rielaborato, venivano impietosamente riportati in superficie. E in quel momento il ruolo di Sarah Kimble diventava fondamentale.
Alec era affascinato dal suo modo di fare, dalla professionalità e sensibilità mostrata davanti ai clienti. Ma provava anche una certa inquietudine per la semplicità con cui faceva emergere ricordi che forse desideravano solo rimanere sepolti, facendolo a volte sentire un necroforo, uno il cui lavoro era rendere presentabili i cadaveri per dare loro una sorta di immortalità nei ricordi dei vivi.
Gli tornarono alla mente le parole di Saunders il giorno in cui gli aveva spiegato che il suo lavoro sarebbe cambiato, che non si sarebbe più occupato di produzioni cinematografiche ma di qualcosa di molto più importante.
«Certo, all’inizio saranno in pochi quelli che si recheranno alla Foundation di New York per scaricare su un supporto digitale la propria vita. Non tutti se lo potranno permettere, almeno per i primi anni, e dobbiamo aspettarci anche molta ostilità. Ogni invenzione ha bisogno di tempo perché sia accettata e la gente si deve ancora riprendere dallo shock creato dal cyber terrorismo, ma tra un po’ i media non parleranno d’altro. E tutti vorranno farsi il download. Il fatto è» aveva proseguito dopo una pausa e con un tono meno concitato «che la qualità grafica e sensoriale dei ricordi digitalizzati non sempre è di buon livello. Anzi, a volte è proprio pessima. Quindi è necessario che qualcuno le dia una bella sistemata. Perché in un futuro non troppo lontano troveranno anche il modo per reimpiantarli, e allora sì che il nostro lavoro, il tuo lavoro, caro Alec» aveva scandito con enfasi, «avrà fatto la differenza.»
Stava veramente facendo la differenza?
Terminati i convenevoli, Saunders riprese: «Siamo onorati che una persona eccezionale come sua madre abbia scelto noi per la rielaborazione dei propri ricordi. Le assicuro che faremo un ottimo lavoro.»
«Non ho alcun dubbio, signor Saunders» commentò Grossman. «Ho sentito parlare molto bene della vostra agenzia, di lei dottoressa Kimble e di lei, dottor Raines. E poi se mia madre ha deciso di affidarsi alla Keepsake di Londra e non alla filiale di New York, non posso che riporre in questa scelta la massima fiducia.»
Grossman era giunto dagli Stati Uniti con i ricordi della madre, un premio Nobel, e sembrava nutrire per Alec una profonda ammirazione. C’era nel suo sguardo un’aspettativa che raramente aveva trovato in altri clienti.
La cosa lo riempì di orgoglio.
Uscito dall’agenzia prese di corsa la metropolitana con i ricordi della signora Grossman nella giacca, tra un pacchetto di caramelle al miele, un fazzoletto usato e un biodrive.
Per la verità questa Alice Grossman non l’aveva mai sentita nominare. Non poteva certo ricordarsi di tutti i vincitori dei premi Nobel, tanto più se consegnati quando lui non era ancora nato. Ma da quanto aveva capito, se stava facendo quel lavoro, in parte era proprio grazie alla Grossman e questo generava in lui una certa eccitazione.
Quando il treno si infilò nella stazione di Kentish Town sentì lungo la spina dorsale la vibrazione del bioconnettore. La realtà aumentata gli restituì il volto di Julia.
Esitò un paio di secondi prima di rispondere, poi prese coraggio e schiarì la voce.
«Ciao Julia, stavo proprio per chiamarti.»
«Come no, sono tre giorni che mi eviti. Dimmi solo se stasera hai intenzione di farti vedere alla festa di Sandy» rispose lei in modo spiccio.
«Ah, Sandy… ma certo, a che ora ti passo a prendere?»
«Io sarò già là a darle una mano, mi raccomando non arrivare tardi, ti ho appena mandato l’indirizzo.»
«Sarò lì prima delle dieci, te lo prometto. A stasera.»
Sandy era la migliore amica di Julia e quella sera avrebbe festeggiato il venticinquesimo compleanno. Alec non amava le feste e ancora meno Sandy. La trovava una ragazzotta insignificante e dai modi sgarbati, probabilmente gelosa del suo rapporto con Julia. L’aveva vista una sola volta e gli era bastato.
Avrebbe senza dubbio preferito passare la serata con la dottoressa Grossman; per la prima volta sarebbe entrato nella testa di un premio Nobel. Si immaginò Alice a vent’anni, con i jeans a vita bassa come era di moda a inizio secolo. Al college era stata la classica secchiona o un genio capace di trovare il tempo anche per divertirsi? Be’, presto lo avrebbe scoperto.
La fermata a Highgate interruppe le sue fantasie. Un uomo di mezza età, chiuso in una giacca color cammello, lo stava fissando, ma quando Alec se ne accorse distolse subito lo sguardo.
Sceso dal treno, prese le scale mobili, uscì dalla stazione e si arrampicò lungo la scalinata che portava sulla Archway Road.
3.
Londra, il giorno dopo
La porta blindata color antracite si chiuse senza fare rumore. L’ingresso era un dedalo di scatoloni ed evitare con cura quegli ingombranti pezzi del suo passato era diventata un’arte che Alec Raines stava perfezionando ormai da diversi mesi, da quando aveva traslocato in quel loft in Causton Road. Ma ci avrebbe dovuto lavorare ancora un po’.
Inavvertitamente sfiorò infatti l’expander, attivando gli ologrammi che animarono la parete digitale e migliaia di sequenze iniziarono a sovrapporsi davanti ai suoi occhi, vomitate in rapida successione come un enorme puzzle tridimensionale in attesa di essere completato. I frammenti di un’intera vita aspettavano un suo intervento. Ci aveva iniziato a lavorare la settimana prima e ormai mancava poco. Aveva fatto il possibile per rendere la vita di Sam Foster degna di essere ricordata. Almeno dal punto di vista grafico e sensoriale.
Controllò l’ora: le quindici e dieci. Tre, massimo quattro ore, poi avrebbe spento l’expander e si sarebbe fatto una doccia. Doveva anche trovare il tempo per pensare a un regalo per Sandy.
Avrebbe pagato per non andare alla sua pallosa festa, ma questo Julia non glielo avrebbe mai perdonato. Chissà se anche Alice odiava le feste.
Sandy abitava a Highbury Fields. Alec ci arrivò con un mini cab.
C’era un bel viavai davanti alla casa, una villetta a schiera in stile neo vittoriano che trasudava a pieno volume All I want is u, lo stucchevole ultimo brano dei Plank.
«Ciao Sandy, auguri, queste sono per te.»
La ragazza accennò un sorriso mentre afferrò con le mani paffute il mazzo di rose fucsia cangianti. Piccoli miracoli delle nanotecnologie.
«Se cerchi Julia è in cucina, mi sta dando una mano con i cocktail.»
Attraversò la sala, evitando le noccioline sulla moquette e gli sguardi delle poche persone che ne avevano notato la presenza. Il bioconnettore era spento e comunque era difficile che qualcuno degli invitati fosse suo amico su LinkU.
«Ciao.»
«Ciao» rispose lei senza voltarsi.
«Bella festa!»
Julia non replicò e uscì dalla cucina senza staccare gli occhi dal grosso contenitore per cocktail che teneva in mano. Alec rimase per un po’ a fissare i magneti del frigo.
Aveva conosciuto Julia solo qualche settimana prima per un lavoro di editing ai ricordi di Ruben Moshe, un generale israeliano in pensione, l’eroe del raid di Arak.
«Questa volta si dovrà procedere in modo differente» gli aveva spiegato Saunders. «Non lavorerai a casa, ma direttamente nella sua residenza di Kensington. Ti recherai là già domani mattina, gli altri lavori possono aspettare qualche giorno.»
La casa di Moshe era sulla Abbotsbury Road, vicino a Holland Park. Una residenza di lusso, in mattoni scuri, resa meno austera da un’infinità di finestre bianche.
Alec si era sistemato la giacca prima di procedere all’identificazione visiva. Un rumore sordo e il cancello pedonale si era aperto. Aveva percorso con circospezione il sentiero costeggiato da rose, narcisi e giacinti che conduceva a un enorme portone bianco laccato.
Cercando in rete un’immagine recente del generale non aveva trovato niente di successivo al famoso raid. Dalle poche foto visionate appariva come un uomo robusto, con un taglio a spazzola tipicamente militare. Gli ricordava il Colonnello Spark, il protagonista della serie di fantascienza di cui aveva di recente curato parte degli effetti multisensoriali.
Era giunto con passo sempre più indeciso ai gradini d’ingresso, mentre la porta si stava aprendo.
Una bella ragazza dagli occhi scuri e con i capelli di un castano dorato raccolti con un nodo sulla nuca lo aveva accolto con un sorriso solare.
«Si accomodi, io sono Julia. Il signor Moshe la attende in sala.»
Alec aveva seguito la ragazza in un grande soggiorno dalle pareti porpora, arredato con molti oggetti di valore e in cui non sfigurava un pianoforte nero a coda.
L’uomo stava seduto su una poltrona, tra il camino e una macchina color panna che poco si intonava con il ricercato arredamento della casa. Portava ancora con orgoglio il taglio a spazzola, nonostante i capelli bianchi più radi.
Diversi tubi olografici, di un verde intenso, collegavano la macchina al braccio destro dell’anziano generale.
Moshe lo aveva squadrato con una rapida occhiata. «Venga avanti signor Raines. Porti pazienza, ma come vede le battaglie non finiscono mai e questa, mi creda, non dà molta gloria» aveva aggiunto alzando solo di poco il braccio, creando leggere interferenze tra i tubi.
«Il signor Moshe sta effettuando un ciclo di prototerapia, mi raccomando non lo affatichi» gli aveva sussurrato Julia. Alec aveva notato il badge con una piccola croce rossa vicino al nome Julia Harris. Il suo profumo, a base di agrumi e gelsomino notturno, Magdalene di Mario Mirov, era lo stesso della protagonista di Love in Bejing. Ci aveva passato più sere per renderlo al meglio con Onyric.
«Signor Raines, sono John Friedman dell’ambasciata israeliana e questo è il dottor David Schlonsky.»
Friedman aveva da poco superato la cinquantina e portava una folta barba brizzolata, ma Alec fu più colpito dalla forte stretta di mano. Quella di Schlonsky, invece, scivolò via rapida, un po’ sudata. Il viso rotondo era reso un po’ meno anonimo dalla montatura rossa degli occhiali. Difficile dargli un’età, ma avrebbe detto più vicino ai sessanta che ai cinquanta.
Ecco qua il Mossad, aveva pensato trattenendo un piccolo ghigno che si era trasformato presto in una smorfia di preoccupazione. Dopotutto, se lui poteva curiosare nelle menti di generali israeliani, come poteva essere certo che anche i servizi segreti di quel paese non fossero in grado di fare altrettanto?
Friedman aveva mostrato subito una certa impazienza.
«Direi che possiamo iniziare.»
La prima seduta non aveva svelato niente di particolare. Le uniche scene di azione erano state quelle legate all’addestramento di un reparto speciale. Niente che non gli sembrasse di avere già visto in molti film.
Poi aveva visionato alcuni incontri tra Moshe e altri uomini. Forse politici o membri dell’intelligence. Difficile a dirsi perché aveva dovuto lavorarci senza poter sentire l’audio. Ma aveva captato ogni tanto anche una leggera nota di Magdalene e la giornata era passata via abbastanza piacevolmente.
Si era recato tutti i giorni, per circa due settimane, in quella casa di mattoni a Kensington, visionando immagini, ascoltando i racconti di Moshe e bevendo il tè con i biscotti alle mandorle. Non aveva però mai avuto il coraggio di farsi avanti con Julia, fino a quando non era stata lei a prendere l’iniziativa.
«Alec, quando ho finito devo andare verso Tottenham. Tu vai in quella direzione, vero? Magari possiamo fare un pezzo di strada insieme.»
L’avrebbe accompagnata ovunque, ma Tottenham per iniziare poteva andare bene.
Sovrappensiero, Alec aveva riordinato i magneti del frigo in vari gruppi. Un po’ come se questi souvenir fossero dei ricordi da sistemare. Viaggi, animali, cibi, bevande.
Deformazione professionale.
Quando si accorse della presenza di Julia cercò in modo goffo di confondere la propria creazione, riuscendo solo a far cadere qualche magnete.
«Meglio che vada a bere qualcosa» bofonchiò agitando una calamita a forma di pinta di Guinness. Lei sorrise e lo accompagnò nell’altra stanza.
Verso l’una, approfittando di un momento di stanca, Alec e Julia salutarono Sandy e presero un taxi.
«Destinazione?» chiese la voce metallica del mini cab nero.
«Centonovantuno di Causton Road» rispose Alec, mantenendo un tono neutro e scandendo bene le parole.
«Trecentoventicinque sterline. Saremo a destinazione all’una e trentaquattro minuti. Prego confermare la transazione.»
Avvicinò l’occhio destro per la scansione della retina e attese il beep di conferma.
«Siete pregati di prendere corretta posizione sul sedile e di attivare la sicurezza.»
Il mini cab elettrico partì spedito verso la meta, attraversando in silenzio le strade residenziali e assonnate della città, con curve nervose e improvvise frenate.
4.
Erano rare le volte che Julia si fermava a dormire da Alec, ma il giorno dopo era sabato e aveva la mattina libera.
«Uova? Pane tostato?» chiese lui davanti al frigo aperto.
Julia si avvicinò da dietro, cingendogli affettuosamente la vita.
«Mmm, non è che hai anche del bacon?»
«Del bacon no, l’ho finito, ma se porti pazienza esco subito a prenderlo.»
«Ok, io intanto mi faccio una doccia.»
«Sarò di ritorno in un attimo» la rassicurò voltandosi e schioccandole un bacio a sorpresa. La strinse a sé ma lei lo respinse ridendo.
«Ho fame. Spicciati con il bacon.»
«Ai suoi ordini, maestà» scherzò lui con un mezzo inchino.
Infilò la camicia e preso nel ruolo di procacciatore di cibo, scese le scale di corsa. Così di corsa che quasi urtò un uomo davanti al portone. Non fece in tempo a girarsi per chiedere scusa che quello aveva già svoltato l’angolo. Non vi diede importanza, doveva portare a termine la missione bacon.
Quando ritornò Julia era ancora sotto la doccia. Estrasse la pancetta sintetica dalla confezione di bioplastica e la mise sulla piastra a induzione. In pochi secondi il profumo del bacon si diffuse per tutto il loft arrivando anche in bagno perché Julia sgattaiolò subito fuori infagottata in un accappatoio per lei troppo grande.
«A che ora devi essere al St Luis Hospital?» domandò Alec servendo le uova strapazzate.
«Inizio alle sedici, ma voglio passare prima a casa.»
«Quando ritorni da Moshe per il ciclo di prototerapia?»
«Ci dovrei andare giovedì.»
«Salutamelo.»
«Sicuramente, mi ha chiesto di te anche l’ultima volta che sono andata.»
Alec accennò un sorriso addentando una fetta di bacon croccante che poi accompagnò con un sorso di succo di arancia.
«Se vuoi possiamo pranzare da Bagel, è qui vicino e fanno degli ottimi sandwich. Prima però devo finire di sistemare un lavoro, così posso dedicare il pomeriggio ad Alice… intendo Alice Grossman, il premio Nobel» si corresse con un tono più serio.
Julia aveva sempre mostrato interesse per il lavoro di Alec. E lui si sentiva come un artista davanti a una tela, mentre gestiva tutte le immagini che gli si paravano davanti, sovrapponendosi e scomparendo in pochi attimi.
Dopo tutto l’aveva conosciuta proprio in quel modo, a casa di Moshe.
Julia restò per un po’ in disparte lasciando che Alec finisse il suo lavoro. Si sistemò sul divano osservando in silenzio tutto quel fluire di forme e colori che l’expander sparava fuori come una macchina per popcorn e che Alec distribuiva in vari spazi del suo loft, in un ordine che sarebbe stato incomprensibile a chiunque.
«Non mi hai mai spiegato bene come fai a capire e a lavorare su quelle immagini» gli disse a un certo punto con un tono fermo, strappandolo da una sorta di stato