Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

I battiti dell'amore
I battiti dell'amore
I battiti dell'amore
E-book421 pagine5 ore

I battiti dell'amore

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Una irresistibile storia di odio-amore.»

La perfetta unione di romanticismo e ironia!

Flint Hopkins è convinto di aver trovato la persona ideale a cui affittare lo spazio sopra il suo studio legale a Minneapolis. Spera ardentemente che la proposta di Ellen Rodgers vada a buon fine: le sue referenze sono ottime ed è persino di bell’aspetto. Ma quando Flint scopre che la ragazza passa le sue giornate a suonare… tutte le sue attese crollano. Ellen, infatti, è una terapeuta che usa la musica per aiutare i suoi pazienti. Tamburi, chitarre, persino urli a squarciagola. Flint è sul punto di scriverle una di quelle lettere degne di un avvocato d’assalto come lui, quando si accorge che a suo figlio, Harrison, affetto da una forma di autismo, Ellen sembra piacere molto. Un padre single non può certo competere con l’allegria contagiosa di una ragazza che suona la chitarra, ammaestra topolini e ha sempre il sorriso stampato sul viso. Purtroppo tende anche a invadere gli spazi di Flint… A sistemargli la cravatta, ad abbottonargli la camicia… Una cosa è certa: deve starle lontano!

L’amore si presenta sotto tante forme.
Anche quella di un’invadente ragazza dai capelli rossi.

«Brillante, divertente e romantico. Questa lettura ha saputo commuovermi e regalarmi un sorriso. Un’autrice da ricordare.»
Kate Stewart

«La perfetta unione di romanticismo e ironia!»

Jewel E. Ann
È un’inguaribile romantica con uno spiccato senso dell’umorismo e una grande passione per la lettura. Ha lavorato per anni come igienista dentale, prima di decidere di dedicarsi alla famiglia e scoprire la vocazione per la scrittura. I battiti dell’amore è il primo romanzo pubblicato dalla Newton Compton.
LinguaItaliano
Data di uscita11 feb 2019
ISBN9788822730152
I battiti dell'amore

Correlato a I battiti dell'amore

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Narrativa romantica per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su I battiti dell'amore

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    I battiti dell'amore - Jewel E. Ann

    Prologo

    Heidi mi ha dato un figlio. Poi l’ho uccisa. Beati i bastardi che l’hanno scampata bella… e hanno imparato la lezione. Quanto li ho invidiati.

    «Stasera niente alcol. Voglio un altro bambino da te», sussurrò mia moglie facendomi scivolare la mano sulla gamba. Erano seduti con noi, intorno al tavolo, dodici dei nostri amici e parenti più cari. Heidi aveva scelto per il mio compleanno la mia steakhouse preferita di Omaha e prenotato la saletta delle feste. Non sospettavo nulla. Poi tutti avevano gridato: «Sorpresa!».

    L’amavo alla follia.

    «E per il festeggiato?», chiese la cameriera morettina, strizzandomi l’occhio e preparandosi a prendere nota.

    «Un whisky liscio».

    Heidi si rabbuiò.

    Le afferrai la mano, premendogliela sulla mia erezione. «Sta’ tranquilla, non ti deluderò».

    «Lo vedremo». A giudicare dalla replica secca, non ne sembrava tanto sicura.

    I miei genitori erano arrivati in auto da Denver per farmi una sorpresa, ma mio figlio Harrison, due anni, mi aveva rubato la scena. Facevano a turno con la mamma di Heidi per spupazzarselo. Prima della laurea non avevo mai pensato di diventare padre. Né di incontrare la donna della mia vita nel preciso istante in cui ne avevo più bisogno.

    Studiava da infermiera all’ospedale dove mi avevano portato il giorno in cui un infortunio al legamento crociato anteriore aveva distrutto la mia carriera di giocatore di football. Le avevo detto che era un angelo. Heidi insisteva che a parlare per me erano gli antidolorifici.

    «Monaghan ha detto che, quando passerà tra i professionisti, sarai tu il suo agente», mi disse papà lanciandomi un’occhiata incuriosita.

    «Monaghan spara un sacco di stronzate. Nessuna squadra sana di mente ingaggerà mai il Damerino. Studia per fare l’insegnante. Già quello ti fa capire che razza di fighetta sia: quelli come lui non hanno grosse chance nella

    NFL

    ».

    Il giovane quarterback dei Cornhusker sogghignò dall’estremità opposta del tavolo. Sapevamo entrambi che sarebbe diventato un professionista, ma non avevo intenzione di gonfiare il suo ego il giorno del mio compleanno.

    «Modera i termini, Hopkins», mi riprese Heidi.

    Quando la sentii chiamarmi per cognome, mi irrigidii sulla sedia. Sapevo bene che la cosa avrebbe implicato una punizione. E quelle erano sempre inflitte in camera da letto.

    L’amavo alla follia.

    La serata procedeva senza intoppi. Senza stonature.

    Cena. Amici. Parenti. Cibo. Alcol.

    Mia moglie si era superata. Era bravissima a rendere ogni giorno perfetto. E anche a farmi sentire un irresponsabile perché bevevo. Ogni volta che la cameriera mi piazzava davanti un drink, Heidi arricciava le labbra in una smorfia di disapprovazione.

    Mi facevo scivolare addosso le sue occhiate senza discutere. Prima di morire, suo padre alzava il gomito ed era violento. All’epoca in cui ci eravamo conosciuti, io non bevevo. Sul serio. Il football era tutta la mia vita. Trattavo il mio corpo come un santuario. Ma dopo l’infortunio avevo finito con l’abituarmi a un’esistenza in cui non lo era più: un bicchiere di tanto in tanto era proprio ciò che mi ci voleva per alleviare il dolore dei perduti sogni di gloria.

    Heidi pensava che chiunque bevesse fosse un alcolista violento. Ero deciso a convincerla del contrario, così forse un giorno anche lei si sarebbe rilassata un po’, concedendosi un goccetto nelle occasioni speciali.

    «Buon compleanno, Flint. Mi raccomando, prenditi cura dei miei bambini», mi disse, abbracciandomi, mia suocera Sandy, mentre tutti mi davano la buonanotte rinnovandomi gli auguri.

    «Tradotto: lascia guidare tua moglie», aggiunse Heidi, toccandomi appena e facendo un sorrisetto che non voleva essere scherzoso. E io lo sapevo bene.

    Sandy mi pizzicò le guance guardandomi negli occhi. «Penso che stia bene, tesoro. Nulla a che spartire con tuo padre. Dagli un po’ di tregua».

    Lanciai a Heidi un’occhiata della serie te-lo-avevo-detto. Sandy mi adorava. Ero tutto quello che il padre di sua figlia non era mai stato. Heidi non sopportava che agli occhi della madre fossi infallibile. Ma a me la cosa piaceva molto. Però tutta quella sicurezza portava con sé una pericolosa dose d’orgoglio.

    Dopo aver assicurato Harrison al seggiolino dell’auto, Heidi protese la mano.

    «Sto bene». E aprii la portiera del lato guidatore.

    «Invece no. Stasera hai bevuto tanto».

    «Però sono bello pesante».

    «Flint».

    Mi infilai dentro l’auto sedendomi al volante. «Chiamami Hopkins, piccola. Mi piace immaginare cosa viene dopo».

    «Flint, dico davvero. C’è nostro figlio seduto dietro». E si mise tra me e la portiera, per impedirmi di chiuderla.

    «Non vedo l’ora di spogliarmi con te. Avanti, sali. Mettiamo Harrison a letto».

    Lei si incrociò le braccia al petto, trafiggendomi con i suoi occhi azzurri, mentre il vento le scompigliava i capelli corvini.

    «Sto. Bene».

    Heidi scrollò le spalle. «Grandioso. E allora non fare il maschilista. Lascia guidare me e basta».

    In lontananza si sentì un tuono e le prime gocce di pioggia cominciarono a cadere dal cielo nero della sera.

    «Finirai per bagnarti».

    Lei sbuffò e, pestando i piedi, raggiunse l’altro lato dell’auto. «Coglione testardo», mormorò allacciandosi la cintura.

    «Modera i termini, mammina». E ridacchiai, avviando il motore.

    «Flint Hopkins, se finisci per ammazzare noi o qualcun altro per guida in stato di ebbrezza, ti guadagnerai un posto speciale all’inferno».

    Ingranai la marcia e, prima di mollare il freno, le misi una mano dietro la testa, avvicinando la sua fronte alla mia. «Sei la mia vita. Non ti farei mai del male. Ti amo alla follia».

    «Gesù, Flint…», sussurrò. «Ti puzza il fiato di whisky. Ti supplico. Lascia guidare me».

    Mollai la presa e anche il freno. Amavo Heidi, ma allo stesso modo amavo sentirmi un uomo. E un uomo vero conosceva i propri limiti e non aveva bisogno che fosse qualcun altro a dirgli se era in grado di fare qualcosa o meno.

    Tre giorni dopo seppellivo mia moglie in un cimitero a due isolati da casa.

    1

    Un posto speciale all’inferno – dieci anni dopo

    Le persone felici dovrebbero essere provviste di un apposito cartellino.

    «Studio dell’avvocato Flint Hopkins. Buongiorno. Sono Amanda… Sì… D’accordo… Riferirò. Grazie per aver chiamato. Le auguro una fantastica giornata».

    Ma chi è che usa il termine fantastico? La parola deriva da fantasia, che indica qualcosa di irreale. La mia segretaria, che a suo tempo si è presentata al colloquio senza alcun cartellino, augura a chiunque chiami lo studio una giornata irreale. Dovrebbe lavorare a Disneyworld.

    Sento ronzare l’interfono sul telefono dell’ufficio. Sospiro. «Amanda, la porta è aperta e non c’è nessun altro. Non c’è bisogno di usare l’interfono. Ti sento benissimo».

    «E come faccio a sapere che non sei al telefono?»

    «Voltati».

    Fa ruotare la sedia. Alzo gli occhi dal computer e incrocio il suo sguardo.

    «Non mi piace spiarti. Quando lo faccio, il modo in cui mi guardi mi fa venire la pelle d’oca».

    Mi gratto il mento. «Il modo in cui ti guardo?».

    Si caccia le ciocche bionde dietro le orecchie e mi rivolge un’espressione scontrosa. «Esatto. Mai un sorriso. Mi fai proprio venire la pelle d’oca».

    «Mai?», chiedo inclinando la testa di lato.

    «Insomma, tranne quando Harrison si fa vivo dopo la scuola. In quel caso gli angolini della bocca ti si girano all’insù…», dice increspando le labbra, «…di tre millimetri al massimo. E non è tanto facile notarlo, a meno che uno non ti osservi più che attentamente».

    I sorrisi sono sopravvalutati. E lei ha ragione. A mio figlio riservo il meglio di me. O quel poco che ne resta.

    «Chi era al telefono?»

    «Come?»

    «Prima di dirmi che sono raccapricciante, mi hai chiamato».

    «Ah, già. Era Ellen Rodgers. Tarderà di un quarto d’ora. Un imprevisto al lavoro».

    «È in ritardo. Brutto segno. Probabilmente pagherà in ritardo anche l’affitto».

    «Sì, Flint. Forse hai ragione. Ora che ci penso ha avuto un imprevisto al lavoro. Hai presente? È il posto dove si va per guadagnare soldi. Segno inequivocabile che pagherà l’affitto in ritardo». E, così facendo, si rigira verso la scrivania.

    «Lo so che stai alzando gli occhi al cielo», dico riconcentrandomi sullo schermo.

    «Non lo farei mai, capo».

    Ben venticinque minuti più tardi sento chiacchierare in sala d’attesa. Non distolgo lo sguardo dal computer. Non c’è motivo di dare alla signorina Rodgers la sensazione che non abbia nulla di meglio da fare che aspettarla.

    Poi il cellulare, sulla scrivania, vibra.

    AMANDA

    : C’è qui Ellen Rodgers. Immagino tu lo sappia. Non è una cliente, quindi, dal momento che la porta del tuo ufficio è aperta, non so se il suo arrivo giustifichi un annuncio all’interfono o uno verbale. Come preferisci che proceda, trattandosi di un caso delicato?

    IO

    : Sei licenziata.

    AMANDA

    : Dici davvero? Pensa un po’… a casa mi aspettano tonnellate di biancheria da lavare. Mi hai appena fatto un favore!

    Promemoria: non assumere mai più segretarie donne.

    IO

    : Stavo scherzando. Mandala qui e fammi avere quella ricerca che ti ho chiesto tre giorni fa.

    AMANDA

    : Okay, te la mando. E comunque l’ho messa sulla mensola dietro la tua scrivania due giorni fa :)

    «Le donne…», mormoro.

    «Salve». La ragazza che ha chiesto di prendere in affitto i locali sopra lo studio si precipita verso di me tendendomi la mano. «Ellen Rodgers. Scusi il ritardo».

    Mi alzo in piedi e gliela stringo. È inattesa. Allegra – le servirebbe proprio un bel cartellino. Per questa volta, visto che ha un aspetto gradevole, non spegnerò il suo entusiasmo per la vita.

    «Flint Hopkins. Non importa». Sbircia oltre, in direzione dell’unica spettatrice presente. Amanda mi lancia un sorriso ammiccante. La guardo minaccioso, finché non ci dà le spalle.

    «Prego, si accomodi», dico a Ellen indicando la sedia accanto alla scrivania.

    Lei molla la borsa, che cade sul pavimento con un tonfo sgraziato. Deve essere il genere di donna che si porta dietro di tutto.

    Mi concentro sulle sue mani tremanti che sbottonano il cappotto di lana grigia – un po’ eccessivo visti i quindici gradi di oggi. «Mi scusi se mi presento così. Ho pranzato con una bambina di quattro anni che ha qualche problema di coordinazione».

    Ironia della sorte. Pare che lei stessa ne abbia più di uno.

    I capelli ramati non sono tanto lunghi da nascondere la patacca rossa sul maglione bianco attillato.

    Non appena mi accorgo che sto fissando la macchia – guarda caso all’altezza del seno – distolgo lo sguardo e lo porto sui suoi occhi. «Quando Amanda le ha mostrato i locali, l’altro giorno, le ha anche dato il contratto?»

    «Sì. Grazie». Piega il cappotto e lo appoggia sullo schienale. Poi si mette a sedere.

    «Ha qualche domanda?»

    «No. Mi sembra piuttosto standard. Adoro questa zona, ma è impossibile trovare dei locali disponibili. Quando ho trovato l’annuncio il giorno stesso in cui l’avete pubblicato, non riuscivo a crederci».

    Esamino la domanda, anche se l’ho già letta più di dieci volte. «E così lei è una musicoterapeuta?»

    «Esatto».

    «La musica è considerata una terapia?».

    Ellen ridacchia. In modo infantile. Anche la sua faccia ha qualcosa di bambinesco. Dev’essere per via delle lentiggini e degli occhi azzurri.

    «Sì. La consideri pure una terapia alternativa. Ma è un lavoro vero e proprio. Per la mia specializzazione serve una laurea, proprio come per le altre professioni sanitarie». Poi indica le mie mani, giunte sulla scrivania. «E comunque… bei gemelli».

    Abbasso lo sguardo e me li sistemo. «Grazie».

    Lei si morde le labbra lucide come se volesse fare un bel sorriso, ma qualcosa dentro glielo vietasse. «Mi scusi. Questo non c’entrava niente. Sono un po’ nervosa».

    «E perché?», le chiedo mentre apro la mail di un cliente.

    Ora canticchia. Ma cosa fa?

    «Perché voglio quei locali».

    «Referenze?»

    «Ah, sì. Le ho mandate alla sua segretaria».

    Accendo l’interfono. «Amanda, mi servono le referenze».

    «Sulla mensola accanto alla ricerca che mi hai chiesto», grida dalla scrivania. Poi l’interfono si mette a ronzare. «Prego, signor Hopkins».

    Inspiro lentamente per mantenere il controllo. Ellen soffoca una risata.

    «Bene. Le controllerò…».

    «Le ho già controllate io», dice Amanda. Senza usare l’interfono.

    «Sei licenziata».

    Lei si alza, mettendosi la borsa a tracolla. «Vorrà dire che domani mattina farò domanda di disoccupazione».

    «Buona serata», mormoro, guardandola di traverso.

    «Ciao, Flint». E mi fa l’occhiolino.

    Quando sento lo scatto della serratura, torno a concentrarmi sugli occhioni azzurri che mi fissano. Persino le guance, che quando è arrivata erano leggermente rosee, hanno perso il loro colorito, lentiggini a parte.

    «La licenzio tutti i giorni. Non ha alcun rispetto per l’autorità».

    Ellen è pietrificata. I suoi occhi si sollevano millimetro dopo millimetro, cercando i miei.

    Mi giro e afferro le referenze dalla mensola alle mie spalle. Sui fogli che ho tra le mani c’è una discreta quantità di informazioni positive. Non c’è davvero alcun motivo per cui non dovrei affittarle i locali, al di là della mia ossessione per riverificare l’intero documento da cima a fondo. Il controllo totale è tutto per me.

    Un cauto sorriso le affiora sul viso. «Signor Hopkins, lei è un uomo difficile da inquadrare».

    Più grigio che difficile.

    «E invece lei è la mia nuova inquilina. Benvenuta. Avrò bisogno di due mesi di anticipo e di una firma su questi documenti». E le passo una penna e il contratto d’affitto che Amanda ha allegato alle referenze.

    La invidio un po’. Non riesco a ricordare l’ultima volta che ho sorriso così. Lei invece si è illuminata come una sera di luglio per una cosa insignificante come uno spazio al primo piano di un edificio della periferia di Minneapolis.

    «Grazie. Ha reso memorabile questo giorno. Anzi! L’intera settimana». Scarabocchia il nome e le iniziali in corrispondenza di tutte le freccette segnapagina che Amanda ha appiccicato sul contratto e compila un assegno su cui sono disegnate delle note musicali.

    «Prego». Apro la cassettiera della scrivania e recupero le chiavi. «Qui ci sono due mazzi. Una chiave apre il portone dell’edificio e l’altra il suo studio. C’è un sistema di allarme. Le mostrerò come impostare il suo codice personale. L’ingresso principale dello stabile resta chiuso dalle sei di sera alle sette di mattina. Se riceve dei clienti in questi orari dovrà scendere a prenderli e poi accompagnarli fuori dall’edificio. Per qualsiasi problema chiami prima Amanda. Se lei non risponde, chiami me».

    «Amanda? Chi? La donna che ha appena licenziato?».

    Mi alzo e mi infilo la giacca del completo. La abbottono e mi sistemo la cravatta. Ellen continua a sorridere, come se si aspettasse una replica. «Esatto». Dritti al punto. Non le concederò nient’altro.

    Amanda ci ha messo cinque anni a insinuarsi nella mia vita, tanto che ormai non potrei più farne a meno – ma solo da un punto di vista professionale. Anche se mi pisciasse nel caffè non la licenzierei mai, perché è la donna che sta dietro a uno dei migliori legali di Minneapolis: Flint Hopkins. E l’unica cosa che mi rende più felice del fatto che riesca a prevedere ogni mia mossa con ventiquattr’ore di anticipo è il fatto che sia sposata con tre figli. Io sono il suo lavoro. Punto.

    «Venga». E oltrepasso Ellen, schivando le ondate di felicità che emana il suo sorriso da svampita.

    «Mi sa che fuori si gela. L’anno scorso di questi tempi non faceva così freddo». Mentre saliamo con l’ascensore, si sfrega le mani, alitandoci sopra.

    Socchiudo gli occhi. «Quindici gradi per il Minnesota non è freddo. Il caldo che ha fatto l’anno scorso di questi tempi… quello sì che era insolito. Quest’anno siamo nella norma».

    «Mi sono trasferita qui dalla California». Fa spallucce e si alita di nuovo sulle mani.

    «Lo so». E indico con un cenno le porte dell’ascensore che si aprono.

    «Ma certo», risponde sorridendo mentre esce sul pianerottolo. «Le referenze…».

    Mi attardo un secondo per guardarla da dietro. Non ho nessuna voglia di notare le curve delicate e il modo in cui muove il culo, ma non posso farne a meno.

    «Arriva?». E si volta, lanciandomi uno sguardo civettuolo.

    Non penso stia flirtando. Però quell’occhiata mi è familiare. Mi ricorda il modo in cui mi guardava sempre mia moglie. «Sì». Mi libero di quel pensiero e la seguo fino alla seconda porta sulla sinistra.

    «In tutto sono quattro uffici, giusto?».

    Apro la porta del suo con la mia chiave e disinserisco l’allarme. «Esatto. Questo è il mio. Dirimpetto, dalla parte opposta dell’atrio, c’è un optometrista. Di fronte a lei invece c’è uno studio contabile. Ecco. Ora può scegliere un codice di sei cifre». E mi faccio da parte.

    Lei digita due numeri, poi mi fissa. «Mi sta guardando mentre inserisco il codice?»

    «Guardi che ho un passe-partout. Posso entrare in tutti gli studi. Anche volendo non potrebbe impedirmi di entrare nel suo».

    «Sa, ho l’abitudine di riutilizzare gli stessi codici». E mi rivolge un sorriso di circostanza.

    Sospiro e le volto le spalle.

    «Grazie». Il tastierino fa bip altre quattro volte.

    Mi rigiro e premo il tasto con il cancelletto. «Con lo stesso apre il portone principale».

    Lei annuisce e gironzola per il locale vuoto. All’estremità opposta c’è un bagno. Un motivo familiare si diffonde nella stanza. È You Are My Sunshine. Lo so perché Heidi la cantava in continuazione a Harrison. Perché mai la sta canticchiando?

    «Quanto mi piace avere una finestra a tutta parete».

    Mi sorprendo un’altra volta a fissarla e così mi schiarisco la gola. «Ha altre domande? Altrimenti io andrei».

    Si volta e ricomincia a canticchiare. Non riesco a guardarla senza fissarla. Così do un’occhiata fuori dalla finestra. Non so perché ma mi ha scatenato qualcosa dentro, mandandomi fuori fase. Sollevo e abbasso i pugni un paio di volte, poi guardo l’orologio. Magari posso fare un salto in palestra prima di passare a prendere Harrison al corso di robotica.

    «No, nessuna. Se per lei va bene, porterei qui le mie cose già questo fine settimana».

    «I locali sono suoi adesso. Non c’è bisogno di chiedere il permesso».

    «Posso dare una rinfrescata alle pareti?»

    «Ma certo».

    «Grazie». Fa un bel sorriso e poi si mette a volteggiare su sé stessa.

    Ma che cazzo fa?

    «Adoro questo posto!». Si ferma e si abbraccia. I suoi occhi azzurri brillano di gratitudine, come se le avessi appena regalato un’auto o qualcosa di ben più eccitante che una quarantina di metri quadrati – per i quali tra l’altro paga un affitto bello salato.

    «D’accordo». E arretro lentamente verso la porta. «Il numero di Amanda ce l’ha già. Quindi siamo a posto così?». Tradotto: non dovremo incontrarci più, salvo catastrofi impreviste.

    «A postissimo». E preme il pollice contro l’indice per mimare un okay.

    2

    Quando togli la vita a una persona, la cosa più difficile è sapere che nulla potrà mai rimediare.

    Né un milione di scuse.

    Né la colla più potente.

    Né un’infinità di buone azioni.

    Riesco quasi sempre a illudermi che mio figlio sia un dono e che io sia degno di crescerlo. Ma ci sono giorni di lucidità totale in cui mi rendo conto che averlo con me e amarlo è la peggiore tra le punizioni. Quando sarà abbastanza grande da capire davvero cos’è successo alla madre, mi odierà – almeno quanto io odio me stesso.

    «Sono l’unico ragazzino che a scuola mangia questa roba strana», dice Harrison sorseggiando un frullato senza lattosio appoggiato al piano della cucina, mentre io gli preparo il pranzo tenendo conto delle sue intolleranze.

    «Ho speso un sacco di soldi per farti fare i test per le allergie. Senza considerare tutte le ore che ho passato a documentarmi. A scuola va meglio e anche a casa la situazione è migliorata. Quindi non mi importa se sei l’unico ragazzino che mangia roba sana per pranzo».

    «I miei compagni mi prendono in giro».

    «I ragazzini sono stupidi».

    «Sono un ragazzino anch’io».

    «Tu fai eccezione. È per quello che ti prendono in giro».

    «Quindi mi invidiano perché non sono stupido?»

    «Esatto». E continuo a riempire la borsa termica.

    Alza gli occhi al cielo. Mio figlio è fin troppo sveglio.

    «L’insegnante di scienze mi ha mandato una mail. Ha scritto che non hai consegnato la ricerca».

    Harrison si infila il giaccone invernale e afferra la borsa termica. «Quella ricerca è una stupidaggine».

    «Perché?». Chiudo la valigetta e, prima di uscire di casa, controllo che le luci siano spente. Via con un’altra settimana di lavoro.

    «I libri di testo sono superati. Tutto quello che ci insegnano è superato. Abbiamo una bibliografia obbligatoria e non possiamo usare altre fonti. Secondo lei in sostanza dovrei scrivere contenuti scientifici sbagliati e fare riferimento a ricerche datate. Così spreco solo il mio tempo».

    Lo incoraggio a uscire di casa e salire in auto. «Hai dodici anni. Non lavori. Non hai grosse responsabilità. Hai un’infinità di tempo. Te l’ho detto un milione di volte. Devi considerare la scuola come se fosse il tuo lavoro».

    Mentre usciamo dal garage, si allaccia la cintura. «D’accordo. Di tempo ne ho. Ma non ho intenzione di farlo. È un insulto alla mia intelligenza».

    Ho un figlio affetto da una lieve forma di autismo. E pare proprio che i medici non capiscano un cazzo di quest’epidemia che ha divorato un’intera generazione di bambini. Non c’è un modo preciso di diagnosticare il disturbo. Né si può tentare di prevenirlo. E non ci sono neanche farmaci per mascherarne i sintomi.

    Harrison è un patito dell’informazione. È raro vederlo senza gli auricolari nelle orecchie: ascolta podcast su tutto, dall’arte moderna alla teoria dell’evoluzione. Fa fatica a tenere a freno le emozioni, le sue interazioni sociali sono un po’ rudimentali e ha uno strano senso dell’umorismo, il che è interessante, dato che capisce davvero di rado quello degli altri. A parte tutto ciò è un dodicenne piuttosto normale e ben inserito.

    «Harrison, devi stare al gioco».

    «Ma è un gioco stupido». Con un tempismo perfetto si infila le cuffie, mettendo fine alla conversazione.

    «Se non fai quel lavoro, ti darà un’insufficienza. Penso che quello sia un insulto ancora peggiore alla tua intelligenza». Lo guardo. Si è isolato.

    Passo la mattinata in tribunale e, prima di rientrare in ufficio, mi compro qualcosa per pranzo.

    «Ciao, com’è andata?», chiede Amanda mentre mollo la valigetta sulla scrivania e mi sbottono la giacca.

    «Abbiamo vinto».

    «Complimenti. Quand’è stata l’ultima volta che hai perso una causa? Non me lo ricordo più». E fa un’espressione pensosa.

    Non occorre che si sforzi tanto. Io ho buona memoria. E ricordo tutte le cause che ho perso: le ripasso mentalmente centinaia di volte, chiedendomi cosa avrei potuto fare di diverso. E poi il pensiero torna sempre a Heidi, la sconfitta più grande in assoluto e l’unica senza possibilità di appello.

    «Da dove arriva questa musica?». Mi metto comodo e, mentre tiro fuori un panino dal sacchetto di carta marrone, alzo gli occhi al soffitto.

    «Dallo studio di Ellen. Ha portato qui le sue cose nel fine settimana. Ha anche imbiancato».

    «E…?». Poi lancio un’altra occhiata al soffitto. Il bang bang bang non accenna a smettere.

    «E… oggi riceve dei clienti. Batteria, al momento. Chitarra e canto un’oretta fa. Wheels on the Bus».

    «Spiegati». Scarto il panino, disgustato per il baccano.

    Con un gesto Amanda si fa ricadere i capelli biondi sulle spalle. «Allora, parla di un autobus: le ruote che girano e girano, la gente che sale e scende, il clacson che suona…».

    La interrompo con un’occhiataccia. Ecco perché devo licenziarla tutti i giorni.

    Sfodera un bel sorriso. Ogni giorno si fa sempre più saputella e sicura di sé. Lavorando per me si è potuta permettere un’addominoplastica dopo tre tagli cesarei, un abbonamento alla palestra e un qualche trattamento per le vene varicose, credo. Sono sicuro che, quando raggiungerà il peso forma, mollerà il marito. Va a finire sempre così. Diamine, io mi guadagno da vivere con roba del genere.

    «Fa la musicoterapeuta, Flint. Ti prego, dimmi che avevi considerato che il suo mestiere c’entrava con la musica. Altrimenti mi sento in imbarazzo per te».

    Bang bang… bang… bang bang bang.

    Sollevo gli occhi un’altra volta, masticando lentamente il pranzo. «Così non può funzionare».

    «Il contratto d’affitto è per un anno».

    «Posso uscirne».

    Amanda ride. «E quale regola starebbe infrangendo? Il contratto non prevede limitazioni acustiche. Ti ha detto chiaramente che lavoro fa. Ma sul serio… cosa pensavi che fosse la musicoterapia?»

    «Divani comodi e musica rilassante trasmessa attraverso cuffie antirumore».

    Sogghigna. «Avresti dovuto fare prima una ricerca su internet. Ci sono parecchi video che mostrano cosa succede di preciso nello studio di un musicoterapeuta. Sono un po’ stupita che ti sia sfuggito».

    «Tu lo sapevi?». E getto il resto del panino nel sacchetto. Il rumore inquietante che arriva dal piano di sopra mi ha guastato l’appetito.

    «Certo. Altrimenti come farei a sapere dei filmati?»

    «E non hai pensato fosse il caso di dirmelo, prima di lasciare che le proponessi lo studio?»

    «Ho dato per scontato che lo sapessi. Sei l’uomo più sveglio che conosca. Oggi mi è caduto un mito. Non ti vedo più come un dio onnisciente. Sei diventato un comune mortale con un’intelligenza nella media. Come chiunque altro».

    Promemoria: non assumere mai più segretarie donne.

    «Torno tra un attimo». E in men che non si dica mi fiondo alla porta d’ingresso del mio studio. Le dita tamburellano sulla sbarra dell’ascensore. Le porte si aprono con un ding e, mentre scendo, una ragazzina e la sua mamma salgono.

    «Buon lunedì, Flint», esclama Ellen con un sorriso. È inginocchiata per terra e sta stipando vari strumenti a percussione in una cesta.

    Chi direbbe mai Buon lunedì?

    Si alza in piedi, scrollandosi i pelucchi del tappeto dai pantaloni color panna che le fasciano le curve in un modo che mi fa girare le palle. Almeno quanto l’attillato dolcevita blu che le modella quel seno impertinente. Questa donna mi ha preso in giro, deconcentrandomi con il suo corpo e con la danza gioiosa per il nuovo studio. E poi… bang! Via con i bonghi. Tutto il giorno.

    «In effetti la giornata era iniziata bene. Stamattina ho vinto una causa e mi sono anche preso il pranzo nella mia panineria preferita. Poi però mi sono seduto alla scrivania per pranzare e ho sentito un orribile baccano che proveniva da sopra la mia testa».

    «Non è un orribile baccano». E scuote la testa. «Grazie a quel ritmo la ragazzina che ha incrociato ha fatto notevoli progressi. Quando l’ho vista la prima volta non riusciva a tenere il tempo di una melodia semplice. Invece adesso sa suonare sei diversi pezzi con ritmi complessi. A scuola è più concentrata e la sua capacità di linguaggio ha fatto passi da gigante».

    Ellen

    C’è qualcosa di eccitante e persino un po’ proibito in un uomo che indossa un vestito che gli sta a pennello. E in tre pezzi Flint Hopkins sta da Dio.

    Zero grinze.

    Neanche un capello fuori posto.

    E nemmeno il benché minimo graffio sulle scarpe lucide.

    Le sue labbra si muovono, ma le uniche parole che riesco a sentire sono: Oggi ho messo questo abito per te. Intanto le sue mani se ne vanno a spasso: accarezzano i bottoni della giacca, ruotano i gemelli e sistemano la cravatta. Un’irrequietezza sofisticata.

    «Aveva detto di essere una terapeuta, non un’insegnante di musica».

    Gli uomini svegli sono anche sexy.

    «Sì. È così. Sono una musicoterapeuta per la precisione. Vuole che le spieghi cosa fa una musicoterapeuta?»

    «No. Voglio solo che si cerchi un altro studio da prendere in affitto. Le do due settimane». Si volta e in tre passi è fuori dalla porta.

    In un batter d’occhio gli sono alle calcagna e lo inseguo giù per le scale. «Un attimo. Mi sta forse sfrattando?»

    «Le sto dando il preavviso».

    «Il preavviso? Perché mi sta cacciando via? Perché faccio il mio lavoro?»

    «Perché mi impedisce di fare il mio». Spinge la porta in fondo alle scale e gira subito a destra.

    «Ciao, capo. Come…», esordisce Amanda, mentre seguo Flint nel suo ufficio, guardando prima me e poi lui.

    «Ciao, Amanda. Hai per caso un buon avvocato immobiliarista da suggerirmi? Potrei aver bisogno di citare il mio locatore per sfratto senza giusta causa».

    «Uhm…».

    Flint si volta e per un pelo non gli vado a sbattere contro. «Amanda, chiudi la porta». E mi lancia un’occhiataccia.

    Non me ne frega niente se questo tizio è tanto sexy in giacca e cravatta. Non indietreggerò perché mi guarda in cagnesco. «Per favore, Amanda, la lasci aperta. Potrei aver bisogno di una testimone».

    L’arroganza gli deforma la bocca. «Testimone?»

    «Per quando mi minaccerà».

    Si sbottona la giacca e fa un passo indietro. Rimango senza fiato, come se mi avesse risucchiato tutto

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1