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Un'Estate Senza Fine
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E-book224 pagine5 ore

Un'Estate Senza Fine

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Info su questo ebook

Luka è il ragazzo ideale. Abbronzato, muscoloso e incredibilmente sexy. Con quel sorriso che riesce a farmi sciogliere come le note di Sinatra. Inoltre, il nostro accordo è perfetto: non affezionarsi. Non essere gelosi. 

Qualsiasi cosa accadrà, bisognerà accettarlo.


Adesso sono di nuovo nel suo resort a Kona, ci vado sempre in vacanza. Soltanto che al momento sono disoccupata e spaventata… sto cominciando a capire quanto sia difficile resistergli. Anche quando dovrei stare con qualcun altro.

La nostra non è mai stata una relazione seria, quindi perché è così difficile dirgli che la nostra storia deve finire?

LinguaItaliano
Data di uscita7 nov 2020
ISBN9781071574119
Un'Estate Senza Fine

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    Anteprima del libro

    Un'Estate Senza Fine - Piper Lennox

    Per il re degli obblighi idioti

    There now - steady, love

    So few come and don't go

    Will you, won't you

    Be the one I'll always know

    When I’m losing my control

    And the city spins around

    You’re the only one who knows

    You slow it down...

    The Fray, Look After You

    Capitolo Uno

    Luka

    Oggi mi sono aggiudicato il nostro affiliato più elusivo.

    Aggiungerò l’otto per cento in più ai nostri futuri guadagni, se tutto andrà secondo il piano.

    Indosso il mio completo preferito e una squadra di dirigenti è pronta a fare la fila per stringermi la mano.  E non ho ancora preso il caffè del mattino.

    Allora perchè non fai altro che pensare al suo programma di volo?

    «...mai visto numeri del genere per un nuovo dirigente. È davvero notevole.»  Parker mi dà una pacca sulla spalla. «La dirigenza sta dando di matto.»

    Mi allontano gentilmente dalla sala riunioni. Lui mi segue. «Sono soltanto proiezioni. Niente per cui valga la pena di scaldarsi troppo.»

    «Il partner lo è.»

    Non posso aggiungere altro. È da più di un anno che cerchiamo di ottenere la gestione dell’affitto dei Segway sull’isola di Kona con la nostra Kona Segway Rentals and Tours che la gente del posto chiama semplicemente Kona Seg

    «Sono influente solo grazie a mio padre.  I Kalani sono suoi amici.»

    «Non dovresti sottovalutarti, amico.» Mi porge il pugno e gli do un colpetto.

    Non appena il cellulare vibra in tasca mi scuso e mi dirigo verso l’ascensore. Deve essere lei. 

    Invece no, è una email dell’azienda che al posto di ringraziarmi per l’aumento del reddito futuro e del nuovo affiliato mi suggerisce un potenziale prossimo partner con cui fare affari.

    Non finirà mai.

    La cerco sui social, anche se sono consapevole che sia soltanto uno spreco di tempo. Non ha postato nulla di nuovo dall’ultima volta che è stata qui.

    È ancora la sua foto profilo: lo scatto che le ho fatto sulla scogliera a South Point, l’ultimo giorno del suo viaggio. C’era un vento pazzesco che le annodava i capelli e glieli spostava dal viso mentre rideva, mezza impaurita ma stupefatta di fronte all’oceano splendente sotto di noi. 

    «Potremmo cadere!» aveva urlato con tono felice.

    «O saltare,» l’avevo provocata, proprio nell’istante in cui avevo scattato la foto, ottenendo quell’espressione: lei che rideva alle mie battute, anche se a volte non sapeva se scherzassi o meno.  Ci lanciavamo sempre sfide selvagge per vedere chi fosse il più coraggioso o, alcune volte, il più stupido.

    L’ascensore si apre al pianterreno, dove si trovano gli impiegati, i dirigenti stanno ai piani superiori e il personale domestico si muove discretamente da un reparto all’altro. Abbiamo tutti lo stesso compito: rimanere lontano da occhi indiscreti per quanto possibile e sorridere quando si incrocia un cliente. Bisogna servire e mantenere l’illusione.

    Questo non è il posto più felice sulla terra, ma ci siamo vicini.

    «Sempre in guardia.»

    Mi allontano per dirigermi verso la cucina principale, i camerieri si stanno già adoperando per il pranzo, ancora reduci dal brunch. Il nostro ristorante ha un menù fisso, anche se i dipendenti si danno da fare tutto il giorno. Fa parte della vacanza perfetta, dopotutto... cibo fantastico, a prescindere da quanto ti senti a terra.

    È doppiamente vero per i drink, quindi non sono nemmeno turbato quando P.J. e Jake, presi dal panico, si mettono in mezzo prima che io possa arrivare al bancone.

    «Siamo senza tequila,» esordisce Jake mordendosi il labbro superiore in attesa di una soluzione. Quando l’ho nominato capo barman al posto di mio fratello, gli ho fatto un discorso di due ore spiegandogli che avrebbe dovuto gestire i problemi del bar. 

    Sembra una stronzata ma non ho davvero tempo per occuparmene.

    Tuttavia, sono passati quasi due anni e mi preoccupo ancora di ogni problema che mi presenta, quindi è in parte colpa mia. Il bar è stato il primo progetto che ho realizzato per dimostrare all’azienda e a mio padre che avrei potuto cavarmela, di conseguenza è difficile andare via.

    «Qual è il drink del giorno?» chiedo.

    «Era il Melon Margarita, ma adesso non possiamo più proporlo.»

    Guardo l’orologio. «P.J., va’ a vedere se Seaside ci lascia acquistare una cassa o due della loro riserva, giusto per arrivare fino alla prossima consegna. Ecco qui.» Gli porgo le chiavi del furgone e una mazzetta da venti. Mi saluta, fa dietrofront e se ne va.

    Jake si sciuga il sudore dalla fronte.  «Due casse non basteranno per questa sera.»

    «Basteranno se cambieremo il drink del giorno in qualcosa che non contenga tequila.» Lo oltrepasso e mi dirigo al deposito degli alcolici. «Di che cosa siamo più forniti?»

    «Vodka.»

    Quando apro la porta di metallo mi ritrovo davanti scaffali e scaffali di vodka.  «Vedo che non manca nemmeno il succo d’ananas, inventati qualcosa.»

    Avrei anche potuto dirgli esattamente quale cocktail realizzare, ma non voglio limitarlo poiché so che cosa voglia dire non soddisfare le aspettative altrui.

    «Non appena ti inventerai qualcosa, scrivilo ovunque.  Di’ a tutti di promuovere il nuovo drink,»  gli dico mentre attraverso la cucina. All’improvviso, mi fermo e schiocco le dita. «Rendilo grandioso.»

    «Che cosa, la promo o il cocktail?»

    «Entrambi.» Indico lo scaffale con le coppe che di solito usiamo per i cocktail a base di frutta, spesso condivisi da coppie o amici, altre volte ordinati da clienti per la vanagloria dei social. Non so come funzioni.

    Una volta fuori, finalmente, mi rilasso, ma non dura molto.

    «Luka, eccoti.» Iona sembra quasi sul punto di piangere, cosa che accade spesso. È molto sensibile e questo la rende la migliore responsabile della guest experience.  In altre parole è un concierge per domarli tutti.

    «Il computer del check-in è fuori uso.»

    «Il computer,» ripeto mentre mi dirigo nella direzione opposta a quella dove volevo andare, «o il sistema?»

    «Ehm...» Distoglie lo sguardo dal cellulare e scrolla le spalle. «Ace dice che è il computer.»

    «Hai chiamato l’ufficio IT?»

    «Non arriveranno prima delle due.  Tutti i loro suggerimenti sono stati vani.»

    «Prendi.» Tiro fuori una chiave dalla tasca e gliela porgo. «Fatti aiutare da Ace a prenderne uno dal Centro Congressi, poi richiama l’ufficio IT per far avviare il sistema sul nuovo computer.  Sono certo che possono farlo da remoto. E di’ a Parker di ordinare due nuove configurazioni, per amor del cielo. È ridicolo che ne abbiamo soltanto una.»

    «Grazie.» Sospira con gratitudine e poi si dirige alla reception. Mi accorgo che Ace, il nostro receptionist, sta già controllando se nostri clienti sono registrati nel Sistema di emergenza su un vecchio tablet dove sono memorizzati i dati più rudimentali.  Faccio una pausa per salutare alcuni ospiti, stringo loro la mano e gli do il benvenuto al Paradise Port.

    Dio, odio quel nome.

    È l’unica cosa del franchising che non mi va a genio e ho insistito affinché lo cambiassero, ma non ci sono riuscito. L’ho capito... Paradise Port è il franchising. Sono in affari dal 1980, hanno costruito resort in zone tropicali o abbastanza calde. Oggi le persone riconoscono quel nome come un marchio di prestigio.

    Tecnicamente il nostro resort si chiama Paradise Port: Kona. Pensavo che Port Kona suonasse bene fino a quando non mi hanno detto che se proprio dovevo accorciare il nome, bastava eliminare la parola Kona.

    La cosa importante qui è il Paradiso, dopotutto.  Non servono altri dettagli.

    «Luka, una delle navette si è rotta. Credo si sia surriscaldato il motore.» Quei piccoli intoppi mi travolgono non appena esco dalla reception.

    Chiudo gli occhi, sospiro e ricordo a Stefan di chiamare il meccanico. «E abbiamo le altre due navette, giusto? Possiamo usarne una per prendere e lasciare gli ospiti in aeroporto e l’altra per i tour. Sarà tutto un po’ più lento ma di certo non ci fermeremo.»

    Mi ringrazia e sparisce nell’edificio. Mi prendo questo breve momento di solitudine per dirigermi verso la strada secondaria, sbottonare la giacca e avvolgerla attorno al braccio mentre mi allontano, prima che qualcun altro possa fermarmi.

    I programmi per la giornata mi ronzano in testa. Arrivare a casa, pranzare, bere abbastanza caffè senza preoccuparmi che la notte prima non abbia chiuso occhio, e poi di nuovo in ufficio, con una lista infinita di cose da fare.

    Mi fermo a metà strada, diretto a casa dei miei genitori. Attraverso gli alberi, mentre il vento sposta le fronde, vedo l’acqua. La luce del sole cattura un’onda che si dirige all’orizzonte. Davvero un bel panorama.

    Non riesco a fare a meno di pensare a Noe.

    «Non puoi averne paura,» mi aveva detto il giorno in cui ero stato preso a calci in culo da un’onda e avevo vomitato acqua di mare. «Ogni volta che hai paura, esiti e ti tiri indietro. E quando indietreggi, rallenti. E...»

    «E quando rallento,» avevo detto risalendo sulla tavola, «l’onda ha il tempo di cambiare.  Lo so.»

    «Ascolta, sto cercando di aiutarti. Uscire dalla curva dell’onda in tempo era difficile anche per me quando avevo la tua età.» 

    «Anche per me,» aveva aggiunto Kai. «Beh, a dire il vero ero un po’ più giovane di te quando imparai a cavalcare le onde.  Ma a chi importa?»

    Con il palmo della mano tirai un po’ di acqua nella sua direzione e scoppiammo a ridere. I raggi del sole colorarono le nostre teste di arancione e presto Noe sarebbe stato chiamato a riva per iniziare il suo turno al rifugio. Io e Kai saremmo rientrati, lui di solito cavalcava un’ultima onda prima di andare a lavoro. Avrei sfidato il destino rimanendo ancora un’ora, forse due, scivolando sull’acqua. Nell’attesa di vedere se qualcuno avrebbe notato la mia assenza.

    D’altronde ero un ragazzino. Era ovvio che non volessi lavorare.

    Adesso, mentre noto frammenti di spiaggia fra gli alberi, mi accorgo di due surfer al centro di un’onda. Se chiude velocemente su entrambe le estremità, non riusciranno a farcela.

    Ho quasi ragione... uno non ci riesce mentre l’altro arriva dritto alla fine. La curva gli si chiude di fronte come un nastro, dietro di lui c’è solo schiuma.

    All’ultimo secondo riesce a girare la tavola nell’angolazione giusta e poi si accovaccia e si ferma per dare il cinque al suo amico.

    Cammino senza guardare l’asfalto irregolare e perdo quasi l’equilibrio. Mi raddrizzo per non cadere e attraverso la strada, lontano dagli alberi. Lontano dalla spiaggia. Oggi non ho tempo di surfare.

    Non vado lì fuori da... Dio, da Natale. Le mie rash guards sono in fondo all’armadio e non so nemmeno dove possa essere il costume da bagno.

    Prometto a me stesso che ci andrò domani e che questo sarà il premio per il nuovo contratto. Spegnerò il telefono o, meglio ancora, lo lascerò a casa.

    Adesso che ci penso, controllo il cellulare e vedo che non ci sono ancora suoi messaggi.

    Apro l’applicazione dei messaggi e cerco il suo nome. Il vento soffia forte mentre scrivo e anche se non sto deliberatamente guardando lo schermo, le mie dita si muovono senza che io le controlli.

    Ehi, sono io. Sei al mare?

    Bene... è un modo per chiederle il tempo stimato d’arrivo e farle notare che in effetti è in ritardo senza risultare appiccicoso o esigente.  Non è nel mio stile.

    Quando sono arrivato a casa, lei non aveva ancora risposto. Metto il telefono in modalità silenziosa mentre mangio, e mi prometto di non controllare fino a quando non avrò finito.

    Tanya

    Se mai esistesse un uomo perfetto, quello sarebbe Luka.

    Per prima cosa, dove si trova... le Hawaii sono il posto che preferisco per andare in vacanza, da quando ci sono stata con i miei amici dopo la laurea. È diventata una tradizione personale.

    Secondo... è incredibilmente sexy. Alto e abbronzato, atletico, con il tipico viso che ti fa capire che doveva essere davvero un bambino carino e che si è trasformato completamente quando ha raggiunto la maggiore età. Quando sorride la sua bocca si incurva sempre con un’aria da furbetto. Si passa spesso le mani fra i capelli e non mi stanco mai di guardarlo.

    Terzo... è incredibile a letto. Quell’uomo riesce a farti avere un orgasmo in pochi minuti usando solo la punta delle dita. Può attirarti in modo pericoloso a sé soltanto dichiarando, con la voce più suadente, quello che ti farà una volta finita la cena. 

    E quarto, cosa non meno importante delle altre, vuole esattamente quello che voglio io, niente di più e niente di meno.

    Il primo anno che siamo stati insieme ci siamo dati delle regole. Non affezionarsi e non essere gelosi.

    Qualsiasi cosa accada, le regole non vanno infrante.

    Ci siamo anche stretti la mano. 

    La nostra prima notte insieme mi aveva mandato un messaggio chiedendomi di prendere qualcosa da bere insieme con lui.  Era la mia ultima notte a Kona.

    «La tua amica è andata via?»

    Annuii con aria triste sorseggiando il cocktail che lui aveva ordinato per me. Era davvero tardi, il bar stava per chiudere e non c’era quasi più nessuno al bancone. Erano tutti ubriachi e felici nelle loro camere, oppure passeggiavano in spiaggia. «Andrò a trovarla e lei farà lo stesso, quindi non è poi così grave. Mi mancherà, siamo state coinquiline per due anni e amiche del cuore dal college.»

    «Oh, dovevi essere una coinquilina terribile.»

    Scoppiai a ridere e gli diedi un calcio rischiando di cadere dallo sgabello.  Quando mi afferrò per un gomito, vidi per la prima volta quel suo sorriso sghembo e capii subito che la mia ultima notte alle Hawaii sarebbe stata indimenticabile.

    «Come puoi pensarlo?»

    Luka mi osservò sorseggiare il mio cocktail prima di finire il suo gin. Lo bevve in un sorso. 

    «Scommetto che ho ragione, ascolti musica ad alto volume ogni volta che sei giù di morale. E quando sei felice qualcosa di estremo. Scommetto che prendi nozioni a caso su come ridipingere una stanza senza chiederlo a nessuno, oppure che cucini piatti elaborati mettendo a soqquadro tutta la cucina.»

    «Molto divertente. Per caso Mollie lo ha detto a Kai che lo ha detto a te?»

    «Sono bravo a leggere le persone. Mio fratello non ha fatto nulla se non darmi il tuo numero.»

    Prese lo stuzzicadenti con la ciliegia dal suo bicchiere e poi me lo passò. Mi avvicinai e aprii la bocca, permettendogli di infilare il frutto nella mia bocca.

    «Gli hai chiesto il mio numero?» Alzai un sopracciglio masticando la ciliegia, assaporando il gusto molto dolce seguito dall’amarezza del gin.

    Luka allentò la cravatta. «Sì. Quando ti ho visto con quel bikini rosso... non sono riuscito a toglierti dalla testa.»

    Non perdemmo tempo, forse per il modo in cui eravamo fatti, oppure perché le cose dovettero andare semplicemente così, o

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