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Le dita della mano non sono tutte uguali
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Le dita della mano non sono tutte uguali
E-book205 pagine3 ore

Le dita della mano non sono tutte uguali

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Info su questo ebook

«Quando la Grande Guerra terminò, il mondo era stato sfigurato dalla desolazione e dalle malattie. Un'intera generazione di giovani era stata sacrificata sull'altare di una patria non ancora ben definita e i grandi avvenimenti della Storia avrebbero ancora una volta distrutto le vite di milioni di persone». Attraverso la storia di una famiglia e delle sue generazioni, la Storia del nostro paese.
LinguaItaliano
EditorePuntodoc
Data di uscita25 mar 2021
ISBN9791220283120
Le dita della mano non sono tutte uguali

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    Anteprima del libro

    Le dita della mano non sono tutte uguali - Carlo Scovino

    lattara

    Inizia il racconto…

    « Ciao nonna bis » , la salutò Aurelio e Chiara aggiunse «Come va oggi la tua sciatica?» . L’ultima volta che si erano incontrati era stato qualche mese prima in occasione del novantesimo compleanno della vegliarda Eva. Non s’incontravano spesso a causa della relativa lontananza, ma solo ogni volta che il prozio Dario organizzava uno dei mitici incontri famigliari dove il buon cibo e l’allegra compagnia la facevano da padrone. I partecipanti non erano mai meno di quindici persone e Dario provvedeva a cucinare per tutti pietanze che avrebbero sfamato un esercito. In realtà lo faceva intenzionalmente in modo che poteva preparare dei contenitori con il cibo avanzato che i nipoti e i pronipoti avrebbero poi potuto consumare a casa loro. Sulla tavola, opportunamente apparecchiata, erano disposti prima gli antipasti: olive, melanzane sott’olio, verdure grigliate, affettati di vario genere e pane, tanto pane. A seguire erano serviti due primi: lasagne con il ragù preparato il giorno prima e lasagne vegetariane ripiene di ricotta e spinaci. I secondi piatti erano solo a base di carne, perché i pronipoti ne erano golosi: cotolette alla milanese, polpettone al forno, cucinato con una ricetta segreta di Dario, arrosto e lonza di maiale al latte ecc. Venivano sempre preparate anche le polpette di melanzane che erano un piatto che tutti gli invitati aspettavano: erano una vera prelibatezza. Dario aveva imparato la ricetta dalla madre e con gli anni aveva anche apportato delle leggere modifiche aggiungendo all’impasto olive nere sminuzzate e qualche cappero oltre a cuocere al forno: la frittura veniva fatta solo una o due volte l’anno per non alimentare i livelli di colesterolo dei convenuti. La melanzana ap ­ partiene alla famiglia delle solanacee ed è una pianta erbacea, eretta e alta da trenta c enti m etri a poco più di un metro. La melanzana è originaria dell ’India : i fiori grandi e solitari sono violacei o anche bianchi. I frutti sono bacche grandi, allungate o rotonde, normalmente nere e commestibili dopo la cottura. Quelle in uso in casa di Eva erano quelle cosiddette violette lunghe.

    Da quelle parti le ragazze che erano oltremodo taciturne e composte e con la schiena lievemente cifotica venivano paragonate alle melanzane e non era raro sentire qualche bullo che in strada offendeva una ragazza chiamandola con il nome dell’ortaggio.

    Ovviamente i differenti piatti non erano serviti tutti contemporaneamente, ma ad ogni appuntamento erano presenti due diversi tipi di pietanze a base di carne. Gli incontri erano realizzati tre volte l’anno: uno subito dopo Pasqua, uno a settembre prima dell’inizio delle lezioni scolastiche e uno a dicembre tra il giorno di Santo Stefano e la fine del mese. Le conversazioni erano delle più varie: di natura sociopolitica, di attualità e di eventi accaduti nel passato. Tutti erano consapevoli che non bisognava trattare un argomento famigliare che rappresentava ancora una ferita non cauterizzata, non per mentire ma per una sorta di rispetto per scelte compiute da altri e in altro luogo. Questi appuntamenti si trasformavano anche in momenti intimi in cui Eva coglieva l’occasione per raccontare ai suoi bisnipoti adolescenti la storia della sua famiglia che inevitabilmente s’intrecciava con alcuni degli eventi più importanti del Novecento.

    Il racconto iniziò con la storia di Antonietta, la madre di Eva.

    Era nata nel 1898, l’anno di nascita di Peggy Guggenheim (la famosa collezionista d’arte e mecenate statunitense che visse e morì a Venezia e dov’era nota come la dogaressa) e mentre lei viaggiava in giro per il mondo, Antonietta alla sola età di diciassette anni sposò Egidio, un uomo mite che le diede sei figli e che morì di tubercolosi in un lugubre e dimenticato ospedale dell’ancora acerbo stato italiano. Mentre Peggy viaggiava, grazie all’eredità del padre Benjamin morto nel disastro del Titanic nella notte tra il 14 e il 15 aprile 1912, Antonietta conduceva una vita modesta ma dignitosa.

    immagine 1

    Didascalia...

    La Prima Guerra Mondiale era alle porte e le braccia maschili scarseggiavano. L’evento bellico segnò la fine di un lungo periodo di pace e sviluppo economico della storia europea e pose termine anche a un più lungo periodo di stabilità politica. Le cause del conflitto furono eterogenee: negli anni che lo precedettero, in tutti i paesi europei si erano moltiplicati gli incitamenti alla guerra, discorsi e articoli bellicosi, dicerie e incidenti di frontiera; la Francia promulgò una legge.

    Egidio, il padre di Eva, vi aveva partecipato: quell’inutile strage, come l’aveva definita Papa Benedetto XV, costò la vita a più di mezzo milione di meridionali, e tale contributo risulta ancora poco noto e divulgato. Come se non bastasse, in una parte della storiografia e della statistica militare è stato evidenziato che il fenomeno della renitenza alla leva, della codardia e della diserzione erano caratteristiche tipiche delle persone meridionali. Ci si dimentica, però, di dire che un esercito di contadini, pastori, bottegai e operai, quasi per metà analfabeti, senza una lingua comune, male armato e peggio comandato fu avviato ad un massacro annunciato. Le popolazioni del sud avevano già pagato un pesante prezzo per la loro avversità agli invasori sabaudi grazie all’applicazione della legge Pica contro quello che veniva definito brigantaggio e dopo il quale iniziò un lento e costante flusso migratorio che allontanò milioni di meridionali dalle loro terre per sfuggire alla fame.

    Tra questi emigranti poveri, affamati, laceri e analfabeti ci furono anche alcuni cugini di Antonietta, e suo padre Santino, il nonno che Eva non incontrò mai, che partito alla volta dell’America non fece più ritorno.

    Egidio talvolta aveva giocato al gioco della morra con i figli: lo aveva imparato durante le attese estenuanti del primo evento bellico. Il gioco consiste nell’indovinare la somma dei numeri che vengono mostrati con le dita dai giocatori. Simultaneamente, i due giocatori tendono il braccio mostrando il pugno oppure stendendo un numero di dita a scelta, mentre gridano (quasi a voler intimorire l’avversario) un numero da due a dieci (il «pugno» equivale allo zero e il dieci è chiamato proprio morra). Il giocatore che indovina la somma conquista il punto e mantiene la mano, ma se entrambi i giocatori azzeccano il gioco continua e nessuno guadagna il punto. Il gioco finisce quando si raggiunge il punteggio deciso a priori: Egidio giocava con i figli in piedi.

    La morra, nonostante sembri un gioco semplice, in realtà è faticoso e difficile: il gioco si svolge con la massima velocità, con ritmo cadenzato, con clamoroso effetto acustico, tanto da comportare spesso forti indolenzimenti al braccio, oltre che completa perdita della voce. Mentre il gioco va avanti i ritmi aumentano rapidamente e non è facile mantenere la concentrazione. Gli strumenti usati (la mano e la voce) sono molto flessibili e permettono un’enorme variazione di espressioni. Le prime notizie che si hanno del gioco della morra risalgono all’antico Egitto: in una tomba di un alto dignitario si vede chiaramente il defunto intento a stendere il braccio con un numero, contrapposto ad un altro giocatore.

    Aurelio, che era anche molto interessato ai fatti storici, e Chiara ascoltavano questo racconto quasi increduli di fronte alla forza e alla violenza della Storia. «…ma come fai a sapere tutti questi fatti?» le chiese Aurelio. Eva continuò il suo racconto: «Tutto ciò che vi dirò l’ho appreso nel corso degli anni attraverso poche letture e il racconto dei miei figli, i vostri pro zii».

    Come spesso raccontava, aveva interrotto gli studi alla fine della seconda elementare ma questo non le aveva impedito di insegnare a leggere, a scrivere e a far di conto a tutti i suoi figli. «Non avevo voglia di studiare» diceva.

    Di quel periodo scolastico Eva ricordava il romanzo La cieca di Sorrento scritto da Francesco Mastriani. La storia si sviluppa nella Napoli borbonica, dove un patriota è ingiustamente arrestato per aver ucciso, a scopo di rapina, una marchesa. Per non tradire la causa si lascia giustiziare e solo dieci anni dopo suo figlio ristabilirà la verità. La figlia della marchesa, divenuta cieca durante l’assalto al castello della madre, sposerà il figlio di colui che era stato condannato ingiustamente: egli è un oculista e opererà la sua futura moglie restituendole la vista.

    Ancora adesso ricordava alcuni frammenti dell’ Infinito leopardiano: tutti i suoi figli l’avevano studiato alle scuole medie e lei molto spesso chiedeva loro di alzarsi alle sei del mattino per ripetere a memoria, perché a mente fresca era più facile ricordare. Eva soleva ricordare che la memoria è paragonabile a un foglio di carta assorbente: quando si è giovani, aggiungeva, la mente è vergine e chiara ed è più adatta ad appropriarsi delle parole in virtù della memoria ancora fresca. Da giovani, a quei tempi, si era più spettatori che attori della vita e si era ancora poco distratti dalle cose e dai fatti che accadevano.

    Eva di tanto in tanto accarezzava lievemente le loro teste scarmigliate di giovani adolescenti irrequieti. Il suo non era il classico e vistoso gesto affettuoso di una bisnonna nei confronti dei bisnipoti: si trattava sempre di un atto lieve, quasi a non voler palesare un affetto che secondo i dettami dell’epoca non era bene esporre pubblicamente. Anche con i figli non fu mai particolarmente affettuosa: solo dopo aver compiuto ottant’anni si concesse la possibilità di esternare il suo affetto, e il gesto più evidente fu il suo baciare i figli che vivevano con lei sulla fronte dopo che ‒ al mattino ‒ avevano bevuto il caffè che lei aveva preparato. Talvolta accadeva anche la sera: prima di andare a letto si avvicinava ai figli e li baciava sulla fronte. Amava ripetere che tutti dovremmo baciare i bambini non sulle labbra ma sulla fronte per evitare il contagio di malattie: il ricordo dei malati che avevano sofferto di terribili patologie, come il tifo e la tubercolosi, prima e dopo la guerra era ancora presente, così come le prescrizioni igieniche che venivano fornite alla popolazione. Lei ricordava anche l’influenza spagnola, non perché l’avesse vista ma perché sua madre Antonietta, i parenti e i vicini di casa l’avevano raccontata con toni apocalittici.

    L’influenza spagnola, altrimenti conosciuta come la grande influenza o epidemia spagnola, fu una pandemia influenzale, insolitamente mortale, che fra il 1918 e il 1920 uccise decine di milioni di persone nel mondo, inclusi alcuni abitanti di remote isole dell’Oceano Pacifico e del Mar Glaciale Artico su una popolazione mondiale di circa due miliardi. La letalità le valse la definizione di «più grave forma di pandemia della storia dell’umanità»: ha infatti causato più vittime della terribile peste nera del XIV secolo.

    La malattia ridusse notevolmente l’aspettativa di vita dell’inizio del XX secolo che, nel primo anno dal diffondersi della pandemia, risultava diminuita di circa dodici anni. La maggior parte delle epidemie influenzali uccide quasi esclusivamente pazienti anziani o già indeboliti; al contrario, la pandemia del 1918 uccise prevalentemente giovani adulti precedentemente sani. Alcune ricerche suggeriscono che la variante specifica del virus avesse una natura insolitamente aggressiva. Un gruppo di ricercatori, recuperando il virus dai corpi delle vittime congelate, ha scoperto che la trasfezione negli animali causava una rapida insufficienza respiratoria progressiva e la morte attraverso una tempesta di citochine (una reazione eccessiva del sistema immunitario dell’organismo). Si è quindi ritenuto che nei giovani adulti l’elevata mortalità fosse legata alle forti reazioni immunitarie, mentre la probabilità di sopravvivenza sarebbe stata più elevata in soggetti con sistema immunitario più debole, come bambini ed anziani.

    Studi più recenti, basati principalmente su referti medici originali del periodo della pandemia, hanno rilevato che l’infezione virale stessa non era più aggressiva di qualsiasi altra influenza precedente, ma che le circostanze speciali (malnutrizione, campi medici e ospedali sovraffollati, scarsa igiene ecc.) contribuirono a una superinfezione batterica che uccise la maggior parte degli ammalati, in genere dopo un periodo prolungato di degenza. Inoltre, in Europa, il diffondersi della pandemia fu aiutato dalla concomitanza degli eventi bellici relativi alla Prima Guerra Mondiale. Nel 1918, il conflitto durava ormai da quattro anni ed era diventato una guerra di posizione: milioni di militari vivevano quindi ammassati in trincee sui vari fronti favorendo così la diffusione del virus. I dati storici ed epidemiologici sono inadeguati per identificare l’origine geografica della pandemia. All’influenza fu dato il nome di spagnola poiché la sua esistenza fu riportata dapprima soltanto dai giornali spagnoli: la Spagna non era coinvolta nella Prima Guerra Mondiale e la sua stampa non era soggetta alla censura bellica. Nei paesi belligeranti, invece, la rapida diffusione della malattia fu nascosta dai mezzi d’informazione, che tendevano a parlarne come di un’epidemia circoscritta alla Spagna.

    In quel paese dove tutti sapevano tutto di tutti, e se non lo sapevano se lo inventavano, Antonietta con i suoi sei figli (di cui cinque donne) tirava avanti una vita molto modesta. La cosa che Eva ricordava era l’estrema pulizia di sua madre: il grande monolocale nel quale abitavano era lustrato costantemente con fasci di erica scoparia legati con uno stelo di ginestra essiccata. Inoltre, Antonietta credeva nel potere benefico dell’uso della scopa, in quanto avrebbe dovuto spazzare via i guai e per avvalorare questa credenza recitava una preghiera dedicata a Santa Petronilla: pregava in modo quasi impercettibile e si poteva capire che stesse pregando dal movimento delle labbra.

    Quando la Grande Guerra terminò il mondo era stato sfigurato dalla desolazione e dalle malattie. Un’intera generazione di giovani era stata sacrificata sull’altare di una patria non ancora ben definita e i grandi avvenimenti della Storia avrebbero ancora una volta distrutto le vite di milioni di persone.

    Nel 1935 fu proclamata la Giornata della Fede e tutte le coppie italiane, e in primo luogo le donne, furono chiamate a consegnare le fedi nuziali ricevendo in cambio anelli senza valore.

    L’offerta collettiva degli anelli nuziali doveva rappresentare la spettacolarizzazione dell’unione mistica delle italiane e degli italiani con il regime fascista in risposta alle sanzioni imposte all’Italia dalla Società delle Nazioni per l’aggressione all’Etiopia, avvenuta lo stesso anno.

    Molti anni dopo Eva avrebbe sposato un reduce di quella campagna contro l’impero millenario di Hailè Selassiè, che Pio XI definì assurda e criminale. «E come accadde che lo sposasti?» esclamarono all’unisono i due bisnipoti. «Abbiate pazienza… vi racconterò anche questo».

    Una mattina di dicembre Egidio entrò in casa tutto concitato e chiese a sua moglie Antonietta di raccogliere il pentolame in metallo in loro possesso e di seguirlo nella chiesa del Salvatore (la piccola chiesa della contrada dove molti anni dopo si sarebbero celebrate le nozze di Eva), senza prima averle detto di aggiungere a quel povero raccolto anche le loro fedi nuziali. Non possedevano molti oggetti di valore ma Antonietta era sinceramente convinta che fosse la cosa giusta da fare: il suo amore incondizionato per Egidio non la faceva dubitare e come sempre Antonietta obbedì. Anche la regina Elena di Savoia e molti personaggi illustri dell’arte e della cultura avevano fatto lo stesso, aggiunse Egidio.

    Nessuna famiglia, neanche la più povera, poteva sottrarsi al dovere di offrire alla patria qualche monile, qualche oggetto prezioso, anche caro ricordo. Don Peppino, il parroco della chiesa, era un fervente sostenitore del duce. Con l’entusiasmo per la guerra alle stelle e un’opinione pubblica bramosa di successi, il duce aveva bisogno di vittorie: i bombardamenti aerei di gas asfissianti e velenosi, che uccidevano indiscriminatamente combattenti e non, avvelenando i fiumi, rappresentavano solo una storica necessità. Di tutto questo, come la gran parte degli italiani, Antonietta era all’oscuro grazie anche a una meticolosa propaganda e alla paura di ripercussioni. Il podestà locale, don Orazio, e qualche ricco proprietario terriero,

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