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Cistiberim - Il potere e l'ambizione
Cistiberim - Il potere e l'ambizione
Cistiberim - Il potere e l'ambizione
E-book505 pagine5 ore

Cistiberim - Il potere e l'ambizione

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Info su questo ebook

Con "Il Potere e l'ambizione" si conclude il viaggio sulla sponda sinistra del Tevere, iniziato con il primo volume "Umbilcus urbis Romae".

L'autore, gioca a carte scoperte con il lettore, esplicando immediatamente il suo contenuto: una cavalcata fra storia, aneddoti, una spruzzata di leggenda, misticismo religioso e sfrenata ambizione di chi detiene il potere sulla sponda sinistra del "biondo" Tevere, ovvero il fulcro delle attività istituzionali che si contrappone alla suburra, al lato destro, in cui a prevalere era la dark side dell'Urbe.
Due volumi che formano un blocco compatto e coeso, sia narrativamente che iconograficamente e che arricchiranno non solo la biblioteca degli appassionati della Città Eterna, ma di tutti coloro che amano volgere lo sguardo alle meraviglie di un passato di intramontabile bellezza.

LinguaItaliano
Data di uscita7 feb 2020
ISBN9788869346286
Cistiberim - Il potere e l'ambizione
Autore

Giuseppe Lorin

Attore, poeta, regista, critico letterario, conduttore e giornalista, ha studiato all'Accademia Nazionale d'Arten Drammatica "Silvio D’Amico". Ha pubblicato, tra gli altri, Da Monteverde al mare (2013); Roma, i segreti degli antichi luoghi (2016), Transtiberim (Bibliotheka 2018), Cistiberim - Umbilicus Urbis Romae e Cistiberim - Il potere e l'ambizione (Bibliotheka, 2020). 

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    Anteprima del libro

    Cistiberim - Il potere e l'ambizione - Giuseppe Lorin

    Giuseppe Lorin

    Attore, poeta, regista, romanziere, critico letterario, autore, conduttore e giornalista, Giuseppe Lorin dopo aver studiato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico, si è specializzato all’International Film Institute of London con Richard Attenborough.

    Laureato in Psicologia all’Università di Roma La Sapienza, si è specializzato in Pubblicità e Marketing presso l’Università Luigi Bocconi di Milano.

    È docente di Interpretazione con il Metodo Mimesico e Dizione interpretativa.

    È giornalista pubblicista e collabora con varie testate giornalistiche online e cartacee.

    Ha vinto diversi premi e riconoscimenti.

    Ha pubblicato: Manuale di dizione (Nicola Pesce, 2009); Da Monteverde al mare (David and Matthaus, 2013); Tra le argille del tempo, (David and Matthaus, 2015); Roma, i segreti degli antichi luoghi (David and Matthaus, 2016); Roma, la verità violata (Alter Ego, 2017); Transtiberim – Trastevere, il mondo dell’oltretomba (Bibliotheka edizioni, 2018), Dossier Isabella Morra, poetessa del XVI secolo (Bibliotheka Edizioni, 2019), Cistiberim – Umbilicus Urbis Romae (Bibliotheka Edizioni, 2020).

    www.giuseppelorin.blogspot.it

    Il passato è soltanto il principio di un principio; tutto ciò che è e ciò che è stato, è solo la prima luce della nuova alba che deve ancora sorgere per tutti noi

    Hans Herbert George Wells (1866-1946)

    Foto a cura di: Morgan Brighel, Jascin Calafato, Giovanni Feliziani, Elena Felluca, Matteo Ferlisi, Daniele Franceschini, Giuseppe Lorin, Giacomo Mearelli, Massimo Meli, Marcello Valeri, Michela Zanarella.

    Disegno a cura di: Emilio Laguardia.

    Si ringrazia per la gentile consultazione fotografica e bibliografica con il permesso a procedere: Archivio fotografico e bibliografico della Cultura Trasteverina e Monteverdina di Silvio Parrello, Archivio Istituto Luce, Biblioteca privata famiglia Bernini, Archivio G. De Angelis D’Ossat, Archivio Storico di Quinto Ficari, Biblioteca Roberto Forges Davanzati, Biblioteca e Raccolta Teatrale del Burcardo, Cvltvs Deorvm Ostia Antica, Archivio di Stato di Roma, Archivio Tesori del Lazio, Archivio Storico Nazionale, Archivio segreto Vaticano, Vicariato di Roma, Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma, Archivio Storico della Biblioteca Vallicelliana per le ulteriori informazioni e indicazioni a compendio e completamento.

    "È schierata sulla scalinata del Campidoglio

    la storia

    nei gradini pregni di potere ed ambizione

    continua a chiedere al tempo di nascere

    e farsi voce nella pelle di Roma

    così la città ha l’eco delle lotte e dei trionfi

    mentre le epoche

    si riflettono al semaforo

    tra le statue

    che ora sono corpi di marmo

    muti al traffico

    occhi di un passato che non ha fine."

    Michela Zanarella

    Fontana realizzata in tre anni (1627-1629), La Barcaccia, da Pietro Bernini, padre di Gian Lorenzo. In primo piano Fabiano Forti Bernini

    Prefazione

    Avendo avuto la possibilità di leggere in anteprima questa fatica improba dell’autore, di colpo mi sono reso conto che i personaggi di questo saggio storico, che riguarda la riva sinistra del Tevere, mano mano che andavo avanti nella lettura, prendevano vita, insomma diventavano vivi e veri. Ed ecco che i re di Roma, gli imperatori, i papi, gli architetti e gli scultori erano per me come vivi. Ed eccomi faccia a faccia con Gian Lorenzo Bernini che tanto ha fatto per questa Roma del XVII secolo.

    Attraverso queste pagine, la leggera ma certa descrizione dei fatti che lo hanno coinvolto e l’accurata descrizione del carattere e delle sue opere, hanno fatto sì che lo riconoscessi, nel colorito del volto, nelle sue piccole e grandi manie, nei suoi vizi, negli alterchi, nelle dispute, nella sua genialità artistica, insomma, grazie a Giuseppe Lorin, autore di questo libro, l’ho visto vivo il mio avo, e con estremo piacere dedico la fortuna di questo saggio storico e la mia attenzione all’autore. Ciò che rende grande la storia di Roma non è che sia stata fatta da uomini diversi da noi, ma che sia stata fatta da uomini come noi.

    Ora, mi piace ricordare una frase di Indro Montanelli, che è stato anche un docente di giornalismo del nostro Lorin: "Roma fu Roma non perché gli eroi della sua storia non abbiano commesso delitti e balordaggini, ma perché nemmeno i loro delitti e le loro balordaggini, per quanto grossi e talvolta immensi, poterono intaccare il suo diritto al primato".

    Fabiano Forti Bernini

    Il Potere e l’Ambizione

    Per affrontare le problematiche che riguardano il Potere e l’Ambizione non si può prescindere dalla Cultura. Intendo Cultura quell’apparato umano, materiale e spirituale, con cui l’Uomo risolve problemi concreti, per creare quell’equilibrio, che riguarda le varie differenze culturali. Tali differenze, o elementi, sono determinate dalle risorse dell’ambiente, dai beni materiali, dalle disponibilità tecniche, dal sistema di produzione e di consumo, dal sistema di relazioni sociali e di comunicazione ma soprattutto, dal sistema di Potere. Sono tutti elementi basilari che, una volta che si combinano tra loro, definiscono e determinano proprio la Cultura di appartenenza. Mi viene in mente l’immagine bizantina della Madonna con il Bambino al seno, l’immagine della madre buona che lo allatta e lo soddisfa; è questo il primo gradino della Cultura. Infatti la Cultura si costituisce per difendere i sistemi di sicurezza dell’individuo e del gruppo sociale. In questo modo si formano le istituzioni come mezzo che unisce l’esperienza passata e quella futura. Intendo per istituzioni tutto ciò che la gente fa, pensa, crede o sente oltre a quelle che riguardano la religione, il folclore, le tecniche, il comando. La risposta culturale modifica l’ambiente il quale a sua volta influisce sulla risposta culturale successiva. È certo che la leadership autorevole, la forza di chi comanda, determina le politiche di gruppo che assolutamente devono essere decise insieme per raggiungere gli scopi che il leader, il capo, si è prefissato di raggiungere insieme e unito al suo gruppo che lo ha eletto. Il Potere autorevole così come un Capo autorevole portano il gruppo al progresso, al contrario di un Capo autoritario. L’aspirazione al Potere è il motivo propulsore dell’azione umana e la volontà di potenza è la lotta per raggiungere la propria completezza interiore.

    L’aspirazione al Potere in alcuni individui nasconde una insicurezza di base che li fa contornare di adulatori, di opportunisti e di lacchè. Questo tipo di Potente vede in tutti un rivale, mentre lui vuole essere l’unico, apparire unico, dando valore a se stesso. Nel racconto di Cistiberim, abbiamo incontrato moltissimi imperatori con questa loro personale motivazione, ma tipi del genere possiamo trovarli anche e soprattutto negli ambienti aziendali o politici. Il comportamento dell’essere vivente non è cambiato! Abbiamo notato, leggendo con attenzione questo saggio storico come, nell’evoluzione dell’essere vivente, i termini Potere e Ambizione vanno, da sempre, di pari passo. E questo avviene senza sfumature rispetto al periodo storico attraversato ma in forma decisa e chiara. Sicuramente è l’Ambizione che induce l’individuo al Potere, ma è anche vero che chi raggiunge il Potere, dopo un po’ di tempo o quasi subito, ambisce a situazioni ulteriormente ambiziose che gli accrescono il Potere e lo spingono verso questo. Quindi è il Potere il fine ultimo dell’Ambizione. Roma fu incarnazione ed espressione fortemente politica e la politica romana è da intendersi nel senso etimologico e nobile del termine, che ne testimoniano la luminosità dell’azione politica volta ad una evoluzione spirituale altrettanto luminosa.

    Quel modo di fare politica e gestire il potere non ha nulla a che vedere con la politica opportunista, che domina gli ambienti del potere al nostro tempo. L’espressione potere temporale si usa di solito in riferimento al periodo storico in cui il Papa, oltre ad essere sommo pontefice della Chiesa cattolica, è stato anche sovrano dello Stato Pontificio, e questo è avvenuto dal 752 al 1870, periodo sovranista che si è concluso con Pio IX.

    Il termine temporale indica il governo degli uomini, oggi definito potere politico, e come sempre dipende dalla qualità culturale, dalla preparazione al ruolo, dall’autorevolezza del soggetto, e non dall’autorità. Il termine è spesso in dissolvenza con il potere spirituale, ovvero, la capacità individuale di ricordarsi che si è materia con l’anima e che abbiamo una morale da rispettare che va oltre il libero arbitrio.

    I simboli del potere papale sono rappresentati dalla tiara e dalle chiavi.

    Esempio di scontro di Poteri

    Il mese di gennaio del 1077 fu più freddo e nevoso del solito, tanto che gli stretti sentieri a strapiombo, che conducevano al Castello di Canossa, sull’Appennino emiliano, risultavano quasi impraticabili. Tuttavia in quella fortezza appartenente alla contessa Matilde di Canossa, potente signora con immensi possedimenti terrieri distribuiti non solo fra Nord e Centro Italia, ma anche in Europa Settentrionale, s’erano radunati i personaggi più influenti del tempo, primo fra tutti papa Gregorio VII, al secolo Ildebrando da Soana, uomo d’aspetto smilzo e traballante ma determinato e fortemente convinto della derivazione divina del suo Potere spirituale e temporale, e ciò gli garantiva una posizione d’assoluta preminenza su qualsiasi re ed imperatore.

    Non per nulla uno dei primi atti del suo pontificato era stata la redazione del "Dictatus Papae, silloge di ventisette massime che definivano le competenze dell’Apostolico Romano Pontefice, fra le quali per esempio: quod ille solus possit deponete episcopos col significato che: soltanto lui può deporre i vescovi oppure, quod illi liceat deponere imperatores ovvero, che a lui è lecito deporre gli imperatori". Se fino ad allora principi ed imperatori si erano sempre pesantemente intromessi nelle nomine dei vescovi e persino nell’elezione dei papi, con l’arrivo di Gregorio VII sul soglio pontificio doveva essere ben chiaro a tutti che un simile comportamento non sarebbe mai più stato tollerato, pena la scomunica. Dalla Francia era giunto l’abate Ugone di Cluny, un gigante autorevole e con la fama di santo, da quando il papa in un suo sogno aveva visto il Cristo ritto in piedi al fianco del santo abate. Da Lucca era arrivato il vescovo Anselmo, ascoltatissimo dal pontefice, e dai loro conventi gli abati di San Benedetto, Nonantola e Frassinoro. Oltre a Matilde era presente anche l’altra dama potente di allora, la contessa Adelaide di Savoia.

    Il santo abate Ugone di Cluny, con il pastorale, presenta Enrico IV a Matilde di Canossa.

    Tutti però aspettavano il giovane imperatore Enrico IV di Franconia che, colpito dalla scomunica che gli aveva inferto papa Gregorio VII a conclusione della lotta per le investiture, era stato così ammonito severamente anche dai potenti Principi tedeschi: "Se Enrico, non fosse riuscito a farsi perdonare entro la prossima Festa della Candelora, sarebbe stato dichiarato decaduto e sostituito con un nuovo imperatore".

    Facendo di necessità virtù, il giovane sovrano aveva allora deciso d’intraprendere quel lungo e faticoso viaggio in pieno inverno per implorare il perdono papale, facendosi anticipare ad ogni tappa da messi recanti sempre una nuova supplica. Chiuso nel suo impenetrabile silenzio, il piccolo ed esile pontefice Gregorio VII, pareva però sordo ed irremovibile: pregava e leggeva, leggeva e pregava, ma non rispondeva a nulla, sebbene ormai i messaggeri imperiali arrivassero da luoghi sempre più vicini: Piemonte, Lombardia, Piacenza ed infine da Reggio Emilia. Matilde, sua cugina, aveva infine ospitato Enrico IV nel Castello di Bianello, dove si era recata apposta per incontrarlo, trovandolo però in lacrime, inginocchiato al Cristo della cappella del castello. Baciandole le mani le aveva detto: "Ti scongiuro, Matilde, garantisci tu per me! Tu sola puoi chiedere a Gregorio di perdonarmi!".

    Di ritorno a Canossa, Matilde ebbe l’ennesimo incontro con papa Gregorio VII, alla fine del quale il pontefice capitolò accettando d’incontrare il giovane Enrico ma, alle sue condizioni: per ottenere il perdono, Enrico avrebbe dovuto rinunciare alla pretesa di nominare di propria iniziativa i vescovi, ammettendo di avere sbagliato fino ad allora. Saputo di essere finalmente atteso dal papa, Enrico balzò a cavallo nella gelida mattinata del 25 gennaio del 1077 per recarsi in tutta fretta al castello. Attraversato senza problemi il primo portone, trovò però il secondo sbarrato ed a nulla valsero grida ed imprecazioni. "Non si entra, gli disse il capo delle guardie, il Santo Padre esige una penitenza pubblica. Ti chiamerà lui!". Per tre giorni e tre notti, col capo chino ed indossando il saio del penitente, battendosi il petto, Enrico attese la chiamata di Gregorio VII, nel gelo e senza cibo.

    Il portone si aprì soltanto il 28 gennaio, quando Gregorio decise di incontrarlo nello sfarzo dei suoi paramenti sacri più belli, con la tiara papale tempestata di gemme preziose, seduto sul trono eretto nel mezzo della sala delle udienze, con Matilde seduta alla sua sinistra. Gettatosi ai suoi piedi, dopo avergli baciato la pantofola e l’orlo del mantello, un tremante Enrico implorò con un filo di voce il suo perdono al padre misericordioso. Levata la mano, il papa allora lo benedisse e, tendendogli le braccia, lo liberò finalmente dalla scomunica, così evidenziando il potere temporale e spirituale del prestigio papale nei rapporti con il potere imperiale, senza immaginare che l’espressione andare a Canossa, da allora in poi, sarebbe entrata nel gergo comune non soltanto italiano, questo modo di dire infatti venne utilizzato anche dal Cancelliere prussiano Bismarck che disse: "Nach Canossa gehen wir nicht, A Canossa noi non ci andiamo", per significare un atto di sottomissione totale, una resa incondizionata umiliante.

    Il Monte Testaccio è a Cistiberim

    Il rione Testaccio è uno dei quartieri più caratteristici di Roma; raccoglie un gran numero di testimonianze di notevole interesse archeologico e storico, tra le quali il cimitero Acattolico che abbiamo già descritto nel volume I di Cistiberim, e il Cimitero dei soldati Americani morti nell’ultimo conflitto: il Rome British War Cemetery è un luogo della rimembranza proprio vicino al Monte Testaccio, racchiuso nelle antiche mura Aureliane. Passato il cancello, tutto intorno le mura, ci sono due date e due iscrizioni in Latino ed in Inglese: 1939 – 1945: Questi soldati del Commonwealth Britannico hanno offerto la loro vita per proteggere la libertà e da questo loro sacrificio venga rinnovata la libertà dell’Italia e l’antica amicizia tra il popolo italiano e britannico.Le Armate anglo-americane hanno avuto 42.000 caduti in varie parti d’Italia: il Cimitero di Guerra Britannico di Testaccio, quasi contiguo al Cimitero acattolico civile degli Inglesi, raccoglie 426 caduti, così suddivisi: 355 della Gran Bretagna – 22 Canadesi – 4 Australiani – 2 Indiani – 10 Neozelandesi – 28 Sud Africani – 1 Mauritius – 2 Palestinesi – 1 Pioniere Africa del Sud – 1 Indie Occidentali. La maggior parte dei Caduti sepolti in questo cimitero facevano parte delle truppe di presidio di stanza a Roma. Il cimitero venne costituito subito dopo l’occupazione della città da parte degli Alleati nel gennaio 1944.

    Nei pressi del Cimitero di Guerra Britannico di Testaccio è Porta S. Paolo, la Piramide Cestia, i resti del Porticus Aemilia, ed infine il Monte Testaccio, detto anche Monte dè Cocci.

    Stemma del rione XX, Testaccio

    Il Monte Testaccio, Mons Testaceum, con i suoi 37 m di altezza e un’area di 2200 mq; non tutti sanno però, che questo monte è composto dai frammenti delle anfore olearie di epoca romana.

    Situato in prossimità della riva sinistra, in un’ansa del Tevere, presso i magazzini denominati Horrea Galbae prospicienti il porto fluviale, il Monte Testaccio è considerato una delle testimonianze più antiche per ciò che riguarda l’organizzazione dei rifiuti.

    Apice del monte artificiale di Roma alto 37 m.

    Monte Testaccio è un monte artificiale che si è formato nei secoli con l’accumulo dei frammenti delle anfore olearie provenienti dalla Spagna e dall’Africa dal I sec a.C., fino al III sec. d.C.; si è stimato che il monte sia costituito da un totale di circa 53 milioni di anfore per un totale di 6 miliardi di litri d’olio importati nella città di Roma.

    I cocci delle anfore guidano alla sommità di Monte Testaccio

    Queste anfore erano considerati recipienti a perdere, quindi dopo che il trasferimento del contenuto avveniva in recipienti più adatti al trasporto via terra o al consumo, esse venivano ridotte in frantumi e ricoperte di calce in modo da depurare gli eventuali cattivi odori di olio rancido.

    La fontana delle anfore è il simbolo del rione

    Emporium del porto fluviale di Testaccio

    Fu così che venne delimitata un’area per depositarvi in modo ordinato i cocci, a formare caratteristici terrazzamenti che giorno dopo giorno, anno dopo anno, secolo dopo secolo, hanno assunto le dimensioni che possiamo vedere oggi.

    Facciata monumentale dello stabilimento di mattazione

    Dopo la caduta dell’impero romano d’occidente, il porto fluviale e i magazzini, l’emporium, caddero in disuso, e così pure il Monte Testaccio, che in epoca medievale fu meta di rappresentazioni sacre in occasione del Venerdì Santo, trasformandosi in un vero e proprio Monte Golgota; in occasione del Carnevale Romano, il Monte Testaccio fu usato per allestirvi le tauromachie e la più popolare ruzzica de li porci, ma anche come meta principale delle Ottobrate romane, ossia il luogo dove si festeggiava la vendemmia con il vino conservato nelle cantine appositamente scavate nelle pendici del monte. La tradizione delle tauromachie suggerì la scelta della zona come "Mattatoio del Comune di Roma, e fra il 1888 e il 1891 l’architetto Gioacchino Ersoch, ideò i padiglioni del Mattatoio, che comprendeva anche la pelanda" ossia, dove venivano scorticate le pelli agli animali morti; come testimonianza del passaggio dal classicismo alla modernità, ora costituiscono un importante esempio storico dell’architettura industriale monumentale e razionale della fine del secolo.

    In questi anni l’ex Mattatoio, è stato trasformato nel più vasto centro Culturale per manifestazioni ed eventi artistici e luogo ideale per la sperimentazione teatrale e culturale; la pelanda è diventato il posto ideale del Fringe Festival di Roma così come, altre location nel contesto del comprensorio risultano essere adattabili a qualsiasi evento artistico della comunicazione; ed il luogo ideale di qualsiasi Festival è: il MACRO Testaccio.

    Santa Maria in Synodochio detta in Trivio o dei Crociferi

    Questa bella chiesa si trova alla sinistra della fontana delle tre vie e anch’essa ha una lunga storia. In origine si chiamava Santa Maria in synodochio, a ricordo di un ospizio o xenosdochio, fondato da Belisario in questo luogo, quale atto di espiazione per aver mandato in esilio nel 537, papa Silverio poi proclamato santo. La chiesa di s. Maria, la quale era già fatiscente nel IV secolo, fu restaurata da papa Leone III. S. Maria in Synodo oggi è conosciuta con il nome di s. Maria in Trivio, ha una origine storica di grande importanza, poichè si collega al nome di Belisario, uno dei più grandi e gloriosi personaggi del secolo VI. Flavio Belisario, è stato un console, e come console ordinario dette il nome agli anni in cui governò; di fatto però fu assai più che console, perchè, dopo liberata l’Italia dalla dominazione dei Goti, la resse con potestà da imperatore; ed è per questo che in un’epigrafe di Roma dell’anno 537, non solo è ricordato come console, ma chiamato, con singolare esempio, virum excellentissimum et patricium. In quell’epigrafe, proveniente dalla basilica e dal cimitero di s. Pancrazio, a Monteverde, la data consolare è segnata nel modo seguente: VILISARII VIRI EXcellentissiMI CONS ADQVE (sic) PATRICII: non è nominato come vir clarissimus ma addirittura excellentissimus. Tanto fu la sua dignità nella città, quanto la sua autorità, da considerarsi simile alla potestà regia imperiale. Un’iscrizione del tardo medioevo nel muro della chiesa, sul lato di via Poli, ricorda la fondazione di Belisario ovvero, lo ospizio per i veterani. Il suo aspetto è rinascimentale, e la facciata fu eretta da Jacopo del Duca, uno dei migliori e geniali allievi di Michelangelo Buonarroti. L’interno è impreziosito dalle pitture di Antonio Gherardi, 1644-1704, che ha realizzato anche la volta, con le grandi scene dei tre riquadri mediani e con le suggestive scene affrescate nei peducci, rimarchevoli per arditezza di scorci, splendore di colori e magici effetti di luce, che illustrano le storie del Nuovo Testamento.

    Accademia di San Luca

    Nell’omonima piazza, al numero civico 77, è la prestigiosa Università o congregazione di artisti, già esistente fin dal XV secolo nel nome di San Luca, patrono e protettore dei pittori. Antesignana dell’Accademia delle Belle Arti di Via Ripetta, venne istituita ufficialmente nel 1577 da Gregorio XIII e la battezzò in pompa magna, Accademia di San Luca. L’Accademia accrebbe prestigio nel 1932 quando ebbe la sede definitiva nell’attuale Palazzo Carpegna, all’angolo di via della Stamperia.

    La caratteristica di questo palazzo è la rampa a spirale delle ampie scale, una cordonata coperta, costruita dal Borromini per permettere ai cavalli di arrivare direttamente nel salone d’onore del Palazzo Carpegna, così come si intendevano le scale nella comoda cognizione architettonica ribadita nel Cinquecento.

    La prima rampa del genere fu fatta costruire dall’imperatore Adriano nel suo mausoleo, la Mole Adriana, Castel Sant’Angelo.

    Questa volontà architettonica si ritrova in diversi edifici rinascimentali, non ultimo nel Castello della Magliana, la casina di caccia dei papi costruita sopra il fondo dei Manlianum, antica famiglia patrizia. La pinacoteca dell’Accademia di San Luca, è composta per la maggior parte da dipinti eseguiti dagli stessi accademici, o da loro stessi donati. Molti di loro erano conoscitori che sapevano apprezzare le sfumature più raffinate di un’opera d’arte, anche se l’autore non era un gran nome noto al pubblico. La collezione comprende un frammento di affresco di Raffaello, tre quadri di Tiziano, un Rubens, un’opera del veneziano Giovanni Battista Piazzetta, oltre alla Madonna di San Luca, attribuita a Raffaello Sanzio.

    Le collezioni dell’Accademia di San Luca sono di natura non omogenea per tipologia e provenienza delle opere che le compongono. Si tratta di pezzi di notevole interesse storico ed artistico, databili fra il XV ed il XX secolo. Il gruppo più numeroso, però, risale principalmente al XVII e XVIII secolo.

    Sala di rappresentanza dell’Accademia di San Luca a Palazzo Carpegna

    Le raccolte accademiche sono costituite da più di mille dipinti e da trecento sculture, da circa cinquemilacinquecento disegni e da una collezione di stampe e di medaglie. Il numero di opere conservate oggi in Palazzo Carpegna non comprende, però, la totalità dei pezzi che nel corso dei secoli sono venuti a far parte del patrimonio accademico il quale, negli anni, è stato in parte perduto o comunque disperso, per regalie come compenso di favori.

    Il carattere eterogeneo delle collezioni dell’Accademia è dovuto principalmente al fatto che esse si sono costituite attraverso il tempo non secondo un disegno preordinato, ma con doni o lasciti di accademici o di collezionisti privati, con opere provenienti dai concorsi banditi dall’Accademia od utilizzate a fini didattici e con un gruppo di quadri provenienti dalla Pinacoteca Capitolina.

    A partire dai più antichi statuti del Sodalizio, infatti, si prescriveva che ogni accademico al momento della nomina lasciasse in dono nelle raccolte accademiche un saggio della propria arte, un vero e proprio dono d’ingresso, un pièce de réception. Era poi richiesto ad ogni accademico di mandare il proprio ritratto. Si creò, quindi, in tal modo, fin dal Seicento una pinacoteca, che prese forma più concreta nel corso del Settecento.

    Raffaello Sanzio San Luca che dipinge la Madonna. Si noti l’autoritratto di Raffaello e l’animale sacro, il bue, simbolo dell’Evangelista Luca, sulla dx

    Tra le opere più importanti conservate nelle collezioni accademiche si può ricordare, ad esempio, un affresco staccato rappresentante un Putto, attribuito a Raffaello, autore anche della tela San Luca che dipinge la Madonna; Annuncio ai pastori di Jacopo Bassano; Vergine ed angeli di Van Dyck; Ninfe che coronano l’Abbondanza di Rubens; Giuditta e Oloferne di Giovanni Battista Piazzetta; l’autoritratto di Federico Zuccari; il ritratto di Pietro Bernini attribuito al figlio Gian Lorenzo; le sculture di Algardi, Bracci, Le Gros. Le collezioni dell’Accademia di San Luca sono esposte, in parte, nella Galleria di San Luca, al terzo ed ultimo piano della sua attuale sede a palazzo Carpegna e, in parte, nelle Sale Accademiche, negli uffici di Segreteria, nella Sala Conferenze, situate al piano nobile, nella Biblioteca Sarti e nell’Archivio Storico che si trovano al secondo piano. Il resto delle opere è collocato nei depositi situati in alcuni spazi al piano terreno e negli ambienti lungo la rampa elicoidale.

    Tra gli accademici d’onore meritano d’essere nominati: Gian Lorenzo Bernini e Pietro Berrettini detto Pietro da Cortona; Annibale Carracci e Giovanni Francesco Barbieri detto il Guercino; Carlo Maratta e Filippo Juvarra, l’architetto di Stupinigie e delle altre ville dei Savoia; Luigi Vanvitelli, Anton Rafael Mengs, Antonio Canova, Alessandro Algardi, Giuseppe Cesari detto il Cavalier D’Arpino, del quale ho apprezzato gli affreschi negli ambienti privati di Villa Aldobrandini a Frascati, e Giorgio De Chirico il pictor optimus, sepolto nella chiesa di San Francesco a Ripa, entrando è nella primissima cappella alla vostra sinistra; Alberto Giacometti, Luigi Moretti, solo per citarne alcuni; ma anche Maddalena Corvini, Ippolita De Biagi, Giovanna Garzoni, Rosalba Carriera, Angelica Kauffman, a rappresentare la sfera dell’arte al femminile.

    Simboli che identificano i quattro evangelisti

    Secondo una visione del profeta Ezechiele, e riproposta nell’Apocalisse, si legge: "Apparvero quattro esseri con sembianze di uomo alato, di leone, di bove e di aquila…".

    L’antica letteratura apologetica e patristica abbinò le simboliche sembianze della profezia ai quattro evangelisti.

    Queste sembianze hanno l’intento di esprimere la fermezza della loro anima, il loro stile e il loro zelo personale nella spiegazione, al popolo dei credenti, della vita di Cristo nei Vangeli Canonici.

    Il loro reportage era fuori dai Vangeli Apocrifi, dal racconto delle persone, che pur stando a diretto contatto con Gesù di Nazareth, non ebbero molti proseliti e specialmente non ebbero il riconoscimento ufficiale dai successori di Pietro.

    I Vangeli Apocrifi, con il trascorrere del tempo, sono stati esclusi dal canone del Nuovo Testamento ovvero, dalla Bibbia. Nello specifico, il termine apocrifo, vuol dire da nascondere, conoscenze riservate a pochi; il vocabolo venne coniato dalle prime comunità cristiane. Gli incendi nelle varie antiche biblioteche, dove gli amanuensi trascrivevano in bella calligrafia ciò che i primissimi cristiani riportavano, vennero provocati dai crociati che ebbero l’incarico e l’ordine di distruggere con il fuoco queste antiche testimonianze, che avrebbero ribaltato ciò che l’Ecclesia stava costruendo sul principio della resurrezione del Cristo; argomento affrontato in Roma, la verità violata. Per cui:

    • Matteo è individuato nell’angelo, perché il suoVangelo inizia con l’elenco degli uomini antenati del Messia.

    • Marco è nel leone, perché il suo Vangelo comincia con la predicazione di Giovanni Battista nel deserto, dove c’erano i leoni.

    • Luca è nel bove, perché il suo Vangelo comincia con la visione di Zaccaria nel tempio, dove si sacrificavano buoi e pecore.

    • Giovanni è simboleggiato nell’aquila, l’occhio che fissa il sole, perché il suo Vangelo si apre con la contemplazione di Dio, la luce eterna: "In principio era il Verbo." (Gv 1,1).

    Il Quirinale Palazzo Fortezza e i Presidenti

    In via della Datarìa,

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