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E-book202 pagine2 ore

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Info su questo ebook

Glen e Mia si conoscono in giovane età e tra loro si instaura un rapporto speciale. Trascorrono cinque anni insieme in quel di Bangstate affrontando situazioni difficili ma anche momenti unici e irripetibili; Poi il bivio della vita. Mia vince un concorso e dopo un duro addestramento diventa poliziotta. Glen, invece, dopo aver scoperto alcune verità sulla morte del padre, avvenuta molti anni prima,intraprende la strada malavitosa della sua città nativa, in cerca di vendetta. Due strade che il destino ricongiungerà qualche anno dopo, in circostanze strane e inaspettate.
LinguaItaliano
Data di uscita16 nov 2020
ISBN9791220303545
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    Anteprima del libro

    Vieni con me - Alfredo Di Gregorio

    info@youcanprint.it

    Bangstate, 2002

    Entrai al Bill State in compagnia di alcuni amici. Eravamo rimasti incuriositi dai manifesti che, nei giorni precedenti, erano stati appesi sui muri di tutta Bangstate, pubblicizzando la serata. Ne rimasi deluso, la trascorsi tra qualche cocktail di troppo e false risate che ammazzarono il tempo. Osservavo le cubiste che cercavano in qualsiasi modo di farsi guardare, e non solo. Seguivano il ritmo di una musica ad alto volume, a tratti assordante. Man mano che muovevano i loro formosi fondoschiena, i ragazzi infilavano una banconota dopo l’altra nei loro reggiseni. Se non fosse stato per quella ragazza che poco dopo mezzanotte si sentì male, forse, dopo aver bevuto qualcosa di troppo, quella serata probabilmente l’avrei messa nel dimenticatoio. Mentre sorseggiavo il cocktail che avevo ordinato poco prima, la notai all’angolo del locale, tra luci abbaglianti di diversi colori. Si guardava intorno reggendosi il capo come se le potesse cadere a momenti. Non sapevo in compagnia di chi fosse, ma di chiunque si trattasse, non la stava aiutando. Non so esattamente perché, ma lo feci io. Mia aveva da poco compiuto diciott’anni, almeno così sosteneva a voce alta mentre cercavo di farla salire nella Toyota grigia di mia madre. Forse voleva in qualche modo giustificarsi per tutto l’alcool ingerito. Non appena giungemmo all’esterno, notai il suo tremore, così pensai di chiamare qualcuno e aspettare il suo arrivo in macchina.

    «Sta tranquilla, adesso chiamo qualcuno per farti venire a prendere, ok?» mormorai.

    Continuava a ripetere: «Mi chiamo Mia, mi chiamo Mia…»

    Non ero del tutto convinto si chiamasse così, versava in condizioni pietose. Era vero il detto in vino veritas, però era comunque in condizioni pessime. Sentivo l’odore dell’alcool, non della verità. Ma non mi importava, stavo facendo solo un bel gesto nei confronti di una ragazza in difficoltà. Notai la semplicità del suo viso, la sua bellezza. I capelli castani, sciolti, le scivolavano poco oltre l’estremità della felpa rossa che indossava; mi guardò e sorrise. Mi aveva colpito ma razionalizzai, davanti a me avevo soltanto una ragazza ubriaca fradicia, nulla di più. Presi il suo cellulare, cercai in rubrica la voce papà, e avviai la chiamata.

    Per qualche istante un brivido mi travolse per intero, pensai al mio.

    «Pronto, Mia?»

    Oltre a farmi ritornare alla realtà, le parole dell’uomo mi confermarono che si chiamasse Mia. Impiegai poco meno di un minuto per spiegare tutta la situazione a David. L’uomo fu molto gentile, ci raggiunse in meno di dieci minuti e dopo aver fatto salire Mia nella sua macchina, mi ringraziò infinitamente più volte.

    «Di nulla!» risposi sorridendo, quasi dispiaciuto che la stesse portando via.

    Il modo in cui aveva spinto la figlia nell’auto mi aveva leggermente infastidito, ma chi li avrebbe visti più? Alzai le spalle mentre l’auto di David scorreva via veloce dalla mia vista. Chissà quante prediche si sarebbe beccata una volta arrivata a casa, o la mattina successiva. Quella sera andai a dormire orgoglioso per il gesto compiuto, ignaro che avrebbe cambiato per sempre la mia vita. Io che aspettavo il Big Bang o una vincita all’enalotto o una rapina e un bottino da due milioni di dollari, mi ritrovai disteso sul mio letto a pensare a quella ragazza e ai pochi minuti che avevo trascorso con lei. Tirai le coperte in su, riparandomi dai soliti brividi di freddo notturni. Allungai la mano e presi il telecomando, senza neanche guardarla accesi la TV, godendomi la scia di luce che mi consegnava ogni sera prima di addormentarmi. Mio padre osservava il tutto dalla foto che avevo accanto, sul comodino. Qualsiasi fosse stata la mia posizione nella stanza, il suo sguardo era rivolto sempre verso me.

    «Che ne pensi?» mormorai.

    Mi girai dall’altro lato, aspettando che il sonno si prendesse cura di me e di tutte le risposte che cercavo.

    Bangstate, 2010

    Tra il posteriore della Mercedes che guidavo e il muso della Giulia dei carabinieri rimaneva poco più di tre metri. Eravamo sui centotrenta chilometri orari, e quei bastardi non mollavano un centimetro. Per fortuna Bryan arrivò in mio soccorso. Vidi i fari di una terza macchina dietro l’Alfa che mi stava inseguendo, mi bastò vedere la forma appuntita dei fendinebbia per capire che si trattava della Porsche che il mio collega aveva in consegna. Tese il braccio sinistro all’esterno del finestrino e sparò due colpi alle gomme della Giulia. Attraverso lo specchietto retrovisore vidi l’auto gazzella andare prima verso destra poi verso sinistra, infine non la scorsi più. Doveva essersi scontrata con qualche muretto, spettatore non pagante della corsa. Le mie labbra formarono un sorriso. Qualche istante dopo, i fari che mi abbagliavano facendo segno di fermarmi erano quelli della Porsche di Bryan, accostai.

    «Tutto ok, Glen?»

    Sembrava tranquillissimo, mi aveva aperto la portiera della macchina come fanno i gentiluomini con le proprie mogli. Non solo con quest’ultime, di solito.

    «Sì, grazie Bryan.»

    Sorrise anche lui. Quando si trattava di sfuggire agli inseguimenti era il migliore, dopo di me, ovviamente. Risalimmo in macchina e decidemmo di fermarci a mangiare qualcosa in qualche locale e sicuramente, visto com’erano andate le cose, il conto avrei dovuto pagarlo io. Era il minimo che potessi fare. Facevamo sempre così, lavorando e rischiando insieme, chi veniva salvato dall’altro doveva offrire. Non era affatto un problema, anche se di problemi seri ne avevamo tanti, ma a differenza del passato, quelli economici non ci riguardavano, non più. Il locale dove sostammo a mangiare era distante un paio di chilometri dall’incidente che avevamo causato poco prima, non ci preoccupammo della poca distanza tra noi e i soccorritori appena arrivati. Quando subentrava la polizia coprivamo i nostri volti per ogni evenienza: se il tuo viso lo vede un assassino è rischioso, se lo vede un poliziotto è un problema. La Mercedes e la Porsche che avevamo usato erano ben nascoste nel parcheggio del locale. Avremmo aspettato lì qualche ora, non appena si fosse calmata la situazione, avremmo percorso qualche altro chilometro e dato fuoco a due delle macchine di Steven Mox, il nostro capo. Ci teneva particolarmente alla dozzina di macchine che aveva, ma ce lo ripeteva quasi ogni giorno: «Se rischiate di farvi arrestare, fatele sparire.»

    Di lavori del genere ne avevamo già fatti una decina e mai avevamo finito per doverle bruciare, ma stavolta era diverso, e poi Steven non avrebbe avuto nessun problema a comprare altre due macchine, nel caso in cui gliene fossero servite dodici e non dieci. Si trattava di lavori sporchi come portare e consegnare droga o intimidire qualche debitore convinto di farla franca, in qualsiasi modo, anche il più crudele. Nulla di legale, insomma, ma la paga era davvero incredibile. Non era la vita che avevo sognato fin da bambino, questo era sicuro, ma dovetti adattarmi. E poi, se il mio piano fosse andato a buon fine, quella sarebbe stata solo una breve parentesi della mia esistenza, seppur fondamentale. Quella fu la prima volta che un debitore aveva avvertito la polizia, mi avevano inseguito per più di sei chilometri fino all’arrivo di Bryan. Per un momento mi dispiacque quasi per quei due agenti, ma non doveva essere così grave la situazione, se la sarebbero cavata con qualche frattura, almeno questo credevo. Entrammo nel ristorante, dribblammo i tavoli presenti, molto vicini tra loro. C’era rimasto un solo tavolo libero, ciò significava che avevamo scelto il posto giusto.

    «Glen, ne usciremo mai?»

    «Puoi sempre tirarti indietro, questo lo sai Bryan» risposi.

    «Tirarmi indietro?» rise solo al pensiero.

    «Finirà presto» replicai.

    «Spero non siano morti» sospirò, riferendosi agli agenti che mi avevano inseguito.

    «Se lo sono, lo sapremo presto; ma non credo.»

    Ordinai un chicken tikka masala, in onore dei bei tempi. Bryan andò sul classico e ordinò un kebab senza salse. La cameriera si allontanò dal nostro tavolo stringendo foglio e penna tra le mani, sculettando in maniera vistosa. Rubò per qualche secondo la mia attenzione, poi Bryan mi riprese.

    «Se glielo guardi un altro po’, si scioglie!»

    Brillington, 2010

    Sarebbe stata in debito con Peter Milligan per il resto della sua vita. Dopo due lunghi e intensi anni trascorsi a Dalford, dove dopo il duro addestramento aveva iniziato ufficialmente la sua carriera da poliziotta, era riuscita a ottenere il tanto desiderato trasferimento. Fin da subito il generale aveva intuito lo stato d’animo di Mia, ma al contempo era stato chiaro: «Dovrai lavorare e sudare un bel po’ qui a Dalford, prima di ottenere un eventuale trasferimento nei paraggi di Bangstate» le aveva confidato.

    Due anni trascorsi tra l’euforia di una nuova autonomia economica e la nostalgia della città che l’aveva vista nascere e crescere. A Bangstate erano collegati i ricordi più importanti, non solo la sua adolescenza. I suoi sfortunati genitori, i suoi amici e il suo grande amore, Glen. Capì che avrebbe potuto girare il mondo intero in cerca di un posto migliore per se stessa, senza mai trovarlo. Lì dove il destino imposta le tue radici è dove vorrai sempre tornare, e se non potrai farlo fisicamente, lo farai con la mente. Scese dal treno che l’aveva condotta a Brillington, la portiera si chiuse alle sue spalle mentre uno dei controllori fischiò, preannunciando l’imminente ripartenza. Si scontrò con l’aria inconfondibile della città, dominata dal caos ma anche dal suo cuore. Il treno ripartì e alle spalle di Mia rimasero solo i binari bollenti e frementi per l’arrivo del prossimo convoglio. Rimase lì ferma per quasi un minuto.

    Gli alti palazzi, pieni di uffici, accoglievano i turisti esattamente come due anni prima. La stazione era sempre affollata, anziani che chiedevano informazioni ai giovani per capire come timbrare il biglietto, bambini che nella piazza a fianco godevano dell’età più bella, calciando un pallone. Genitori che portavano i figli per mano, diretti chissà dove. I soliti barboni, forse qualcuno in meno rispetto a due anni prima, distesi in terra a supplicare i passanti per una dannata moneta. Tra i taxi presenti all’uscita della stazione, scelse il primo che le capitò.

    «Bangstate, grazie» sussurrò all’autista.

    Tirò con sé le due valigie all’interno dell’auto e partirono. L’attesa fu più breve del previsto. Mia ringraziò il caso che volle poco traffico in quella fascia oraria. Porse venti dollari al tassista e sgusciò via come una bambina in fuga da un rapitore inesperto. Inserì la chiave nella vecchia serratura, la spinse prima di girarla, il suo cuore accelerò i battiti.

    «Di nuovo a casa» sussurrò a se stessa.

    Fece un profondo respiro e chiuse gli occhi. Ce l’aveva fatta, i suoi sacrifici erano stati premiati e i suoi sogni erano più vicini. Si guardò intorno e pensò che l’abitazione avesse bisogno di una ripulita. Il suo stomaco però iniziava a emettere brontolii, sperando invano in una cena anticipata.

    Ma prima… prima doveva raggiungere la nuova centrale. La caserma di Brillington, dove avrebbe iniziato il suo nuovo servizio. Al ritorno avrebbe comprato qualcosa da mangiare. Milligan era stato chiaro, la prima cosa che doveva fare non appena fosse giunta a destinazione, era presentarsi ai nuovi colleghi e al suo nuovo ispettore. La voce dell’esperto generale risuonò nella sua testa più volte. Aprì il cassetto del mobile di legno antico nel salone e raccolse le chiavi del garage, soffiò sopra queste ultime, consegnando lo strato di polvere alla mensola dell’arredo. Il portachiavi la riportò a molti anni prima, quando suo padre le aveva regalato quella ballerina d’argento che pochi giorni dopo fu incastrata proprio alle chiavi della rimessa. Sorrise, poi uscì a rimettere in moto la vecchia Mustang Gt. Dopo qualche giro a vuoto del motore, il rombo dell’auto risuonò più volte, prima di riassaporare l’aria esterna e concederle una densa e grigia scia di fumo. Arrivò a destinazione in poco meno di mezz’ora, bussò alla porta della sua nuova caserma. Un agente aprì pochi istanti dopo, le sorrise pregando in silenzio che quella che aveva di fronte fosse una donna in cerca di aiuto, perché l’avrebbe aiutata volentieri, una così.

    «Salve! Mi manda il generale Milligan, sono Mia» si presentò, tendendo la mano in avanti.

    «Oh, mi scusi…» rispose sorpreso l’uomo. «Piacere, sono l’agente Jhonson, prego, L’ispettore arriverà a momenti» aggiunse sorridendo e stringendole la mano. «Intanto posso offrirle un caffè?» chiese ancora, mentre Mia si presentava ai suoi nuovi colleghi.

    «Molto gentile da parte sua, come se avessi accettato» rifiutò, facendo un chiaro segno con la mano.

    Volse lo sguardo al tramonto, attraverso una delle due finestre della caserma si trovò a osservare una delle più belle scene che la natura potesse offrire, decise che quello sarebbe stato il suo tramonto, suo personale, per sempre.

    John Walker si presentò: «Ciao Mia. Sono l’ispettore Walker, ma chiamami pure John.»

    «Salve John.»

    Mia sorrise, aveva ancora impresso il tramonto nei suoi occhi scuri. Tese la mano all’ispettore, suo superiore da quel momento.

    «Mi hanno parlato molto bene di te, sono contento che sei arrivata a far parte della nostra squadra.»

    «Io più di lei.»

    «Da dove vieni precisamente?» chiese l’ispettore.

    «Sono nata e cresciuta qui vicino, a Bangstate, lei invece?» rispose.

    «Vengo dall’altra parte del muro» ribatté Walker, intento a sistemare alcune carte sparse in disordine sulla sua scrivania.

    «Ah, è di Longstate; non ho mai capito il vero motivo di questa definizione data a Brillington» disse Mia, con espressione incuriosita.

    «Il muro invisibile, divide la tua città dalla mia» le spiegò John.

    «Quindi è chiamata così solo perché divide due città?»

    «No, divide le due malavite, nessun criminale deve mettere le mani oltre la propria competenza, Brillington è una sorta di Barriera» si mostrò informato.

    «A Bangstate non ci sono molti malviventi» precisò Mia.

    «Neanche a Longstate. Non sono moltissimi, ma fanno girare molti soldi» la invitò con un gesto ad accomodarsi. «I tuoi genitori invece?»

    Dall’espressione della donna capì di aver aperto un argomento delicato, ma non fece una

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