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I Mellini stanno bene
I Mellini stanno bene
I Mellini stanno bene
E-book173 pagine2 ore

I Mellini stanno bene

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Info su questo ebook

“Ma soprattutto ti auguro, o figlia, la fantasia.

Non solo per creare avventure e castelli, ma anche per risolvere le avversità che inevitabilmente troverai davanti a te sulla via che prosegue”

Un viaggio visionario, mondi che si incontrano, dalle sabbie del tempo ritornano guerra e amicizia.

Una lotta per la vita, legami per la libertà.
LinguaItaliano
Data di uscita3 dic 2020
ISBN9788831696630
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    Anteprima del libro

    I Mellini stanno bene - Tecla Cattozzo

    Indice

    Cover

    Prefazione

    I Mellini Stanno Bene

    Ringraziamenti

    Nota dell'autore

    Nota storica

    Quadro storico

    Traduzioni

    Tecla Cattozzo

    I MELLINI STANNO BENE

    Titolo | I Mellini Stanno Bene

    Autore | Tecla Cattozzo

    ISBN | 9788831696630

    © 2020. Tutti i diritti riservati all'Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Immagine di copertina tratta da un’originale tavola dipinta a mano da Denise Santomauro

    I MELLINI STANNO BENE

    "Ma soprattutto ti auguro, o figlia, la fantasia.

    Non solo per creare avventure e castelli, ma anche per

    risolvere le avversità che inevitabilmente troverai davanti

    a te sulla via che prosegue"

    Un incidente è la combinazione di spazio e tempo

    e

    l'immaginazione è molto più avanti delle coincidenze

    Un pulsante dolore alla testa.

    Aveva la guancia appiccicata al suolo, i muscoli di tutto il corpo talmente contratti da non riuscire a muoversi.

    Si sentiva come un insetto anestetizzato dal morso di un ragno e paralizzato nella tela.

    Aprì con difficoltà un occhio, vedeva l’offuscato mondo esterno capovolto, come durante un terremoto.

    Gli ronzavano le orecchie, il sangue defluiva di sbieco. Svenne di nuovo.

    La Furia Buia correva veloce sulla strada costiera, non sapeva quanti anni fossero passati da quando aveva smesso di vivere e poi ricominciato.

    Non sapeva quanti giorni di prigionia fossero serviti a fargli implorare un goccio d’acqua per poi catapultarlo in quel deserto rosso.

    La pelle faceva ancora male, e stava bene così.

    Don’t Drink The Water, Stone Gods.

    .

    Da quando aveva diciannove anni aveva lavorato, scalando le gerarchie aziendali con una naturalezza disarmante, fino a trovarsi vicedirettore gestionale, incastrato in un ufficio al ventisettesimo piano del grattacielo di una città che non dorme mai, Zurigo.

    Quando aveva accettato il nuovo lavoro era inconsapevole del ruolo in cui si stava ficcando, ma era stato bravo a gestire i problemi, trovare soluzioni e far pendere la bilancia dei compromessi dalla parte giusta; era diventato subito una buona immagine di facciata per l’azienda Comai, ditta italiana di import-export con la sede legale stanziata in Svizzera per ovvi motivi fiscali.

    Tre decadi e mezzo e gli occhi grigi, le giacche stirate dalla signora della lavanderia e sempre blu, ogni giorno una tonalità diversa.

    Walter pestò il piede nello spigolo del mobiletto del corridoio così forte che per qualche secondo non vide niente; gli uscì una bestemmia dal volume sufficiente a far sbucare la testa del suo cane dalla porta.

    Lo cacciò via con un gesto – non voleva urlargli addosso – e si sedette sul pavimento.

    Era attraversato da un dolore accecante, non riusciva a concentrarsi su nient’altro che non fossero le stelline bianche che ogni tanto entravano nel suo campo visivo appannato.

    Cercò di respirare con calma tenendosi il piede tra le mani. Pian piano il male vivido lasciò il posto a un fastidio più sommesso.

    Testò l’appoggio alzandosi lentamente. Doveva metterci del ghiaccio.

    Stette fermo così per un po’, braccia lungo i fianchi, a guardar fuori dalla finestra del salotto grigio su quella foschia che lentamente andava dissipandosi, con la busta di piselli congelati sul piede e Franco il cane che lo annusava circospetto.

    Aveva già perso dieci minuti buoni del suo abituale ménage mattutino.

    Teardrop, Massive Attack.

    Doveva guidare in fretta se voleva arrivare in orario al lavoro.

    Franco sembrava ammiccare dal suo cuscino a terra: con i baffi bianchi intorno a occhi e naso e il tremolio delle zampe anziane sull’imbottitura della cuccia sembrava proprio un vecchio signore supponente, appostato come un gufo vicino alla transenna dei lavori in corso.

    L’ufficio era a venti minuti di moto e quella mattina infilarsi gli stivali da biker fu una vera sofferenza.

    Se fosse andato in macchina forse avrebbe sentito meno dolore, ma ci avrebbe impiegato più di un’ora.

    Era davvero in ritardo; partì senza scaldare la moto, cercando di prestare meno attenzione possibile al formicolio del piede, la camicia azzurrina sotto la giacca di pelle, il completo blu corredato di scarpe nello zaino rigido. Si sarebbe cambiato al lavoro.

    Ain't No Easy Way, Black Rebel Motorcycle Club.

    Vide il tir sbucare dall’incrocio appena in tempo, mentre tentava di svoltare prima del rosso.

    Frenò di colpo, senza pensare, e sentì la puzza di gomme bruciate; la forza dell’attrito con l’asfalto quasi lo sbalzò dalla sella.

    La Furia Buia, la sua Ducati Diavel, teneva bene.

    Pensò però che nel cartoon sui draghi – da cui aveva preso ispirazione per il nome della moto – i cavalieri ci mettevano molto meno a raggiungere qualunque destinazione, essendo a cavallo di bestie che si spostavano nei cieli.

    E sicuramente soffrivano meno di stress.

    Come sognando, riaccese la moto, sollevandola con sforzo dall’angolo di quarantacinque gradi che aveva preso rispetto all’asfalto e sparì nel traffico, senza degnare di uno sguardo il conducente del tir che si stava sbracciando fuori dal finestrino.

    Arrivato in azienda, saltò il rituale del caffè e, dopo essersi tolto la seconda pelle di cuoio per mettersi in abiti consoni, corse subito nel suo ufficio, dove lo aspettava una quantità impressionante di pratiche da firmare, tutte intestate a suo nome.

    Non erano riportati i dati di fattura; i moduli chiedevano solo un’autorizzazione.

    In allegato c’era un biglietto del boss: firma tu in mia vece, già guardate.

    Stava per spazzare tutto quanto dalla scrivania dentro la cassetta dell’assistente tirocinante, a cui avrebbe detto a sua volta di firmare imitando la calligrafia, quando gli cadde l’occhio su una rendicontazione anomala del mese di marzo: 100.000 euro devoluti a una società benefica del sud dell’India, la Sandraham Trust.

    Mai sentita nominare.

    Si vede che il capo pensa di potersi redimere aiutando i bisognosi dopo una vita di soprusi, rise tra sé.

    Era un inizio di giornata atipico e, mentre aspettava che si caricasse la posta, digitò India sul motore di ricerca del pc e iniziò a navigare tra video improbabili e ricette di cucina etnica.

    Si trovò a cercare come si chiamassero le dita dei piedi e scoprì di essersi fratturato un mellino, quella mattina.

    E che i cani non hanno nomi per le dita dei piedi, solo falangi delle zampe posteriori.

    Pensò al suo cane Franco e convenne che mai avrebbe avuto un’empatia tale con un essere umano.

    Con qualcuno che semplicemente lo guardasse e capisse. Pensò che la sua vita, se fosse andato tutto normalmente, se non si fosse schiantato contro un tir prima del tempo, sarebbe durata circa sette volte quella del suo cane e che ne avrebbe passata quindi buona parte senza quell’unico vero amico.

    Quando era ragazzo, viveva ancora con i suoi in Valtellina e il cucciolo di cane era appena arrivato, si sdraiavano insieme nell’erba e Franco gli leccava la faccia e le braccia con una tale foga da farlo sobbalzare dal solletico e dalle risate.

    Dopo essersi rotto il femore cadendo in moto, era rimasto a letto semiparalizzato con la gamba circondata dalla gabbia metallica per settimane e un giorno Franco gli aveva portato un panino: l’aveva rubato per lui dalla tavola perché non morisse di fame non potendosi alzare quasi mai …e doveva essergli costato un certo sforzo lasciare nel pane solo l’impronta dei denti.

    Franco il cane aveva anche ringhiato alla madre di Walter, quando lei aveva cercato di farlo scendere dal letto del figlio convalescente, perché riempiva tutto di peli e puzzava ed era poco igienico e i cani non sono autorizzati a stare sui letti.

    Un cane che non aveva mai ringhiato a nessuno. Voleva davvero bene a Walter.

    Franco era stato anche molto amico di Greg, il cane dei genitori di Walter, già più anziano.

    I due avevano una dinamica di relazione molto umana, sembrava si mettessero d’accordo per abbaiare alternati e programmare gli scherzi insieme: rubare una ciabatta per uno e fuggire nei prati, scavare furiosamente una buca nell’aiuola mentre l’altro rosicchiava i sottovasi dei fiori.

    Quando morì l’anziano cane dei genitori, per Franco fu come se la colpa fosse stata di Walter.

    Smise di drizzare le orecchie al suo richiamo, smise di alzarsi e correre appena sentiva la sua voce, smise di andargli incontro. Smise di interessarsi a lui.

    Era come se… l’umano avesse potuto salvare l’altro cane e non avesse voluto.

    Non avesse fatto nulla per impedire la catastrofe, avesse la colpa dell’inguaribile solitaria tristezza che ne era derivata. O almeno, così la vedeva Walter. Voleva così bene a Franco che non riusciva a capacitarsene.

    A volte lo sgridava, a volte il legame tra loro sembrava rinascere, ma poi tutto tornava nell’oscurità: non riusciva a farsi perdonare, non riusciva a comprendere per cosa volesse punirlo.

    Aveva perso il migliore amico che avesse mai avuto.

    Poi si trasferirono a vivere da soli, Franco venne preso dalla demenza senile canina, e di colpo aveva di nuovo bisogno di lui.

    Era diventato anziano, il pelo aveva iniziato a sbiancarsi sempre più e le zampe a tremare.

    Perdeva il senso delle cose: faceva pipì in giro e poi scodinzolava, come se ne fosse fiero.

    Seguiva Walter per casa cercando cibo, anche se aveva appena mangiato.

    Non riconosceva più le persone.

    Ora il cane aveva ormai quindici anni e presto sarebbe morto anche lui.

    Walter pensava che nonostante si fossero allontanati e poi ripresi, come succede sempre nelle storie tra amici, e il rancore tra loro fosse esistito, il cane era l’unico che non l’avesse mai giudicato per il suo carattere, per le scelte, per l’aspetto fisico o per i vestiti, per l’odore, per le parole o per il modo in cui aveva deciso di vivere. Lo aveva amato incondizionatamente.

    In fondo non smise mai di leccargli le mani senza motivo.

    Preso da un senso di indicibile sconfitta e percorso da sensazioni negative, Walter si riscosse dai pensieri, smise di giocherellare con le penne marcate Comai, chiuse

    Google e aprì la casella di posta, da cui non staccò più gli occhi fino a sera se non per sbocconcellare un tramezzino preconfezionato e fare pipì, due volte.

    Il direttore, Guido, gli fissò una due giorni lavorativa in Arabia Saudita, vicino a Riyad, dalla sera alla mattina, per parlare con i fornitori e ridefinire le scadenze.

    Gli mandò il biglietto aereo per mail, anche se i loro uffici non distavano più di una quindicina di metri l’uno dall’altro.

    Walter la prese nel solito modo: alzò le spalle aprendo il messaggio, si avvicinò allo schermo per leggere bene la data, è per domani, ma davvero?!? Lo fa ogni volta. Spero solo di avere dei vestiti lavati, volo alle nove? Ok, allora, niente straordinario oggi, il taxi è da confermare, mando una mail al ragazzo del tirocinio.

    Si augurava solo che gli si sgonfiasse il piede durante la notte, perché il mellino pulsava da morire e, senza che nessuno vedesse o lo disturbasse, aveva passato la giornata senza la scarpa, abbandonandola sotto la scrivania.

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