Appuntamento col rivale: Harmony Destiny
Di Karen Booth
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Info su questo ebook
In questa famiglia il sospetto, l'avidità e la vendetta vengono serviti su piatti d'argento.
Per l'avvocato Isabel Blackwell è già abbastanza dura doversi confrontare con un caso ad alto rischio che coinvolge la famiglia Eden, e scoprire di dover affrontare l'uomo che le ha tolto il fiato in una notte molto speciale non le facilita il compito. Ma se in tribunale un avvocato civilista del calibro di Jeremy Sharp rappresenta un nemico giurato, sotto le lenzuola è tutta un'altra storia. Isabel e Jeremy non riescono a evitare di cadere di nuovo uno tra le braccia dell'altra, anche se questo può voler dire rischiare, per lei, di perdere la partita più importante di tutte.
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Anteprima del libro
Appuntamento col rivale - Karen Booth
successivo.
1
Isabel Blackwell aveva appena appoggiato la testa sul cuscino, quando scattò l'allarme dell'albergo. L'allarme antincendio.
Si sollevò e si sfilò la mascherina per dormire, mentre la sirena echeggiava per il corridoio.
Siamo alle solite, pensò, seccata e avvilita. Il lussuoso Baccarat Hotel di New York era la sua dimora da circa due settimane e quella era la quarta volta che scattava l'allarme antincendio. Era andata a letto presto, quella sera, perché provata da una giornata complicata. Suo fratello Sam l'aveva convinta ad accettare un incarico di cui lei avrebbe volentieri fatto a meno... un procedimento civile per salvare le sorti dei Grandi Magazzini Eden dalle pretese di un individuo con in mente una vendetta da compiere e in mano una cambiale vecchia di decenni. Abbastanza per perdere il sonno.
«Attenzione, prego» rimbombava il messaggio registrato dal sistema di amplificazione del corridoio. «I signori ospiti sono invitati a raggiungere in maniera ordinata la più vicina uscita di sicurezza. Non usate gli ascensori. Ripeto. Non usate gli ascensori. Grazie.»
«Non usate gli ascensori» ripeté Isabel con una voce da robot. Scostò le coperte, afferrò la vestaglia, infilò i piedi in un paio di ballerine di raso e uscì in corridoio, insieme agli altri ospiti dell'albergo.
Non erano ancora le dieci di sera ed era l'unica in pigiama. Tuttavia si rifiutava di sentirsi in imbarazzo, con quello che le era costato la seta rosa cipria della sua mise da notte. Inoltre, se c'era qualcuno a dover provare disagio, quella era la direzione dell'albergo che avrebbe dovuto effettuare controlli più accurati su tutta la struttura.
Seguì gli altri lungo le scale, attraversò la hall, passando accanto al capofattorino, il cui volto esprimeva un misto di disorientamento e mortificazione, e uscì per strada. I primi di dicembre non erano di certo il momento dell'anno più adatto per una sfilata in pigiama lungo i marciapiedi di Manhattan. Si augurava, pertanto, che il personale dell'albergo acquisisse finalmente gli strumenti necessari per comprendere se, ogni volta, si trattava o no di un vero incendio.
Il direttore comparve sulla porta girevole, l'aria concitata. «Vi chiedo scusa, signori. Ci stiamo adoperando affinché possiate rientrare al più presto nelle vostre camere.» Pescò da dentro la tasca dei pantaloni un mazzetto di coupon omaggio e cominciò a distribuirli fra i suoi ospiti. «Per scusarci, vogliate gradire un cocktail da noi offerto presso il bar dell'albergo.»
Isabel accettò l'invito. Non si diceva mai no a una bevuta gratis.
«E chi ne stava già sorseggiando uno e ha dovuto lasciarlo sul tavolino?» echeggiò una voce baritonale dietro di lei.
Isabel si voltò e restò a bocca aperta. Una visione. Un uomo di una bellezza stratosferica la fece dubitare che fosse sveglia e non, invece, addormentata e nel bel mezzo di un sogno meraviglioso. Era alto, prestante, mascella quadrata, penetranti occhi grigi, capelli sensualmente scomposti con un leggero sale e pepe alle tempie. Pura dinamite per Isabel, che aveva un debole per gli uomini dall'aria distinta. «Ha dovuto rinunciare a un drink?» ebbe la presenza di spirito di domandare. «Che peccato.»
L'uomo incrociò le braccia sul petto e rivolse lo sguardo verso la porta a vetri dell'albergo.
«Il barista mi aveva appena versato uno strepitoso Manhattan» dichiarò con aria sognante. «Che spreco.» Poi si concentrò su di lei, squadrandola da capo a piedi. Isabelle sentì il corpo incendiarsi. «Non ha freddo, così vestita?»
«No.» Lei scosse la testa. «In effetti, non so perché, ho un gran caldo.»
Un angolo della bocca di lui si incurvò in un sorriso divertito, e fu allora che lei si accorse che labbra strepitose quell'uomo avesse. Le tese la mano. «Piacere, Jeremy.»
«Piacere mio, Isabel.»
Chiuse le dita attorno alle sue e si sentì immediatamente come paralizzata. Neanche lui muoveva un muscolo. Erano entrambi immobili, in mezzo a una tempesta magnetica. Era da un bel po' che non aveva con un uomo quello scambio elettrico di sguardi e sensazioni, che non avvertiva quell'intesa chimica neppure per un istante o due. C'era sempre di mezzo il lavoro a rovinare tutto, motivo in più per detestarlo in particolar modo, ultimamente.
«Non mentivi» constatò lui, passando nella maniera più naturale possibile a darle del tu. «Sei calda. Come mai?»
Colpa tua!, avrebbe voluto gridargli, invece optò per un neutro: «Fortuna, credo».
«Signore e signori» annunciò il direttore dell'albergo, facendo di nuovo capolino da dietro la porta. «Falso allarme. Potete rientrare.»
«Puoi andare a recuperare il tuo Manhattan» osservò Isabel alla sua nuova conoscenza.
«Ti unisci a me? Detesto bere da solo.» La testa inclinata da un lato e le sopracciglia entrambe inarcate accompagnarono l'invito verbale.
Isabel si era già mentalmente preparata a tornare in camera e a infilarsi sotto le coperte, facendosi cullare dal pensiero di quell'uomo favoloso, prima che il sonno, si augurava, la vincesse completamente. «Come vedi, sono in pigiama.»
«E con la mascherina da notte.» Lui sollevò la mano e gliela sfilò dai capelli. «Funziona questa roba?»
Lei smosse la chioma e pensò, in fin dei conti, che fosse un buon segno se era stata invitata a bere qualcosa da un uomo, pur non offrendo l'immagine migliore di sé, in quel momento. «Diciamo di sì, una volta che ti ci sei abituato.»
«Non l'ho mai provata. Dovrei, forse, visto che non dormo granché bene, ultimamente.»
Isabel si morse la lingua, trattenendosi dal dirgli che avrebbe provato volentieri lei a farlo dormire come un angioletto. Gli sfilò la mascherina di mano e la ficcò nella tasca della vestaglia di seta. «Se per te va bene farti vedere in giro con una donna in tenuta da notte, accetto volentieri l'invito.»
«Potresti anche indossare un saio di iuta, ti inviterei lo stesso.» Si spostò lateralmente di un passo e, con un gesto ondeggiante della mano, la invitò a fare strada.
Non si poteva certo dire che quell'uomo non conoscesse le buone maniere. Si chiese se tutta quella carineria non fosse finalizzata a qualcos'altro. D'altronde, le era capitato spesso di imbattersi in uomini che si mostravano gentili con lei perché miravano solo a portarla a letto.
Si era trasferita a New York per cambiare aria e dare una svolta alla sua vita, occupandosi di materia legale un po' meno indigesta – come le adozioni, per esempio – e pensare, finalmente, un po' all'amore. A trentotto anni, sentiva la necessità di un cambiamento. Tuttavia, era sciocco giudicare Jeremy sulla base di qualche parola gentile pronunciata all'interno di una conversazione di un paio di minuti.
Isabel entrò insieme a lui nella hall dell'albergo e si diressero insieme verso l'angolo bar. Nonostante gli inviti distribuiti dal direttore, non c'era molta gente. I tavolini erano tutti vuoti. C'era solo qualche cliente appollaiato lungo il bancone di legno di mogano lucente. Era uno spazio elegante, sebbene lo stile fosse un po' datato, con un pavimento a scacchiera in bianco e nero ed enormi candelabri di cristallo che pendevano dal soffitto a cassettoni. «Dove hai lasciato il bicchiere?»
«Da quella parte.» Jeremy fece strada e Isabel colse l'occasione per osservarlo da dietro. Una visione pazzesca anche da quella prospettiva: spalle larghe, fisico asciutto. La giacca del completo blu scuro occultava il fondoschiena, ma immaginava fosse degno di nota anche quello.
Giunti a un tavolo in fondo alla sala, trovarono il bicchiere con accanto dei tovagliolini di carta usati che lui badò subito a rimuovere e gettare in un cestino portarifiuti lì accanto.
«Intuisco che hai mollato tutto e sei scappato» osservò. «È la prima notte in questo albergo? Perché io non prendo più sul serio la sirena antincendio. Il più delle volte si risolve in un nulla di fatto.»
«In realtà, non sono un ospite dell'albergo. Ero da queste parti per un appuntamento di lavoro. Vivo a Brooklyn e avevo pensato di fermarmi a bere qualcosa prima di rincasare.» Le rivolse un'occhiata languida. «E sono contento di averlo fatto.»
Isabel sapeva che a quel punto avrebbe dovuto chiedergli che lavoro facesse, poi, però le sarebbe toccato quasi sicuramente rispondere a una domanda simile sul proprio, e non ne aveva affatto voglia. No, l'ultima cosa che desiderava era parlare del suo lavoro di avvocato, una professione che aveva un tempo tanto amato, ma che si era via via tramutata in un incubo. Altro motivo per cui aveva lasciato Washington. Negli anni si era trasformata da avvocato a una specie di risolutore di grane politiche, con l'incarico di ripulire il buon nome di una moltitudine di gente potente. Era molto brava in quello. Decisamente la numero uno. Solo che non ne poteva più di quell'ambiente, di quello stile di vita frenetico.
«Che cosa vuoi bere?» le domandò Jeremy, scostandole la sedia.
Isabel prese posto sulla soffice imbottitura in velluto bianco e nero. «Un gin tonic con scorzetta di limone.» Infilò la mano in tasca ed estrasse il coupon omaggio per darlo a Jeremy.
«Conservalo per un'altra occasione. Ti ho invitata io. Pago io.»
Ancora una volta, si confermava il gentiluomo che aveva intravisto prima. Meno male. Si era quasi rassegnata a pensare, ultimamente, che certe carinerie da parte di un uomo fossero roba d'altri tempi. «Grazie.»
Con un gesto della mano, Jeremy attirò l'attenzione di un cameriere che, nel giro di qualche minuto, tornò con l'ordinazione di Isabel. Poi prese posto anche lui, invadendo lo spazio circostante del suo profumo, un aroma muschiato misto a una nota agrumata che le evocava immagini di un romantico fuoco scoppiettante. «Parlami di te. Di che cosa ti occupi?»
Doveva prendere una decisione e farlo in fretta. Aveva due alternative: o rispondere alla domanda, avviando la conversazione di routine che un uomo e una donna mettevano in atto per conoscersi, oppure virare in tutt'altra direzione. Trasferirsi a New York doveva significare una ventata d'aria fresca per Isabel, pertanto non intendeva discostarsi da quel buon proposito. Non sarebbe ricaduta nel solito cliché della prima conoscenza. Avrebbe sperimentato strade nuove.
Allungò un braccio e appoggiò la mano su quella di Jeremy, che era a sua volta appiattita sul tavolo. «Io opto per non parlare né di lavoro, né di scuole frequentate, tantomeno di ex fidanzati e di persone che conosciamo.»
Lo sguardo di Jeremy si accese di una luce incuriosita. «Va bene. Di che cosa vogliamo parlare?»
Isabel mescolò il suo drink, senza staccare la mano da sopra la sua. Le piaceva quella familiarità complice che avevano subito instaurato, come se si conoscessero da tempo.
«Non saprei. Che ne dici di un po' di brutale sincerità tra estranei?»
Lui rise e ruotò la mano. Intrecciò le dita alle sue. Come quel semplice gesto potesse trasmetterle così tanto, Isabel non lo sapeva, eppure sentì l'eccitazione montarle dentro con una tale forza che minacciava di schizzare fuori come il tappo di una bottiglia di champagne. Era come se il suo corpo fosse andato in letargo per diverso tempo e a un tratto si risvegliasse.
«Un po' come giocare a... Obbligo o Verità?» domandò lui, divertito.
Isabel deglutì, però si sforzò di apparire imperturbabile. «Si risponde a una domanda dicendo la verità, altrimenti si paga pegno... sì. Solo che non so se poi me