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San Siro Rock. Storia dei concerti nello stadio di Milano che ha cambiato la prospettiva della musica in Italia 1980-2020
San Siro Rock. Storia dei concerti nello stadio di Milano che ha cambiato la prospettiva della musica in Italia 1980-2020
San Siro Rock. Storia dei concerti nello stadio di Milano che ha cambiato la prospettiva della musica in Italia 1980-2020
E-book950 pagine12 ore

San Siro Rock. Storia dei concerti nello stadio di Milano che ha cambiato la prospettiva della musica in Italia 1980-2020

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La musica negli stadi iniziarono a portarla i Beatles nell’agosto del 1965 allo Shea Stadium di New York. A San Siro il primo concerto si svolse 15 anni dopo, il 27 giugno del 1980, e ad aprire le danze fu Bob Marley. Da allora, quello stadio che per più di cinquant’anni era stato unicamente “La Scala del Calcio”, si apriva ad eventi musicali tutt’altro che formali e diventava lo scenario più ambito per esibizioni dei più grandi interpreti della musica rock e pop italiana e internazionale. Da allora, 130 concerti hanno avuto luogo sul prato del Meazza, di 51 tra artisti e gruppi, di cui 30 italiani e 21 stranieri. Quarant’anni di San Siro Rock. L’opera è un viaggio nel tempo scandito dal ritmo degli show che hanno incendiato, ma qualche volta anche deluso, un palco tra i più iconici non solo in Italia, ma in Europa, a partire proprio dagli anni Ottanta. Da Vasco Rossi a Bruce Springsteen, da Ligabue ai Coldplay, da Michael Jackson ai Rolling Stones, da Beyoncé e Jay-Z agli U2, dai Depeche Mode a Tiziano Ferro, dai Duran Duran a Jovanotti. Nel volume, diviso in quattro decadi, si ritrovano le notizie di ogni singolo evento, con articoli dalla stampa dell’epoca, immagini, curiosità e numerose interviste. Un prezioso album dei ricordi per una struttura che è diventata epica, e che di questi tempi rischia di vedere messa la parola fine al suo destino.
LinguaItaliano
Data di uscita17 dic 2020
ISBN9791280133380
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    Anteprima del libro

    San Siro Rock. Storia dei concerti nello stadio di Milano che ha cambiato la prospettiva della musica in Italia 1980-2020 - Massimiliano Mingoia

    vita.

    PREFAZIONE

    La storia dello stadio di San Siro è una possibile chiave con la quale aprire un approccio diverso alla lettura della storia di Milano. Attraverso la storia dello stadio si possono evidenziare i cambiamenti e scoprire lo spirito internazionale della città e accorgersi del ripetersi dei teatrini della politica e dello spettacolo che in maniera vichiana si sono alternati nell’arco della vita e della crescita del capoluogo lombardo.

    Diversi sono gli schieramenti politici che hanno utilizzato lo stadio in maniera spesso propagandistica comprendendo l’importanza della sua centralità sociale ed economica.

    San Siro è luogo di gioia per milioni di persone che hanno assistito e partecipato ad avvenimenti e gesta che ormai fanno parte della memoria collettiva.

    San Siro è luogo mediatico per eccellenza, amato da artisti, manager, assessori, magistrati, avvocati, sindaci, associazioni di residenti, promoter e giornalisti.

    San Siro ha conquistato tutti fin da subito, a partire da quella notte dell’estate del 1980 in cui aprì per la prima volta le porte del suo verde prato a migliaia di persone danzanti che si muovevano al ritmo della musica di Bob Marley, facendo dimenticare a tutti che quello che si calpestava era un campo di calcio.

    San Siro è entrato nella memoria di tutte le generazioni che sono succedute a quella epica prima notte, perché da quel momento in poi San Siro ha collezionato altri ricordi indelebili per moltissime persone.

    San Siro è stata la prima volta per tanti, per questo è così speciale. San Siro è grande ma intimo, allo stesso tempo. San Siro è accessibile ma prezioso.

    San Siro è sicuramente No Woman No Cry cantata da tutti con la luna piena e Marley a farci star bene, ma San Siro è anche stress creato dall’intolleranza di pochi a scapito del benessere di tanti.

    San Siro è decibel proibiti e prove spesso negate, orari limitati e divieti assicurati. San Siro è burocrazia. San Siro è processi vinti e processi persi. San Siro è un miracolo ed un sogno. San Siro è un incubo per chi ama far sentire e vedere bene tutti. San Siro è una sfida e arrivare a San Siro vuol dire sudore, fatica e piacere della conquista.

    Mancava un libro che raccontasse le gesta, gli aneddoti, le controversie, le polemiche, i successi e i flop della sua storia musicale. E Massimiliano Mingoia lo fa non dimenticando che San Siro è soprattutto il suo pubblico.

    Qui troverete racconti storici, parole dei fan, descrizioni degli show e delle scalette delle tante canzoni che a San Siro tutti voi avete cantato perché a San Siro lo spettacolo è soprattutto per chi sta sul palco e vi vede ondeggiare, saltare, ballare, sbraitare, urlare, imitare, gioire, ridere, piangere, chiedere, mostrare, esibire, sognare, sperare, aspettare, bere, mangiare, correre, riposare, arrivare e andare.

    Questo libro vi celebra, vi onora, vi conta, vi ricorda e vi avvolge.

    Non dimentica, non trascura la vostra fatica, le vostre attese, i vostri sacrifici. Le aperture delle porte precise ma anche quelle in ritardo magari per il capriccio della star internazionale.

    San Siro è testimone della nostra storia e delle milioni di storie delle persone che lo hanno popolato. San Siro è sì la casa di Vasco, di Liga, di Bruce, di Jova, di Bono, di Tiziano, di Laura, di Claudio e di tanti altri, ma è soprattutto casa vostra.

    Clau5

    io Trotta

    Fondatore della Barley Arts

    INTRODUZIONE

    "Siete mai entrati in uno stadio vuoto? Fate la prova.

    Fermatevi in mezzo al campo e ascoltate.

    Non c’è niente di meno vuoto di uno stadio vuoto.

    Non c’è niente di meno muto delle gradinate senza nessuno".

    EDUARDO GALEANO

    Ci sono luoghi magici. Lo stadio di San Siro è uno di essi. Sì, San Siro è magico, perché è uno di quei posti che nel corso dei suoi quasi cento anni di storia ha raccolto le emozioni di milioni di persone che hanno vissuto uno stesso evento tutte insieme appassionatamente. Partite di calcio, certo, ma anche concerti rock, pop, reggae, blues, persino rap. Lo stadio Giuseppe Meazza si è guadagnato il soprannome Scala del calcio dopo migliaia di leggendarie sfide calcistiche iniziate nel 1926, ma dal 1980 a oggi è diventato anche la Scala del rock perché l’impianto milanese è una delle mete predilette dagli artisti italiani e internazionali. Suonare a San Siro è un punto di arrivo per cantanti e band.

    I numeri parlano chiaro. Dal 27 giugno 1980 – il giorno del primo concerto al Meazza, quello di Bob Marley – all’estate del 2019 (nell’estate 2020 gli show programmati sono stati annullati a causa dell’emergenza coronavirus), a San Siro si sono svolti 130 concerti e sono saliti sul palcoscenico 51 cantanti o band, solo per parlare degli headliner. Non tantissimi in oltre trentanove anni di storia musicale. Perché lo stadio milanese non è per tutti, è per coloro che sono capaci di radunare in uno stesso luogo fino a ottantamila persone. Sì, è vero, ci sono altri stadi che hanno una capienza simile, ma non tutti hanno la storia e il fascino di San Siro. Lo testimoniano i calciatori e le rockstar, i tifosi e i fan che hanno avuto la fortuna di giocarci, di suonarci o semplicemente di assistere a una partita o a un concerto.

    Al Meazza si sono esibiti gli artisti più importanti degli ultimi quarant’anni. Da Bob Marley a Michael Jackson, passando per i Rolling Stones e Madonna, fino agli U2, ai Depeche Mode e ai Coldplay. Attenzione, però. I Re di San Siro non sono loro. L’artista che ci ha suonato più volte è Vasco Rossi: dal 1990 al 2019, il Blasco c’è stato ventinove volte. Irraggiungibile. Al secondo posto si piazza Luciano Ligabue con dodici. Al terzo Bruce Springsteen con sette: il Boss considera lo stadio milanese uno dei suoi luoghi preferiti al mondo dove suonare. Vorrà pur dire qualcosa, no?

    Ci sono stadi che reggono il confronto con San Siro? Sì, certo. In Europa uno senza dubbio è, anzi era, Wembley. L’Empire Stadium di Londra è stato inaugurato il 28 aprile 1923 (tre anni prima dell’impianto milanese), ha ospitato migliaia di partite di football e i Mondiali di calcio del 1966 che videro l’Inghilterra campione. A Wembley si sono svolti anche tantissimi concerti. Il primo, il London Rock and Roll Show nel 1972, ha visto come protagonisti maestri del rock americano come Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, Bill Haley e Bo Diddley. Negli ultimi cinquant’anni sono passate di lì le più importanti popstar – Michael Jackson c’è stato quindici volte – e rock band – Rolling Stones, Who, Pink Floyd, Queen, U2 – e si sono svolti eventi musicali della portata del Live Aid del 1985 e del Freddy Mercury Tribute del 1992. Peccato che lo stadio di Wembley, quello originale, sia stato demolito nel 2003, ricostruito negli anni successivi e inaugurato nel 2007. San Siro, invece, pur ampliato e riqualificato nel corso dei decenni, conserva, almeno in parte, la stessa struttura degli anni Venti. San Siro è, Wembley era.

    Eppure c’è un primato che il Meazza non può proprio vantare: non è il primo stadio dove si è svolto un concerto rock. No, quel primato spetta allo Shea Stadium di New York. È lì che i Beatles hanno aperto l’era del rock da stadio.

    Un flash dal passato. Il 15 agosto 1965, sulle tribune di quel campo di baseball, ci sono cinquantacinquemila persone. Le urla delle fan coprono quasi del tutto la musica e il canto. I Fab Four di Liverpool sono all’apice della popolarità. Da meno di due mesi sono passati dall’Italia per il primo e ultimo tour nel Belpaese. La data di apertura della band inglese, accolta da tremila scatenati fan alla Stazione Centrale di Milano, è al Velodromo Vigorelli il 24 giugno. Uno spettacolo pomeridiano con settemila spettatori, uno serale con diciannovemila. Tanti, ma non quanto quelli dello Shea Stadium.

    Negli Stati Uniti, invece, il primato dei Beatles viene battuto otto anni dopo da un’altra band inglese che ha fatto la storia del rock: i Led Zeppelin. Il 5 maggio 1973 il gruppo capeggiato da Jimmy Page e Robert Plant riesce a radunare 55.800 spettatori al Tampa Stadium, in Florida. Sempre gli Zeppelin, cinque anni più tardi, stabiliscono il record mondiale di pubblico al chiuso per un unico artista: 76.229 persone al Silverdome di Pontiac, nei pressi di Detroit, Michigan. È un record al chiuso perché il Silverdome è uno dei primi impianti dell’epoca dotati di tetto in teflon.

    Negli anni Settanta, comunque, il rock da stadio inizia pure in Italia. L’antipasto sono le date estive di Emerson, Lake & Palmer nel 1972 al Dall’Ara di Bologna e nel 1973 al Flaminio di Roma. Il 27 maggio 1978 Edoardo Bennato riesce ad attirare al San Paolo di Napoli tra i 35 mila e i 45 mila spettatori (i dati non sono univoci). Un anno dopo, nel settembre 1979, una rockstar straniera, Patti Smith, viene a suonare al Comunale di Firenze, dopo gli Anni di Piombo contrassegnati dall’addio di numerose star internazionali ai palcoscenici italiani a causa dei frequenti problemi di ordine pubblico prima, durante e dopo gli show. Il concerto della Smith è un segnale di rinascita. Il tour negli stadi, sempre nell’estate del 1979, di Lucio Dalla e Francesco De Gregori a supporto dell’album Banana Republic è la definitiva conferma che l’era della musica nelle grandi arene all’aperto può iniziare anche in Italia.

    È il momento del rock a San Siro. Con un’avvertenza finale: questo non è un libro simmetrico, non tutti i concerti hanno lo stesso identico spazio. Ci sono spettacoli che pesano di più nella storia di San Siro e in quella della musica italiana e internazionale. Di certo gli show di Vasco, Ligabue e Springsteen, perché sono i primi tre nella classifica delle presenze. Ma, naturalmente, anche il primo in assoluto (Bob Marley, 27 giugno 1980, come già scritto), il primo con un artista italiano che riempie il Meazza (Edoardo Bennato, 19 luglio 1980), il primo dei Rolling Stones (10 giugno 2003), il primo di una donna da protagonista (Laura Pausini, 2 giugno 2007), la prima volta di una band italiana (Negramaro, 31 maggio 2008), i mega-show degli U2 (2005 e 2009), il primo e unico spettacolo dei Pearl Jam (20 giugno 2014), il concerto con i cantanti più giovani sul palco (One Direction, 28 e 29 giugno 2014).

    Niente paura. I fan degli altri artisti che si sono esibiti al Meazza possono stare tranquilli. In questo libro si parla di tutti e 130 i concerti rock e pop a San Siro, nessuno escluso. Non è finita. Ci sono le interviste ad alcuni di coloro che hanno reso possibile San Siro in versione rock, dal sindaco Carlo Tognoli al promoter Enrico Rovelli fino al dottore del Meazza Furio Zucco, all’intellettuale Mario Giusti e al critico musicale Andrea Spinelli.

    Ma prima della storia dei concerti al Meazza è giusto raccontare la storia dello stadio, del contenitore di emozioni da cui siamo partiti, dell’impianto che – come ci suggerisce lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano nell’aforisma che apre questa Introduzione – non è vuoto e non è muto neanche quando in campo e sulle tribune non c’è nessuno. Perché San Siro è magico.

    DALLA CHIESETTA ALLO STADIO

    "La prima volta che vedi lo stadio Giuseppe Meazza

    è impossibile non avere un sussulto.

    Quando è illuminato, sembra una nave spaziale

    atterrata nella periferia milanese".

    TONY EVANS (THE TIMES)

    In principio c’era solo la campagna, lontana chilometri dal centro di Milano. Campi e prati spontanei dove i milanesi si rifugiarono dopo la distruzione della città voluta dall’imperatore Federico di Svevia nel 1162. In principio c’era solo una chiesetta in mezzo al nulla, un luogo sacro dedicato a San Siro alla Vepra, l’antico nome del fiume Olona che scorre poco distante.

    È là, in quei terreni all’estrema periferia di Milano, che nel 1926 sorgerà lo stadio di San Siro. Un impianto preceduto dall’ippodromo del Galoppo (1888) e dall’ippodromo del Trotto (1925) e seguito dallo sfortunato Palazzetto dello Sport (1976) il cui tetto crollò nel 1985 sotto il peso di una storica e infausta nevicata.

    In principio c’era solo una grande passione per il gioco del calcio, anzi per il foot-ball, come nei primi anni del Novecento amavano scrivere i giornali italiani. Le due squadre della città erano appena nate. Il Milan fu fondato il 16 dicembre 1899 all’Hotel du Nord et des Anglais in piazza della Repubblica, dove oggi c’è il lussuosissimo Principe di Savoia, l’hotel in cui tante popstar e rockstar alloggiano durante le loro permanenze milanesi, spesso prima dei concerti proprio allo stadio di San Siro.

    L’Inter, invece, divenne realtà nove anni dopo, il 9 marzo 1908, nel corso di una cena al ristorante L’Orologio di via Mengoni organizzata da un gruppo di soci dissidenti del Milan.

    I primi campi di calcio erano pionieristici, non recintati, senza tribune, con terreni difficilmente praticabili. Il Trotter di piazza Andrea Doria, realizzato nel 1900, è descritto come un campo di fortuna, ma fu il primo che si ricordi a Milano da un articolo della Gazzetta dello Sport datato 29 novembre 1973. È al Trotter che gioca le sue prime partite il neonato Milan Cricket and Football Club. È al Trotter che tira i primi calci a un pallone Giuseppe Meazza.

    Il Trotter è solo il primo capitolo della storia dei precursori di San Siro. Tre anni dopo, nel 1903, ecco spuntare il campo dell’Acquabella, nell’attuale piazzale Susa. La partita d’esordio sul nuovo manto erboso diventerà una classicissima: Milan-Juventus. È il 22 marzo, le tribune non ci sono ancora, né in legno né in cemento. Ma i progettisti hanno un’idea per agevolare la visuale dei tifosi: lungo i rettilinei del campo di gioco fanno depositare un po’ di terra per formare due montagnette, in pratica due tribune naturali. Gli organizzatori dei match ci piazzano anche qualche grande ombrellone, una primordiale copertura.

    Non è un vero e proprio stadio all’inglese. Milano si avvicina a quel tipo di impianto a piccoli passi. Bisogna aspettare altri tre anni. Nel 1906 viene realizzato un campo in via Fratelli Bronzetti, poco distante da Porta Vittoria, il quartiere di Peppino Meazza. È il primo terreno di gioco recintato, dotato di una biglietteria e di una tribuna in legno con tettoia. Il Milan dei primi anni di vita gioca anche lì.

    Dopo il 1908, intanto, l’Inter disputa le sue avventurose partite d’esordio in Ripa di Porta Ticinese, lungo il Naviglio Grande. Pochi mesi dopo, però, l’F.C. Internazionale ha già un proprio campo, in via Goldoni, al civico 61, tra Porta Venezia e piazzale Susa, poco distante dal già citato terreno dell’Acquabella. Quello di via Goldoni è uno dei tre stadi casalinghi nella storia dell’Inter insieme all’Arena napoleonica e a San Siro.

    Passa qualche anno ancora e nel 1914 c’è un nuovo campo da calcio in città, il campo sportivo Milanese, detto anche Velodromo Sempione. È in via Arena ed è un primo esperimento di connubio tra calcio e ciclismo. Ha tribune in legno sui rettilinei e due gradinate in cemento sulle curve. I rossoneri vanno là a giocare. Il Milan, però, nel 1920 decide di costruire un altro impianto in viale Lombardia. La strada non coincide con l’attuale toponomastica meneghina. Quell’impianto era in viale Campania, all’angolo con via Sismondi. Adesso in quello stesso luogo c’è un tennis club. Sul muro di una casetta interna si può ancora scorgere un antico stemma del Milan, una testimonianza un po’ scolorita dello stadio di viale Lombardia, il primo in Italia con una tribuna in cemento armato.

    L’allora presidente del Milan Piero Pirelli non è comunque ancora soddisfatto. Pirelli ha viaggiato, è stato in Inghilterra, ha studiato lì esattamente come fece suo padre, che a Londra scoprì il caucciù, il materiale che gli farà fare fortuna in Italia con i pneumatici. In Gran Bretagna Piero Pirelli ha visto gli impianti per il foot-ball, sa bene che quelli che ci sono in Italia e a Milano sono solo lontani parenti delle arene inglesi. Decide di darsi da fare: vuole realizzare il primo vero e proprio stadio milanese, una struttura all’avanguardia, simile a quelle anglosassoni. Già, ma dove? La scelta è quasi naturale: nel borgo di San Siro, che dalla fine dell’Ottocento si sta costruendo la fama di Città dello Sport. Nel nome dei fantini e dei cavalli, però, non ancora dei calciatori.

    Occorre fare un passo indietro, tornare al 1887, quando l’ippica sbarca a Milano. In quell’anno la Società Lombarda per le Corse dei Cavalli, presieduta dal principe Trivulzio, prende in affitto un terreno di 210 mila metri quadrati. Riesce a pagarlo poco, laggiù c’è solo campagna. L’obiettivo è trasferire le corse dai troppo lontani ippodromi di Castellazzo e Senago a pochi chilometri dal centro di Milano. Dalle parole si passa subito ai fatti, in perfetto stile ambrosiano. Nel 1887 il progetto del nuovo ippodromo del Galoppo firmato dall’architetto Giulio Valerio è pronto. Nel maggio 1888 la struttura è terminata e viene inaugurata. Nei giorni del taglio del nastro la rivista L’Edilizia Moderna la presenta così: La campagna di San Siro, nel sobborgo di Porta Magenta, presentava per Milano condizioni favorevoli all’impianto di un campo di corse, in ragione della sua vicinanza alla città e del vasto piano disponibile tanto per l’ippodromo che per la sistemazione degli accessi.

    Il nuovo ippodromo ha tre tribune principali, dai posti per la famiglia reale a quelli per i semplici e squattrinati appassionati. È un impianto modernamente attrezzato, per i canoni dell’epoca. Ci sono il portico per il pésage e le scuderie per i cavalli, una sala caffè e un’infermeria. Tutte strutture leggere: piano delle gradinate in muratura, parte superiore in legno. In fondo le corse si concentravano soprattutto in primavera e in estate, mentre in inverno gli ippodromi rimanevano chiusi per mesi.

    Gli appassionati di ippica crescono con gli anni e la struttura leggera non sembra più essere al passo con i tempi. Nel 1911 la Società Lombarda per le Corse dei Cavalli si trasforma nella Società d’Incoraggiamento delle Razze Equine (S.I.R.E.) e decide di rinnovare i propri impianti per renderli più adatti al rapido grandioso progredire della passione sportiva nella metropoli lombarda. La società indice subito un concorso internazionale tra architetti per il disegno della tribuna principale. Il vincitore della gara è Paolo Vietti Violi, diploma all’Accademia di Belle Arti di Ginevra, laurea in Architettura e Ingegneria al Politecnico di Milano, studi di perfezionamento a Parigi dove viene insignito del prestigioso titolo di architetto del governo francese. L’ippodromo milanese è solo il primo progetto di successo firmato da Vietti Violi, che in seguito disegnerà il Palazzo dello Sport nella Fiera di Milano (1921), l’ippodromo Mirabello di Monza (1923), quello delle Capannelle di Roma (1924), lo stadio della società Nafta di Genova (1925), l’ippodromo di Agnano a Napoli (1926) e l’ippodromo del Trotto di Bologna (1932).

    I lavori per l’ippodromo del Galoppo di San Siro partono nel 1914 ma sono interrotti dopo pochi mesi a causa dello scoppio della Prima guerra mondiale. Il cantiere riapre al termine del conflitto e l’impianto viene inaugurato nel 1920 davanti a diecimila entusiasti spettatori. La struttura è caratterizzata da due tribune e può contare anche su banchi del totalizzatore e chalet per gli allibratori.

    Vietti Violi progetta per la S.I.R.E. anche l’ancor più grazioso ippodromo del Trotto, realizzato a sud di quello del Galoppo e inaugurato nel 1925 alla presenza di diecimila persone accorse per assistere a una corsa dei mezzosangue. La tribuna principale del Trotter lunga ben 126 metri e le casette dai caratteristici tetti aguzzi in stile normanno sono gli elementi più originali dell’impianto.

    La Città dello Sport di San Siro, completata in seguito dal poco distante Lido di piazzale Lotto, si presenta così agli occhi di Piero Pirelli quando decide di realizzare in quell’area, proprio di fianco al Trotter, il nuovo stadio del Milan. Pirelli ha già un piede a San Siro. I terreni sono di proprietà della Società Anonima Interippodromi, poi trasformata in Società Anonima Immobiliare Lampugnano: tra i finanziatori c’è proprio il numero uno rossonero.

    Le condizioni per tentare l’impresa ci sono, l’area degli ippodromi è stata urbanizzata in pochi anni. Dal 1924 c’è anche un tram che collega il centro di Milano a San Siro. Pirelli accelera e affida il progetto all’ingegner Alberto Cugini. È lui il responsabile della direzione lavori, è lui che firma il documento approvato dalla commissione Urbanistica comunale il 3 settembre 1925. Ma il presidente del Milan non si accontenta del pur bravo Cugini. Per completare il progetto dello stadio di San Siro chiama Ulisse Stacchini, l’architetto che in quegli anni è alle prese con la realizzazione della monumentale Stazione Centrale milanese. Pirelli fatica non poco a convincerlo a completare l’apparato decorativo del nuovo impianto. L’architetto è convinto che la passione per il foot-ball si estinguerà rapidamente nei milanesi e negli italiani e che il suo lavoro sarà dunque inutile. Il presidente del Milan lo rassicura: Caro Stacchini, l’amore per il calcio non morirà mai negli italiani. Profetico. Il Comune di Milano la pensa come Pirelli, tanto che in una guida municipale del 1926 scrive: Fra le manifestazioni a grande adunata di pubblico deve essere posto in primo luogo il foot-ball, di origine italiana, malgrado che sia ripreso e importato dall’Inghilterra. Esso ha conquistato non solo la gioventù, ma anche gli anziani.

    Il terreno c’è, il progetto pure, il via libera del Comune non è un problema. La Società Anonima Immobiliare Lampugnano lancia un concorso per individuare l’impresa che realizzerà l’opera. L’appalto viene affidato alle Imprese Riunite Fadini di Milano. Il costo stimato per costruire lo stadio di San Siro è di sei milioni di lire. Nell’Archivio comunale sono conservate poche notizie sul progetto del nuovo impianto. Gli atti parlano sinteticamente della realizzazione, tutto intorno al campo di gioco, di quattro tribune in cemento armato con ossatura a pilastri, travi e solette e con una copertura in ferro ed eternit in una sola delle quattro tribune. I documenti dell’epoca aggiungono che tali costruzioni servono a una temporanea residenza di pubblico.

    Quel primo San Siro è un’opera da 10 mila quintali di cemento armato, 1.500 tondini di ferro, 3.500 metri cubi di sabbia e 120 operai impiegati. Quello stadio si estende per circa 22 mila metri quadrati, di cui 7.500 coperti, ed è orientato da nord a sud per sfruttare una luminosità favorevole durante le ore pomeridiane.

    Il campo di gioco è lungo 110 metri e largo 70, ma si può estendere fino a 120 per 75 metri. Le quattro tribune sono a segmento. Ciò vuol dire che ai quattro angoli le gradinate non ci sono: restano quattro vuoti, quattro buchi da cui si scorgono, in lontananza, da un lato le case, dall’altro i prati verso Trenno e Lampugnano. San Siro non è ancora un catino. Le quattro tribune non sono neanche perfettamente simmetriche, ma hanno altezze diverse: 16 gradoni nelle due curve, 27 gradoni nella tribuna coperta per Casa reale, autorità e borghesi, 31 gradoni nell’opposta tribuna del rettilineo, quella dedicata ai popolari. Il nuovo stadio può contenere fino a 40 mila spettatori. I posti a sedere sono 25 mila, quelli in piedi lungo i parterre predisposti sotto le quattro tribune sono 15 mila. I giocatori entrano sul manto erboso attraverso un sottopassaggio collegato direttamente agli spogliatoi.

    San Siro appare simile ad alcune arene inglesi di inizio Novecento. È un impianto non avveniristico, ma funzionale agli obiettivi della Città dello Sport. Sotto le tribune i progettisti ricavano vari spazi. Sotto la gradinata principale ci sono spogliatoi, palestra, sala per gli arbitri, servizi igienici, buvette, uffici per la direzione. In corrispondenza della gradinata dei popolari, invece, c’è l’abitazione del custode ma ci sono anche scuderie per i cavalli, fienili e magazzini per il deposito dell’avena. Il motivo è semplice: il Trotter è distante solo pochi metri, l’attuale larghezza di via Piccolomini, e il legame tra stadio e ippodromo è ancora fortissimo.

    I lavori terminano nei tempi concordati con l’impresa, Pirelli canta vittoria: il Milan ha il suo nuovo stadio, Milano non ha mai visto un impianto del genere. Non resta altro da fare che fissare la data dell’inaugurazione e decidere contro chi giocare. Il presidente rossonero fa una scelta coraggiosa, chiama i cugini dell’Inter che in quegli anni precedono sempre il Milan in classifica. Il suo ragionamento è semplice: per un grande stadio ci vuole un grande match di apertura. Pirelli punta sulla decisione più romantica, in fondo la più giusta: il 19 settembre 1926 la prima partita a San Siro sarà Milan-Inter. Sì, proprio il derby, una parola che negli anni precedenti era diventata familiare ai milanesi. In pochi la chiamano stracittadina, all’italiana. Per tutti, rossoneri e nerazzurri, è semplicemente il derby, ancora oggi. Un altro termine importato dall’Inghilterra. Ci sono due versioni sull’origine del significato attribuito alla parola. La prima narra che la stracittadina per antonomasia sia la sfida tra le due squadre della cittadina anglosassone di Derby: Ashbourne contro Derbyshire. Da qui il termine adottato nel gergo calcistico. La seconda, invece, punta su una genesi ippica: l’omonima corsa equestre ideata dal dodicesimo conte di Derby nel 1780.

    Al di là delle differenti versioni della storia, in campo, quel 19 settembre 1926, scendono Milan e Inter. A dire il vero la risposta dei tifosi non è proprio entusiastica: gli spalti di San Siro si riempiono solo per un terzo della capienza. Il nuovo impianto è ancora poco conosciuto, la distanza tra il centro e la Città dello Sport è rilevante. I nerazzurri, già un po’ bauscia, preferiscono la centralissima e più nobile Arena Civica alla periferica casa dei cugini casciavit. Il primo impatto di addetti ai lavori e spettatori con la nuova arena, comunque, è più che positivo. La cronaca della Gazzetta dello Sport dice molto a riguardo: "Il pubblico è affluito allo stadio con buona riserva di esclamazioni ammirative per le mirabilia che si erano dette e stampate sul nuovo ambiente sportivo. La realtà apparsa ai suoi occhi è stata superiore alla stessa immaginazione. Lo sforzo finanziario della costruzione è stato felicemente eguagliato dallo sforzo organizzativo. Servizi, accessi, controlli e misure d’ordine erano magnificamente adatti all’opera e alla circostanza. Ogni particolare era amorosamente curato e l’insieme ha letteralmente affascinato gli spettatori". In tribuna d’onore, a nobilitare l’inaugurazione, c’è Sua Altezza Reale il Duca di Bergamo.

    La partita è divertente. Il Milan è il primo a passare in vantaggio. Segna il centravanti rossonero Santagostino all’undicesimo, ma i nerazzurri pareggiano dopo appena quattro minuti con Powolny e poi dilagano con Fulvio Bernardini e Luigi Cevenini III, detto Zizì per la lingua arguta e pungente (era come una zanzara: Zzz... Zzz...), idolo dell’allora sedicenne Giuseppe Meazza. Dopo un’ora di gioco, l’Inter conduce 6-1. Il Milan ha ancora il tempo per accorciare le distanze. Il risultato finale è 6-3. Vince l’Inter, come da pronostici della vigilia.

    La leggenda dello stadio di San Siro inizia quel giorno. Solo cinque mesi dopo, il 20 febbraio 1927, il nuovo impianto ospita la prima partita della Nazionale: Italia-Cecoslovacchia 2-2. Il nome San Siro diventa noto in tutto il Paese.

    Lo stadio meneghino ha un unico difetto in quegli anni: il terreno di gioco non perfetto. Pirelli avrebbe voluto un prato impeccabile, all’inglese. Chi l’ha calpestato, invece, giura che non fu mai così. La testimonianza di Gianni Brera, all’epoca aspirante calciatore e non ancora acclamato giornalista, è nuda e cruda: Frequentavo San Siro il giovedì, quando il cavaliere Adolfo Baloncieri allenava gli allievi e i boys. Nel mio destino pareva scritto che dovessi pedatare anziché esercitare una professione liberale. Di Baloncieri ricordo la pretesa che io, centromediano emulo di Monti, lanciassi le ali senza che la palla si levasse più di una spanna da terra (...). Di quel lontano aspetto di San Siro posso anche ricordare il terreno, che era qualcosa di mezzo tra il fango e il sapone. Battendo una punizione dal limite mi mancò il piede di appoggio e mi trovai coricato supino come un tànghero.

    I lavori realizzati al momento della costruzione dello stadio non bastano per ottenere un perfetto manto erboso: i tecnici e gli operai scavano per la profondità di un metro e poi ricoprono tutto con un manto permeabile di ghiaia e con uno strato di zolle di coltura, in seguito riseminate. Intorno viene realizzato un impianto di fognature per assorbire in tempi rapidi l’acqua che arriva sul prato quando piove. Tutto inutile, o quasi. Il prato di San Siro non sarà mai perfetto. Un difetto che si porterà dietro anche dopo i tre ampliamenti del 1937-1939, 1955 e 1990, in particolare dopo la costruzione del terzo anello e della copertura per i Mondiali di Italia 90. Ma non anticipiamo troppo i tempi. Torniamo agli anni Trenta del secolo scorso.

    San Siro ha l’onore di ospitare la semifinale dei Mondiali di calcio del 1934. L’Italia gioca in casa, è tra le favorite per la vittoria finale. Le manca solo una partita per disputare la finalissima di Roma. Il 3 giugno, una domenica, gli azzurri affrontano l’Austria nello stadio milanese. Basta un gol di Guaita al diciannovesimo del primo tempo per far superare lo scoglio della semifinale all’Italia, destinata a diventare Campione del Mondo per la prima volta nella sua storia.

    Per Italia-Austria San Siro è tutto esaurito: quarantamila spettatori. Fuori dallo stadio restano alcune centinaia di tifosi che avrebbero voluto assistere alla sfida. Niente da fare. Non c’è più neanche un posto disponibile. Un fatto che nei giorni successivi fa discutere l’opinione pubblica milanese: San Siro non è abbastanza grande per contenere il crescente numero di tifosi del foot-ball. Si inizia a parlare di ampliamento. Gli esempi da seguire non mancano: nel 1933 Torino ha inaugurato il suo stadio comunale da cinquantamila posti. Diecimila in più di San Siro.

    Nel 1935 il Comune di Milano acquista lo stadio del Milan e procede quasi subito in tal senso. In quegli anni l’amministrazione municipale investe tempo e risorse nella costruzione di nuovi impianti sportivi, dalla piscina Cozzi al velodromo Vigorelli. L’ampliamento dello stadio è un altro tassello della stessa strategia. Il 10 settembre 1937 Palazzo Marino approva la delibera che dà il via libera ai lavori, il progetto è firmato dall’ingegner Giuseppe Bertera e dall’architetto Perlasca dell’Ufficio tecnico comunale.

    L’obiettivo principale è ingrandire le due tribune presenti nelle curve, in quel momento più piccole di quelle sui rettilinei, e costruirne altre quattro nelle curve di raccordo tra le quattro gradinate edificate tra il 1925 e il 1926. San Siro non deve più avere spazi vuoti tra rettilinei e curve. San Siro deve diventare un vero e proprio catino. È una svolta architettonica. L’impianto milanese abbandona il modello a segmenti e diventa una struttura perimetrale. La Relazione a corredo del progetto esecutivo, stilata come Perizia addizionale alla fine dei lavori del 1939 e conservata nell’Archivio Civico, fornisce alcuni dettagli in più sulle opere realizzate tra il 1937 e il 1939: rifacimento delle facciate, parterre a gradoni per migliorare la visibilità del terreno di gioco, nuovi spogliatoi e docce per gli atleti, quattro piccole piscine come da ordine del Coni, spazi attrezzati per arbitri e guardalinee. E ancora: costruzione di nuova tribuna autorità, la cui capienza sale da 40 a 80 posti, sostituzione della recinzione tra terreno di gioco e gradinate, ristrutturazione della copertura e sostituzione delle lastre in eternit rovinate, realizzazione di otto androni di accesso al campo in aggiunta ai cinque esistenti e di dodici scale di accesso alle tribune in aggiunta alle tre esistenti, creazione di nuovi impianti tecnici e allestimento di sei cabine per le trasmissioni radiofoniche.

    L’appalto viene affidato ancora una volta all’impresa Fadini, che rispetto a dodici anni prima ha cambiato ragione sociale: nel 1937 si chiama Ing. Luigi Fadini & C. Il cantiere parte ma non procede spedito, anzi. In tempi di autarchia – l’autosufficienza di materie prime predicata dal Regime fascista negli anni Trenta – è complicato reperire il ferro necessario per l’ampliamento dello stadio. Una difficoltà già riscontrata in fase progettuale. Prima di adottare le idee proposte da Bertera e Perlasca, non a caso, il Comune accantona un progetto ben più ambizioso per San Siro firmato dall’ingegnere Luigi Secchi, autore del disegno della piscina Cozzi e noto strutturista.

    Il disegno di Secchi prevedeva un sistema di tribune sovrapposte per lo stadio, simile a quello che sarà realizzato a metà degli anni Cinquanta con la costruzione del secondo anello. Un’opera che negli anni Trenta avrebbe richiesto una quantità di ferro sproporzionata per i canoni dell’epoca. Risultato: il progetto adottato è più semplice, prevede solo l’ampliamento del primo anello. In ogni caso, sempre a causa della difficoltà di reperire il ferro necessario, i lavori procedono a rilento. L’accelerazione arriva solo nel maggio 1938, quando nel cantiere arrivano a lavorare fino a mille operai al giorno. Il Regime vuole rispettare a tutti i costi l’appuntamento fissato per l’inaugurazione del secondo San Siro: la partita Italia-Inghilterra in programma il 13 maggio 1939. Obiettivo raggiunto: gli azzurri giocheranno con gli inglesi. La partita si concluderà con un onorevole 2-2.

    Quel giorno lo stadio si presenta ai milanesi nella sua nuova veste, un primo anello più ampio e completato su tutti e quattro gli angoli. La capienza aumenta notevolmente: da quarantamila si passa a cinquantacinquemila posti, che sulla carta possono raggiungere quota sessantamila.

    La Seconda guerra mondiale, intanto, si avvicina a grandi passi e a Milano non si parla più di lavori a San Siro. Il tema torna d’attualità solo nel Dopoguerra. L’Italia che esce dal conflitto ha voglia di spensieratezza e di svago. Il capoluogo lombardo non è da meno. La passione per il calcio aumenta, il Campionato di Serie A riprende e nello stadio meneghino si riversano migliaia di appassionati. San Siro inizia a star stretto alla città che si avvia verso il boom economico. I cinquantacinquemila posti non bastano più a contenere l’entusiasmo dei tifosi rossoneri e nerazzurri. Il sindaco Antonio Greppi, un avvocato di tradizione socialista riformista eletto nel 1946, pensa subito a un ulteriore ampliamento dell’impianto, dopo aver finanziato la ricostruzione di altri luoghi-simbolo della metropoli come il Teatro alla Scala e Palazzo Marino. Già nel 1947 la Giunta comunale delibera di incrementare la capienza di San Siro e nel 1948 la Società fondiaria e per le imprese edili, che aveva realizzato il Vigorelli, presenta in municipio un progetto denominato Milano. Stadio per 150.000 preparato dall’ingegnere Ferruccio Calzolari e dall’architetto Armando Ronca.

    Il piano è ambizioso e avveniristico. Prevede la costruzione di altri due anelli sopra quello già esistente. In pratica immagina San Siro con una struttura simile, anche se non identica, a quella che si sarebbe realizzata tra il 1987 e il 1990 per i Mondiali italiani. L’affinità tra i due progetti è sorprendente. Il secondo anello dà parziale copertura al primo, mentre il terzo prosegue la linea dell’anello sottostante e decresce solo sul lato di via Piccolomini, perché l’eccessiva vicinanza con il Trotter non lascia sufficiente spazio per realizzare il terzo anello anche da quella parte. Un’impostazione quasi uguale a quella che sarà adottata alla fine degli anni Ottanta. Ma il progetto Calzolari-Ronca è fin troppo avanti per i tempi. Alla fine degli anni Quaranta la capienza di centocinquantamila posti sembra eccessiva al Consiglio superiore dei lavori pubblici, il quale impone una riduzione sotto quota centomila a Comune e tecnici. Nel 1951 Calzolari e Ronca presentano al sindaco Greppi un piano riveduto e corretto: il terzo anello non c’è più. Il 3 marzo 1952 il Consiglio comunale approva il documento definitivo. La capienza prevista per il terzo San Siro è di 90.600 posti, anche se nei documenti si precisa che in caso di sovraffollamento il numero di spettatori può crescere fino a quota centodiecimila. In realtà questi numeri restano solo sulla carta: un successivo rifacimento della linea di fondo campo e lo spostamento della recinzione tra terreno di gioco e parterre riduce la capienza a ottantacinquemila posti.

    Il progetto esecutivo c’è, non resta che affidare l’appalto. Alla gara partecipano ventidue imprese edili, vince la Società Sogene di Roma. Lo sforzo richiesto dal Comune all’impresa è notevole: i lavori dovranno andare avanti e concludersi nei tempi preventivati senza interrompere il settimanale utilizzo di San Siro per le partite di Milan e Inter. In pratica lo stadio dovrà raddoppiare la sua capienza senza mai sfrattare le squadre: le diciannove rampe e diciannove scale di accesso al secondo anello dovranno essere realizzate senza impedire l’ingresso al primo anello per i match in programma.

    La Sogene rispetta i paletti fissati dall’amministrazione municipale. Dal 31 maggio 1954 al 10 novembre 1955 l’impresa schiera nel cantiere dai duecentocinquanta ai trecento operai, con punte massime di quattrocento durante il rush finale. Le foto che illustrano l’avanzamento dei lavori fanno una certa impressione: le armature della struttura ancora da completare sono distanti pochi metri dalle tribune frequentate dai tifosi. Non solo. A cantiere ancora aperto, si disputano tre partire di cartello, con migliaia di spettatori sugli spalti: Milan-Dynamo, Milan-Inter e Milan-Juve. Fila tutto liscio.

    L’inaugurazione del terzo San Siro è fissata per il 25 aprile 1956. La partita è di assoluto prestigio: Italia contro Brasile. Gli azzurri vincono 3-0. Il pubblico sugli spalti è entusiasta. Per il trionfo sui verdeoro, certo, ma anche per il nuovo stadio. I cronisti presenti promuovono a pieni voti il realizzato ampliamento. Il Corriere d’Informazione osserva che lo sterminato catino è apparso in tutta la sua imponenza, l’Avanti! sottolinea che l’impianto ristrutturato è un complesso di scale e spalti degno di una grande città, Il Popolo di Milano è ancor più retorico: L’armonioso e quasi colossale catino di cemento costituirà la meraviglia degli stranieri e l’orgoglio delle folle che lo riempiranno.

    La descrizione più suggestiva di quel San Siro con due anelli e con le rampe ad avvolgerlo, però, si deve a Gianni Brera e sarà scritta trent’anni dopo l’inaugurazione del 1956: L’ultima riforma, che portò al secondo anello, trasformò San Siro in un immenso transatlantico: la notte, con le rampe illuminate come ponti, lo stadio pareva navigasse in una prodigiosa crociera.

    San Siro come un transatlantico. Un’immagine che poteva uscire solo dalla penna di Brera. Ma è un altro giornalista, Guido Vergani, a descrivere meglio di tutti cosa rappresentava la grande arena per i milanesi negli anni Cinquanta: L’ansia del fine settimana non ci attanagliava ancora. Le domeniche erano tutte milanesi e ruotavano soprattutto su San Siro. Portafogli risicati ci impedivano persino di sognare approdi diversi che del resto non erano, come oggi, a portata d’autostrada e dei tempi stretti di un weekend. In quegli anni Cinquanta che non erano stati ancora miracolati dal ‘boom’, San Siro era il nostro mare domenicale, la nostra montagna, la nostra campagna fuori porta. Era il luogo della festa e ci pareva addirittura che là arrivasse l’ossigenazione delle vette lontanissime oltre via Novara.

    San Siro come il mare domenicale dei milanesi. Meglio ancora dell’Idroscalo, dove pure l’acqua c’è. Vergani azzarda addirittura una climatologia dello stadio, settore per settore: La curva sud, poco battuta dal sole, era polare d’inverno, ma diventava ambitissima nelle ultime giornate di campionato: quando l’estate si faceva sentire, là pareva di stare in mezza collina. Quella a nord si affocava di sole ma aveva, anche nell’inoltrata primavera, i suoi appassionati. Era una sorta di surrogato delle spiagge romagnole, un avamposto di cittadine tintarelle da sfruttare anticipando l’arrivo allo stadio, come faceva il pittore Emilio Tadini, noto per la sempiterna abbronzatura.

    In quel San Siro degli anni Cinquanta le curve sud e nord non sono ancora occupate militarmente dagli ultrà rossoneri e nerazzurri e gli spettatori sono liberi di muoversi senza problemi. Il giornalista del Corriere della Sera, figlio dell’ancora più noto Orio Vergani, descrive anche un settore che il rifacimento dello stadio degli anni Ottanta ha cancellato: il parterre, cioè i posti in piedi posizionati subito dietro la cancellata del campo di gioco e davanti alle tribune del primo anello. Là, schiacciati come sardine nelle partite di cartello, più comodi nei match di rango inferiore, i tifosi erano distanti pochi metri dai loro idoli e dai calciatori avversari. Vale la pena di riportare la descrizione che ne fa Vergani: C’erano i maniaci del ‘primissimo piano’, della sequenza ravvicinata: si piazzavano nei ‘parterres’, dietro le cancellate. Stavano impavidamente in piedi, spesso issati su palchetti che si portavano da casa e che permettevano di spaziare sul verde del campo, al di sopra delle teste. I fedeli del ‘parterre’ si dividevano in tre grandi categorie: quelli che preferivano arroccarsi sotto le tribune centrali forse per avere la sensazione snobistica di una gratificante vicinanza con gli ‘sciuri’; quelli che deambulavano sotto ai ‘distinti’ quasi passeggiando su e giù secondo l’andare delle manovre di gioco; quelli che prediligevano il ‘dietro rete’ per poter stabilire un contatto quasi fisico con il portiere da insultare, se avversario, e da incoraggiare confidenzialmente, come un vicino di pianerottolo di ringhiera, se della propria parrocchia calcistica.

    San Siro si presenta così all’alba dei favolosi anni Sessanta. Sono anni leggendari per Milan e Inter. In quel decennio i rossoneri vincono due scudetti, due Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, una Coppa delle Coppe e una Coppa Italia, mentre i nerazzurri ribattono con tre scudetti, due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali. Il Milan di Nereo Rocco e Gianni Rivera è la prima squadra italiana a trionfare nel massimo torneo continentale. La Grande Inter di Helenio Herrera e Sandro Mazzola apre un ciclo che segnerà un’epoca.

    Non ci soffermeremo su quei trionfi calcistici, l’hanno già fatto altri prima di noi. Ma musicalmente parlando è doveroso il ricordo di un derby, quello del 20 novembre 1966: Milan-Inter 0-1, autogol di Maddè al settantaquattresimo. In tribuna, a San Siro, c’è Adriano Celentano, simpatizzante nerazzurro. Il Molleggiato rimane così colpito da quella sofferta vittoria e dallo spettacolo offerto dai tifosi allo stadio che decide di dedicare a quel derby una canzone. Gliela scrive Gino Santercole, presenza fissa del Clan Celentano. Si intitola Eravamo in centomila. Gli spettatori sono arrotondati per eccesso, in realtà per quella stracittadina ci sono settantamila tifosi sugli spalti. La cifra riportata nel titolo è una sorta di licenza poetica.

    Eravamo in centomila viene pubblicata nella primavera del 1967 come lato B di Tre passi avanti, brano anti-beat che sorprende i giovani dell’epoca per il tono conservatore che non si aspettavano dal Molleggiato. Il singolo di Eravamo in centomila viene lanciato poche settimane dopo con un altro 45 giri che contiene anche Torno sui miei passi e La coppia più bella del mondo. Il pezzo dura poco più di due minuti e si divide in due parti: prima l’incontro con la ragazza con un ritmo lento e ammaliante, poi la seconda parte dove Celentano si dichiara a tempo di rock’n’roll.

    San Siro, nel testo, non viene mai esplicitamente citato ma, in un video che accompagna il singolo, Celentano compare da solo, vestito da dandy, sulle gradinate del secondo anello dello stadio milanese. È la prima volta nella storia della musica italiana che San Siro diventa il protagonista di una canzone.

    Scusi Lei! (Che c’è?)

    Dove va? (Perché?)

    O bella mora,

    se non sbaglio Lei ha visto l’Inter-Milan con me

    Ma come fa Lei a non ricordar?

    Noi eravamo in centomila allo stadio quel dì

    Io dell’In (Inter),

    Lei del Mi (Milan),

    O bella mora,

    da una porta all’altra Le sorrisi e Lei disse sì.

    E poi finita la partita,

    La vidi uscire di sfuggita con uno sul tram

    Adesso Lei mi deve dir chi è

    È una partita fra noi due perché

    Lei ha segnato un gol,

    Lei ha segnato un gol

    diretto nella porta del mio cuore

    ed ho capito che c’è solo Lei per me,

    ed ho capito che c’è solo Lei per me.

    Gli anni Sessanta passano, gli anni Settanta pure. San Siro rimane sempre uguale a se stesso. Gli anni Ottanta, invece, segnano una svolta. Lo stadio milanese cambia nome, il Comune lo intitola a Giuseppe Meazza. La cerimonia si svolge il 2 marzo 1980, prima di un derby. Presenti il sindaco Carlo Tognoli, i presidenti di Milan e Inter Felice Colombo e Ivanoe Fraizzoli e la vedova dell’ex calciatore. La targa collocata all’interno dell’impianto recita così: A Giuseppe Meazza, espresso dal suo cuore generoso, il popolo di Milano intitola questo glorioso stadio più volte illuminato dalle sue gesta d’atleta. Sono parole scelte da Gianni Brera. La dedica arriva pochi mesi dopo la morte di Meazza, avvenuta il 27 ottobre 1979 per un male incurabile. Quel 2 marzo 1980 l’emozione per la scomparsa di uno dei più grandi calciatori italiani è ancora viva.

    Già, ma chi era Giuseppe Meazza? La domanda è opportuna. Del calciatore di Inter, Milan, Juve, Varese, Atalanta e della Nazionale restano solo foto in bianco e nero e brevi filmati di stralci delle sue partite. Giovani e meno giovani non l’hanno mai visto giocare. Eppure la leggenda di Meazza resiste allo scorrere del tempo e il nome dell’impianto meneghino contribuisce a rafforzarla.

    Meazza nasce il 23 agosto 1910 a Milano, in via Maestri Campionesi, nel popolare quartiere di Porta Vittoria, dove una volta si teneva il mercato ortofrutticolo. La mamma Ersilia ha un banco di frutta e verdura, è arrivata a Milano da Mediglia, nella Bassa Lodigiana. Il padre muore nel 1917 durante la Prima guerra mondiale, quando il giovane Peppino ha solo sette anni.

    Meazza è un talento precoce. Da piccolo ha problemi ai polmoni, è gracile, ma con il pallone tra i piedi è un fenomeno. Frequenta la scuola all’aperto all’interno del Parco Trotter, il terreno milanese in cui si disputano le prime partite di calcio in città. È un predestinato.

    Inizia a giocare con la squadra del suo quartiere, la Costanza. Da bambino tifa per il Milan, fa un provino per i rossoneri ma viene scartato perché troppo magro. Mai valutazione fu più sbagliata. A quattordici anni entra nelle giovanili dell’Inter. Fulvio Bernardini – allora calciatore nerazzurro e in seguito allenatore azzurro – nota subito quel ragazzino dalle doti tecniche fuori dal comune e lo segnala all’allenatore della prima squadra, l’ungherese Árpád Weisz. Meazza a diciassette anni gioca già con i grandi. Il tecnico lo convoca per una partita del Torneo Volta di Como e lo inserisce nella formazione titolare. L’attaccante Leopoldo Conti guarda il giovane e smilzo compagno e osserva scettico: Adesso facciamo giocare anche i balilla. Peppino entra in campo e fa due gol. L’Inter vince contro l’Unione Sportiva Milanese 6-2 e conquista la Coppa. È il 27 settembre 1927. Da quel giorno Meazza diventa titolare fisso dell’Inter e ha già il soprannome che lo accompagnerà per tutta la sua carriera: il Balilla.

    Weisz pretende molto dalla nuova promessa del calcio italiano. Lo costringe a palleggiare solo con il piede sinistro, che non è quello preferito da Peppin, perché un grande calciatore deve avere tutte e due i piedi. Meazza diventa un perfetto ambidestro.

    Il primo anno di Serie A (1927-1928) il Balilla segna 12 gol in 33 partite. Il secondo sale a 33 reti in 29 presenze, una media-gol stupefacente. Il terzo anno (1929-1930), con 31 gol in 33 partite, conquista il titolo di capocannoniere e l’Inter vince lo scudetto. Peppino ha ancora 19 anni ma è già un campione affermato. Incanta i tifosi con i suoi dribbling secchi e le sue finte imprevedibili. Gianni Brera lo paragona a un torero: Un fulmineo guizzo oltre i terzini, la breve galoppata verso la porta, l’‘aja toro!’ al portiere esterrefatto, il lieve irridente tocco nell’angolo basso proprio rasente il palo. È il gol alla Meazza. A chi somiglia il campione nerazzurro, in confronto ai moderni fuoriclasse? L’editorialista del Corriere della Sera e opinionista Rai Mario Sconcerti azzarda un paragone: Personalmente lo immagino un Baggio più decisivo.

    Confronti a parte, il ragazzo di Porta Vittoria è un autentico fuoriclasse. Ma è anche il primo vero divo del calcio italiano. Gli piace la bella vita, frequenta i locali notturni, gira con le fuoriserie, compare sui giornali patinati per pubblicizzare prodotti da bagno e l’immancabile brillantina. Ama le belle donne, le ragazze gli mandano lettere profumate. È spregiudicato, frequenta i bordelli. Una volta si sveglia in una casa di tolleranza alle due del pomeriggio con due ragazze nel letto. Poco meno di un’ora dopo c’è una partita dell’Inter all’Arena. Meazza chiama un taxi, si fa portare ancora in pigiama al campo, entra sul terreno di gioco in ritardo, ma segna lo stesso due gol. È incontenibile.

    I numeri della sua carriera aiutano a capirne la grandezza: 433 partite in Serie A e 278 gol (Ambrosiana-Inter, Milan, Juve, Varese, Atalanta e rientro all’Inter), due scudetti (’30 e ’38), una Coppa Italia (’39) e tre titoli di capocannoniere (’30, ’36 e ’38) in nerazzurro. Ma sono i due titoli mondiali vinti con l’Italia nel 1934 e nel 1938 a far entrare il nome di Meazza nella leggenda del calcio. L’esordio con gli azzurri risale al 9 febbraio 1930 e come al solito è con il botto. L’Italia vince 4-2 con la Svizzera e il Balilla fa due gol. La consacrazione è di tre mesi dopo: Italia-Ungheria 5-0, tripletta di Peppino davanti ai maestri danubiani. L’allenatore italiano Vittorio Pozzo già stravede per l’interista: Averlo in squadra significa partire da 1-0.

    I Mondiali disputati in Italia nel 1934 non fanno altro che confermare le sue straordinarie doti. Il giovane fuoriclasse trascina gli azzurri fino alla finale di Roma vinta 2-1 contro la Cecoslovacchia. Il nome dell’attaccante principe dell’Italia diventa famoso ovunque.

    Dopo i Mondiali, il 14 novembre 1934, l’Italia va a sfidare l’Inghilterra oltre Manica. Gli azzurri non hanno mai vinto contro i maestri del football. La partita si mette subito male. L’Italia resta in dieci dopo pochi minuti per l’infortunio di Luis Monti (a quei tempi le sostituzioni non erano previste) e va sotto di tre gol nel primo tempo. Nell’intervallo, però, Ferrari sprona la squadra con il suo tipico motto chi si estranea dalla lotta è un gran figlio di mignotta e l’Italia ha una grande reazione di orgoglio. L’assoluto protagonista del secondo tempo è Giuseppe Meazza, che segna due gol in quattro minuti e sfiora il pareggio al novantesimo: il pallone da lui calciato si infrange sulla traversa. La partita finisce 3-2 per l’Inghilterra, ma gli azzurri escono dallo stadio tra gli applausi del pubblico britannico e degli emigrati italiani presenti. Quella partita entra nella storia del calcio come la battaglia di Highbury. La fama di Meazza raggiunge l’apice. La sua leggenda cresce anche dopo una sconfitta. E il 14 novembre 1973, quando l’Italia riuscirà a battere per la prima volta gli inglesi a Wembley grazie a un gol di Fabio Capello, i calciatori azzurri dedicheranno quella vittoria proprio ai Leoni di Highbury.

    Quattro anni dopo, ai Campionati di Francia del 1938, il Balilla concede il bis mondiale. Le cronache dell’epoca raccontano un episodio davvero curioso accaduto in semifinale. È il 16 giugno, l’Italia affronta il Brasile a Marsiglia. Meazza deve calciare il rigore decisivo ma si accorge che l’elastico dei suoi pantaloncini si è rotto. L’attaccante non si tira indietro, regge i pantaloncini con una mano, si avvia sul dischetto e tira il penalty: palla all’angolino, portiere immobile. Risultato finale: Italia-Brasile 2-1. È l’unico gol di Peppino in quel torneo, ormai gioca più indietro, da mezzala, la prima punta è Silvio Piola, che segnerà quattro reti in totale. In finale, contro l’Ungheria, Meazza non fa gol ma è ugualmente decisivo con gli assist: gli azzurri vincono 4-2 e alzano la Coppa Rimet. Campioni del Mondo per la seconda volta di seguito. Benito Mussolini, Duce del fascismo e presidente del Consiglio, convoca la Nazionale a Roma per congratularsi per la vittoria d’Oltralpe e quando si trova di fronte Meazza gli dice: Ha fatto più lei per l’Italia che un qualsiasi ambasciatore. In quel momento il Balilla è uno degli uomini più famosi d’Italia.

    Meazza chiude la sua carriera con la Nazionale un anno dopo, nel 1939. Il suo bottino è da record: 53 presenze, 33 gol. Il primato di reti con la maglia azzurra sarà battuto solo da Gigi Riva negli anni Settanta. Peppino non la prenderà bene e commenterà acido: Bravo quel Riva, ma ha segnato tanti gol giocando contro Cipro e Turchia. I miei gol sono stati sicuramente più importanti. Rombo di tuono è servito.

    La fase calante della carriera di Meazza inizia alla fine del 1938 a causa di un infortunio durante una partita con l’Italia. È un incidente grave, che lo costringe a saltare l’intera stagione 1939-1940. È il cosiddetto piede gelato, in termini medici una vasocostrizione di natura traumatica di un’arteria del piede, il sinistro nel suo caso, che non permette un regolare afflusso di sangue all’arto. Quando Meazza torna in campo dopo un piccolo intervento, non è più quello di prima. Decide di cambiare squadra. Nel 1941 passa al Milan, anzi al Milano, come si chiamava la squadra rossonera negli anni autarchici del fascismo. Segna anche un gol nel derby contro gli ex compagni nerazzurri.

    Meazza diventa un traditore per i tifosi interisti. Lo ricorda lo stesso Peppino in una testimonianza raccolta da suo nipote Federico Jaselli Meazza: L’incredibile divenne realtà: i tifosi che da sempre mi avevano seguito sui campi dell’Arena e di San Siro con la maglia nerazzurra dovettero abituarsi a vedermi con quella rossonera. Tuttavia non riuscivo a sentirmi quei colori addosso e non è possibile spiegare quanto stessi male nelle gare stracittadine. Di quell’annata con il Milan ricordo proprio il derby che finì con un pareggio grazie a una mia rete realizzata a pochi minuti dalla fine: data la situazione psicologica, sia mia sia del pubblico, quella partita non mi diede molta soddisfazione. I più accaniti tifosi dell’Inter me ne urlarono di tutti i colori: quel tradimento non me lo potevano perdonare.

    Meazza ricorda che tra loro c’era Angelo Moratti, il futuro presidente della Grande Inter. Ma in quegli anni l’ormai ex bandiera nerazzurra si trova nei guai anche in famiglia: Persino mia moglie Rita e soprattutto le mie figlie Silvana e Gabriella mi hanno rinfacciato per anni quel tradimento, loro che sono sempre state sostenitrici dell’Inter.

    Meazza si pentirà di quel voltafaccia. Negli anni Cinquanta, quando allena le giovanili dell’Inter, accade un episodio emblematico che descrive perfettamente i suoi sentimenti nei confronti delle due squadre milanesi. Un episodio raccontato da Sandro Mazzola, allora boys nerazzurro allenato da Meazza: Era la vigilia di un derby tra la nostra squadra giovanile e quella del Milan. Normalmente con il signor Meazza ci si trovava di pomeriggio al campo di periferia dove si sarebbe giocata la partita. Quel giorno invece ci convocò a sorpresa, al mattino, al Circolo dell’Inter di via Olmetto. Era il luogo di ritrovo della prima squadra, la domenica prima della partita. Ci spiegò la ragione per cui ci aveva chiamati lì con un discorso: ‘Ragazzi, vi devo confessare che ho una macchia nera nella mia vita... Io ho indossato la maglia rossonera per due anni, ma sappiate che sono sempre stato e sarò sempre interista. Dovete farmi un grosso regalo quest’oggi: a quella squadra oggi dovete fare cinque, dieci, venti gol!’.

    Chissà se il sindaco Tognoli, interista doc, ha in mente queste parole quando decide di intitolare lo stadio di San Siro a Meazza. Ma no, la nostra è solo una battuta. Il nome di Giuseppe Peppin Meazza va oltre il tifo calcistico, è iscritto di diritto nella storia e nella leggenda del calcio. Quel 2 marzo 1980, il giorno in cui il Comune ricorda uno dei suoi figli più noti al mondo con quella targa allo stadio, Milano compie solo un gesto dovuto nei confronti del ragazzo di Porta Vittoria che è entrato nel cuore della gente.

    Scrive bene Giulio Nascimbeni: Peppin Meazza è il football per tutti gli italiani. Vent’anni dopo la morte del fuoriclasse, Peppino Prisco, per anni vicepresidente dell’Inter e anima del tifo nerazzurro, evidenzia a ragione un rimpianto: che le nuove generazioni non abbiano avuto il privilegio di vederlo in campo.

    La vita va avanti. Anche quella di San Siro. Il 2 marzo 1980 il derby viene vinto dall’Inter con un gol di Gabriele Oriali su assist di Spillo Altobelli. Sì, proprio quel Lele Oriali che due anni dopo, in Spagna, diventerà Campione del Mondo con l’Italia e che quasi vent’anni dopo sarà il protagonista di una canzone di Luciano Ligabue: Una vita da mediano.

    Una vita da mediano

    a recuperar palloni

    nato senza i piedi buoni

    lavorare sui polmoni

    una vita da mediano

    con dei compiti precisi

    a coprire certe zone

    a giocare generosi

    sempre lì

    lì nel mezzo

    finché ce n’hai stai lì

    (...)

    Una vita da mediano

    da uno che si brucia presto

    perché quando hai dato troppo

    devi andare e fare posto

    una vita da mediano

    lavorando come Oriali

    anni di fatica e botte e

    vinci casomai i Mondiali

    Nel 1980 Ligabue è ancora un perfetto sconosciuto. Il futuro rocker di Correggio non ha neanche pensato la canzone Una vita da mediano. Ma in quei giorni la storia di San Siro e la storia della musica si stanno già avvicinando. Il 27 giugno 1980 è in programma il primo concerto allo stadio Meazza. È il concerto di Bob Marley, il profeta del reggae.

    Inizia tutta un’altra storia.

    GLI ANNI OTTANTA

    27 GIUGNO 1980

    BOB MARLEY

    ’’EH SI CHE MILANO QUEL GIORNO ERA JAMAICA’’

    "Una delle cose belle della musica

    È che quando ti colpisce

    Tu non senti dolore".

    TRENCH TOWN ROCK

    Bob Marley & The Wailers

    Milano, aeroporto di Linate, 26 giugno 1980. A metà mattina Bob Marley scende dalla scaletta dell’aereo. È la prima volta che mette piede in Italia. È la prima volta che suona nel capoluogo lombardo. La sera successiva è atteso allo stadio Giuseppe Meazza di San Siro, il giorno dopo ancora allo stadio comunale di Torino. Giacca della tuta verde, pantaloni rosa, cappello di lana rosso-giallo-verde – i colori della bandiera dei Rasta – a tenergli uniti i lunghi dreadlocks. Il re del reggae, il profeta della religione Rasta, il critico spietato della civiltà occidentale e materialista, l’idolo della gente di colore sale sul pullman che lo deve portare all’aerostazione. Il suo primo approccio con il nostro Paese è un’intervista con il Tg2. La giornalista Grazia Coccia gli fa le prime domande proprio durante quel breve tragitto.

    Oggi il reggae sta diventando una moda culturale. Gruppi rock come Police, Clash, ma anche Bob Dylan, suonano il ritmo reggae. Cosa ne pensi di questa tendenza?

    Sì, ce n’è di gente che suona il reggae, che si serve del reggae, ma non mi importa molto. L’importante è che alla fine la musica reggae e la filosofia Rasta si diffondano sempre di più nel mondo. Che tutti i fratelli si riconoscano, in tutte le parti del mondo, nella filosofia Rasta.

    La tua canzone Babylon System...

    "Babylon System è uno dei miei brani più forti contro il sistema, contro Babilonia".

    Sì, ma nella canzone Babylon System tu critichi Babilonia, il mondo occidentale e spingi la tua gente alla rivolta, ma tu sei una superstar e prendi un sacco di soldi da Babilonia, guadagni molto da questo sistema. Non c’è una contraddizione?

    Ma i soldi non sono importanti. Sono importanti per l’uomo bianco. L’uomo bianco prende i soldi, se ne impadronisce. Ha fatto una religione dei soldi.

    Ma i soldi sono importanti per chi non li ha.

    I soldi non sono importanti. Quello che è importante è Dio, il cielo, la terra, il sole, la natura. Perciò i soldi non contano nulla. Sono solo dei pezzi di carta che non devono condizionare la vita, non devono rendere schiavi. Devi essere libero. La cosa più importante è che devi essere più libero che puoi.

    Voi vedete in Hailé Selassié la vostra guida.

    Hailé Selassié è vivo, è Dio. I giovani non hanno altro simbolo più importante di lui. Hailé Selassié è il nostro Re dei Re, il Ras Tafari, il Dio vivente impersonificazione dell’Onnipotente, come è scritto nella Bibbia. Hailé Selassié è l’Africa, per noi rappresenta il ritorno all’Africa. Senza Hailé Selassié noi non abbiamo patria.

    Uno degli aspetti più importanti della filosofia Rasta è il ritorno in Africa. Cosa significa per te questo ritorno? È un’utopia o è possibile che si realizzi?

    "No, non è un’utopia. Alla mia gente, che è stata espropriata

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