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Il dono - La storia dei Sasi
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E-book215 pagine3 ore

Il dono - La storia dei Sasi

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Info su questo ebook

Dal ritrovamento di un cane abbandonato per strada, una coppia di giovani fidanzati non può immaginare si creeranno le premesse della loro famiglia futura.

Fra avventure rocambolesche e viaggi che i due giovani compiono con i loro fedeli compagni, prima in Italia, poi nei Balcani e in ultimo in Repubblica Democratica del Congo, si passa dall'essere "famiglia per caso" a una scelta consapevole di vita insieme e alla maturazione del desiderio di genitorialità.

Il racconto, basato su una storia vera, evidenzia come una certa predisposizione dell'animo verso ciò che talvolta giunge improvvisamente turbando ogni ordine precostituito, possa rendere possibile la creazione di rapporti indissolubili.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2021
ISBN9791220372886
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    Anteprima del libro

    Il dono - La storia dei Sasi - Anna Ferraro

    PARTE PRIMA

    I SASI GRANDI

    1. IL PIÙ ROSSO REGALO DI LAUREA

    Questa storia inizia il 2 novembre del 2002, su una strada statale che conduce a Modica, una cittadina della Sicilia sud orientale. Io e Pietro, mio fidanzato allora e attuale marito adesso, eravamo in macchina di ritorno da Marina di Modica, località di mare, dove la sera precedente ci eravamo ritrovati con gli amici per festeggiare fra pizzette e zucche di Halloween la mia laurea in servizio sociale discussa il 30 ottobre. Pietro lavorava a Roma da circa un anno ed era venuto a Modica in occasione della mia laurea, conseguita brillantemente nel triennio previsto, all’età di trentadue anni. Avevo intrapreso il percorso universitario praticamente contro tendenza, dopo aver sperimentato una carriera professionale da danzatrice grazie alla quale, sin da molto giovane, avevo lavorato e viaggiato anche all’estero. Pietro o Pier era così rientrato a Modica per qualche giorno e sarebbe ripartito per Roma il giorno successivo. A un tratto, poco prima di immetterci sul cavalcavia che introduce a Modica, ci accorgemmo della presenza di un cane di media taglia, di colore rossiccio, che ci veniva incontro sulla linea di mezzeria, come se cercasse di scorgere o riconoscere qualcuno. Pier cercò di scansarlo spostandosi sulla destra della carreggiata, mentre io guardavo indietro questo cane vagante che andava incontro alle macchine, nel tentativo di trovare una logica al suo comportamento. Rallentando, dopo pochi metri ci accostammo sulla destra della carreggiata, continuando a osservare rabbrividendo per come altre macchine avessero schivato per poco il cane che gli veniva incontro. Scendemmo dalla macchina e provammo ad attirare il cane verso di noi. Pensai che per paura o per diffidenza non si sarebbe mai avvicinato. E invece il cane venne vicino a noi e alla macchina. Pensai che sarebbe stata dura convincerlo a salire in macchina e gli aprii lo sportello dal mio lato invogliandolo con gesti e parole. Il cane si rivolse titubante verso la strada dietro di noi quasi manifestando la sua preoccupazione in un dialogo interiore che sembrava essere: «Se salgo con loro non mi accorgerò se passerà…». Dopo averlo sollecitato un’altra volta a prendere una decisione, il cane, nonostante lo sportello fosse aperto il necessario per farlo accedere alla nostra vettura, saltò all’interno della macchina entrando dal finestrino che era completamente aperto, rivelando delle doti atletiche impensabili. Durante il breve tragitto, il nuovo passeggero si era posizionato con il sederino accucciato a terra davanti a me, a lato del guidatore. Mi aveva un po’ sorpresa quando con una certa disinvoltura aveva appoggiato confidenzialmente le sue zampe anteriori sulle mie ginocchia, cercando di capire in quale direzione stessimo andando. Provai ad accarezzarlo e sembrò non aver paura. Anche io mi feci coraggio, ero un po’ fuori allenamento visto che mio fratello cane Thay, un pechinese bianco di quindici anni, era mancato da circa sette anni e io non avevo più sfiorato un cane da allora. Nella mia mente i canoni estetici del cane erano ben diversi dall’esserino che mi stava appollaiato sulle ginocchia, con la leggerezza di un passerotto sul ramo esile di un albero: le dimensioni dovevano essere piccole anche se di corporatura tondeggiante e in questo caso la corporatura era slanciata, atletica, le dimensioni erano medie di un cane giovane ma già adulto; il manto era ispido e il pelo corto tranne dei punti dietro la nuca e prima della coda in cui era un po’ più folto; il viso poi aveva il muso sporgente, cosa a cui non ero assolutamente preparata e le orecchie grandi e a punta altrettanto. Gli occhi di questo piccolo atleta erano umani, dolcissimi e trasparenti color dell’ambra. Riuscivo a leggere il suo pensiero, attraverso il suo sguardo. Eravamo diretti a casa di Pietro e vi scendemmo non so nemmeno io ancor bene come, visto che eravamo sprovvisti di guinzaglio. Il cane ci ascoltava e seguiva attentamente. Era indubbiamente abituato al dialogo degli umani e socializzato abbastanza da comprendere le nostre intenzioni. Quando entrammo in casa dei miei suoceri, presentammo il nuovo arrivato, sperduto da chissà dove, raccontando dello strano ritrovamento. Gli diedi dell’acqua e mentre ci eravamo appena seduti intorno al tavolo della cucina per parlare un po’, l’ospite si produsse in una strana richiesta, ovvero si mise in equilibrio sulle zampe posteriori mentre agitava su e giù quelle anteriori, come fosse un’esibizione da circo. Immediatamente cercammo qualcosa di commestibile da offrire al piccolo e poi parlammo di come poterlo ospitare in attesa di spargere la notizia del ritrovamento sperando che il suo legittimo proprietario si facesse vivo. A casa dei miei era da escludere in quanto mio padre, abbastanza allergico alle presenze pelose, dopo la morte di Thay, per non rischiare un’altra adozione, chiudeva strategicamente la conversazione in proposito, giustificandosi con la formula: «La morte del nostro cane è stata un trauma che non voglio rivivere». Per cui sapendo che molto probabilmente, vista la giovane età del cane e la sua educazione, avremmo trovato il suo proprietario o l’avremmo affidato ad altra famiglia, preferii non andare incontro a guerra certa e non dissi nulla in famiglia. Di sicuro, in quella fase della mia vita non pensavo di adottare un cane e non un cane così, sia per l’estetica che per l’età già adulta. In realtà scoprimmo dopo un po’ di tempo che non eravamo stati noi ad adottare il peloso ma lui che ci aveva scelti ed era poi riuscito a farsi accettare e amare da noi. Scoprimmo negli anni seguenti, che questi slanci del cuore che noi umani ci attribuiamo come prerogativa esclusiva, non sono solo nostri e che il nostro trovatello ci ha adottati nel momento in cui ha abbandonato la strada ed è saltato dentro la nostra macchina. La prima sera Nichetto, così mi veniva di chiamarlo dalla pubblicità dei biscotti che mi piacevano tanto, la trascorse con noi, che soggiornavamo nella casa al mare di Pier. Quella sera andammo a cena in una pizzeria di Marina di Modica, Da Beatrice, lasciando il piccolo in macchina con i vetri dell’auto lasciati un po’ a fessura. A ripensarci non eravamo proprio abituati all’idea di far accettare agli altri i cani come parte della famiglia e d’altronde in quel momento Nichetto era per così dire un cane in transito. Ma la cosa che mi meravigliò molto fu che uscendo dalla pizzeria trovammo il cane acciambellato sul sedile anteriore della macchina come lo avevamo lasciato. Si vedeva che era molto stanco ed era interessante osservare come si fosse completamente affidato a noi, adattandosi ai nostri spostamenti.

    Una volta a casa, gli preparai un giaciglio su una poltrona in vimini rivestita da cuscini vari. Il cucciolo si lasciava guidare docilmente in tutto. La notte trascorse tranquilla e l’indomani, appena la luce del giorno era penetrata dalle fessurine delle serrande, Nichetto aveva chiamato, grattando con la zampa sulla persiana e poi venendoci a svegliare dietro la porta della camera da letto. Gli aprimmo la porta finestra della cucina e lui uscì in giardino come una scheggia a rincorrere lucertole e farfalle sotto gli alberi. Verso l’ora di pranzo andammo a casa di mia suocera in modo da essere pronti per la partenza di Pietro da Modica per l’aeroporto di Catania.

    Dietro suggerimento di mia suocera, pensammo di sistemare il trovatello a casa della nonna Concetta, la nonna di Pietro, dotata di un giardino in fondo al quale era stato realizzato uno sgabuzzino semiaperto che poteva fungere da protezione per il freddo durante la notte. Arrivati dalla nonna, presentammo il cane e la nostra richiesta di accoglienza temporanea. Io mi rendevo responsabile e disponibile a venire nei giorni successivi per portarlo fuori per la passeggiatina e per dargli la pappa. La nonna Concetta accettò e Pietro partì tranquillo o… quasi.

    L’indomani andai a prendere Nichetto, a casa della nonna, gli diedi la pappa e lo portai presso una toelettatura dove lo feci lavare anche per accertarmi che non avesse eventuali parassiti. Ricordo che per metterlo in vasca la toelettatrice, pur venendo a conoscenza della storia, si rivolse a me come se fosse il mio cane, visto che comunque il cucciolo non mi staccava gli occhi di dosso ed era chiaro che si sarebbe fatto docilmente convincere da me. La aiutai, ma comunque lui sembrò essere a suo agio fra due donne e successivamente dimostrò di gradire molto quelle cure. Una volta rimesso a nuovo, io e il cucciolo ci recammo presso un negozio per animali, Tecnonatura, in cui raccontai ai gestori del ritrovamento di Nichetto. Fu possibile mettere un annuncio facendo pubblicità al ritrovamento, nella speranza che il proprietario si mettesse in contatto con me.

    Le giornate successive trascorsero alternando momenti in cui io lasciavo il cucciolo a casa della nonna Concetta ad altri in cui me lo portavo ovunque a Modica. Spesso per la passeggiata del pomeriggio andavamo presso un’area incolta in prossimità del nuovo campo sportivo. Lì per la sua felicità, potevo lasciarlo libero di scorrazzare per almeno mezz’ora. Lui tornava sempre a riprendermi. Poi saltavamo entrambi in macchina e tornavamo a casa della nonna. In uno dei pomeriggi in cui mia suocera era andata a prendere sua mamma, la nonna Concetta, per accompagnarla da un’altra figlia che abitava circa a qualche isolato di distanza, sperimentammo la capacità, si direbbe oggi, di problem solving di Nichetto. Mia suocera con la madre si erano congedate dal piccolo che avevano lasciato in giardino chiuso con il cancelletto in legno a esplorare fra i cespugli verdi. Mia suocera, con la sua macchina, aveva già imboccato la via e si era immessa in una delle strade principali e molto trafficate, quando proseguendo a un’andatura consentita dal traffico di quell’ora, si accorse dallo specchietto retrovisore di essere inseguita da una piccola nuvola rossa. Guardando più attentamente e rallentando per il traffico, realizzò che la nuvoletta rossa che la stava inseguendo era il cane appena lasciato in giardino. Mia suocera accostò la macchina, aprì lo sportello e Nichetto saltò dentro, si accucciò ai piedi di nonna Concetta e non si spostò più di lì fino al termine dei giri delle due signore. Mia suocera ancora non si spiegava come Nichetto fosse passato sotto i listoni di legno del cancelletto di casa della nonna, considerato l’esiguo spazio, di circa 10 – 15 cm dal pavimento e che le dimensioni del cane erano comunque di una taglia media alta circa 35 cm. Successivamente, le capacità acrobatiche del cane ci indussero a ipotizzare anche una sua fuga da qualche circo. Di certo quel che per me è stato sempre chiaro è che Nichetto era un nato libero, aveva bisogno dei suoi spazi di autonomia pur mantenendo un saldo attaccamento alla famiglia, il suo branco di appartenenza. Così, sin da subito, Nichetto, Nicholas poi anche detto Nickj, mi abituò alle sue divagazioni nell’area verdeggiante adiacente al nuovo campo sportivo di Modica Sorda, poi in spiaggia a S. Maria del Focallo e negli anni successivi con Pietro, durante le uscite in montagna. In realtà lui non si perdeva mai. Era lui a ritrovarci, bisognava solo aspettarlo nello stesso punto da cui partivano le sue esplorazioni.

    Pietro era rientrato a Roma, dopo qualche giorno dal ritrovamento del cucciolo e io cercavo di organizzarmi come meglio potevo fra visite al cucciolo, preparazione per l’esame di stato per l’iscrizione all’Ordine degli Assistenti Sociali e programmazione del futuro con Pietro. Riferivo a fine giornata a Pier le giornate trascorse con il nostro nuovo amico, iniziando già una condivisione di dialogo che probabilmente avrebbe modificato il nostro rapporto, portandolo da rapporto di coppia a rapporto familiare.

    Una mattina, già scoraggiata dalla mancanza di novità per le sorti del cane in affido da nonna Concetta, quando mi recai per la solita passeggiata del mattino trovai il cane legato con il guinzaglio a un albero. La nonna mi spiegò che lei e le figlie avevano pensato di legare il cane, un po’ per paura che scappasse di nuovo da sotto il cancelletto e un po’ per evitare che rovinasse le piante e l’orto. Io vedendolo girare intorno all’albero a cui la catena era stata agganciata, come facevano anticamente i buoi legati alle macine che facevano il solco intorno, decisi che sarebbe stato meglio che Nickj non restasse ancora a lungo dalla nonna e mi rassegnai all’idea che nessuno l’avrebbe più reclamato. Lo sganciai dalla catena, lo ripulii dal fango e lo portai a casa dei miei genitori. Non ricordo bene cosa accadde o cosa mi disse mio padre. Penso di averlo rimosso o forse Nicholas negli anni mi ha ricompensata abbondantemente delle limitazioni cui eravamo sottoposti nel periodo che trascorremmo a casa dei miei. Io e Pier iniziammo così a pensare la nostra vita a tre. Grazie a un amico fraterno, Salvo, che si occupava delle uscite di Nicholas e grazie alla mia mamma che pensava alle pappe, riuscii ad andare a Roma per qualche colloquio di lavoro. Pietro, invece, alternava il lavoro alla ricerca di casa. Per cui all’alba del giorno di pubblicazione di Porta Portese, in cui era possibile trovare un grande assortimento di annunci di case in affitto, Pietro andava ad acquistare la rivista e immediatamente dopo fissava gli appuntamenti per vedere le case maggiormente in linea con le nostre esigenze e disponibilità di portafoglio. Ricordo quel periodo come una fase di limbo, in cui sembravamo non trovare sbocchi concreti alle nostre azioni e intenzioni. Non fu facile.

    2. IL SOGGIORNO ROMANO

    A gennaio 2002, al secondo colloquio di lavoro a Roma, fui assunta con contratto a tempo pieno e indeterminato, da una cooperativa sociale che erogava servizi di assistenza domiciliare ai portatori di Handicap e gestiva un centro diurno in quindicesima circoscrizione, Zona Magliana – Portuense. Dopo qualche settimana trovammo casa, una sorta di dependance in una villetta di proprietà di due pensionati in borgata Montespaccato, un altro grande quartiere di questa grande città. La casa, a pian terreno, di circa 40 metri quadrati, era circondata da un ballatoio al quale era collegato un ulteriore terrazzino sopraelevato dove era possibile stendere i panni per farli asciugare e dove si trovava un po’ di verde dove far brucare Nickj. Di fronte all’entrata principale, oltre la sede locale della vivace tifoseria laziale, si dipartiva la tranquilla via, con casette basse e zone ombreggiate in cui poter far passeggiare i propri amici a quattro zampe.

    Del viaggio di andata per Roma ricordo la mia macchina, una lancia Y modello elefantino, piena come un uovo e Nicholas fra le mie braccia e con il muso a tratti penzolante verso il freno a mano, da Villa San Giovanni a Roma. La casa, non essendo ammobiliata, richiese da parte nostra un impegno immediato in ricerca di mobilio essenziale, come una cucina e un letto. Per i primi mesi per vestirci al mattino pescavamo dai cartoni semi aperti in cui avevamo imballato gli indumenti. Poi pian pianino potemmo mettere da parte anche il tavolino da campeggio, prestato da papà, in cui avevamo trascorso le prime cenette a lume di candela in compagnia del nostro cucciolone, ritornando alla normalità. Nicholas nell’arco di pochi giorni aveva fatto la mappatura della casa e delle zone verdi che la circondavano. Era sempre più ubbidiente e rispettoso dei padroncini, ma non riusciva proprio a trattenere le sue necessità esplorative. Avevamo scoperto andando un po’ in giro con lui, una collinetta quasi dietro casa. Quando avevo più tempo lo portavo sulla collina con il guinzaglio allungabile e una volta giunti all’apice se non scorgevo pericoli, lo lasciavo libero di girare. Qualcuno potrà dire: «Ma che pericoli possono esserci in una zona verde quasi disabitata?». L’unico reale pericolo era rappresentato da un pastore di pecore che ogni tanto transitava col suo piccolo gregge. Pastore e gregge erano sorvegliati da un grande meraviglioso cane maremmano bianco che il più delle volte restava accucciato quasi dormiente e apparentemente inoffensivo sullo spiazzo al centro della zona pianeggiante in cima alla collina. Ricordo che una volta, dopo aver fatto quasi d’un fiato la salita della collina dietro Nicholas che mi precedeva con i suoi sei metri di guinzaglio allungato, arrivati in cima, trovammo il maremmano che da accucciato aveva semplicemente alzato il muso insospettito dalla nostra improvvisata e al secondo passo di Nicholas nella sua direzione, non aveva fatto altro che dargli l’out out con un abbaio di avvertimento, quasi a volergli dire: «Ehi tu, ma dove pensi di andare? Non hai visto che ci sono io?». Io richiamai Nickj, frettolosamente riavvolsi il guinzaglio, mandai giù l’affanno per la salita e gli intimai di battere in ritirata. Nicholas per fortuna capì.

    In considerazione del fatto che a Roma le villette pubbliche, unici polmoni verdi della città, sono sempre affollate di bambini, cani e padroni, durante un’altra occasione, una domenica pomeriggio, io, Pier e Nickj avevamo esplorato nuovi sentieri nei dintorni della strada Portuense, sempre con l’intento di poterlo lasciare un po’ libero di scorrazzare. Avevamo trovato

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