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Il lungo cammino della scarpa fermano-maceratese nel mondo
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E-book193 pagine2 ore

Il lungo cammino della scarpa fermano-maceratese nel mondo

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Info su questo ebook

Il “modello economico marchigiano” è stato per lungo tempo oggetto di studi dalle più prestigiose università di economia del mondo. Esso si fonda su una miriade di micro e piccole imprese, capaci di fornire prodotti di grande qualità che unite all’estro dei suoi creatori hanno influenzato la storia della scarpa a livello mondiale.
Proprio il distretto industriale fermano maceratese ha avuto da sempre un ruolo importante, perché nasce da una storia antica. Numerosi reperti archeologici, testimonianze scritte, espressioni artistiche (quadri, statue, etc), evidenziano la particolare abilità degli artigiani di queste zone, con invenzioni che hanno fatto innamorare re e regine di ogni parte del mondo.
La storia dimostra che proprio la piccola industria è capace di sopportare meglio i capricci del mercato mondiale riuscendo sempre a cavalcare le onde più impervie grazie alla propria leggerezza e duttilità. Questo libro ci invita a riscoprire la grandezza di tanti uomini operosi che hanno reso non solo comode, ma anche eleganti e piacevoli le nostre calzature, creando prodotti unici e dettando le mode di ogni tempo.
LinguaItaliano
Data di uscita11 gen 2022
ISBN9788831381550
Il lungo cammino della scarpa fermano-maceratese nel mondo

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    Anteprima del libro

    Il lungo cammino della scarpa fermano-maceratese nel mondo - Emanuela Properzi

    Premessa

    L’argomento di questo libretto, per quanto possa sembrare ristretto alla calzatura marchigiana, è stato scelto per ricordare come la Storia sia formata da tante piccole realtà che meritano di essere raccontate, perché la loro memoria non sia confusa, o peggio si perda nei rivoli di argomentazioni molto più ampie [1] .

    Lo scritto, ordinato in maniera per gran parte cronologica, vuole presentare e serbare la commossa memoria di coloro che, piccoli lavoratori e tenaci imprenditori del settore calzaturiero, furono raffigurati, intenti al loro mestiere, nelle belle foto che, alcuni anni addietro, ho veduto in una sala consiliare del comune di Sant’Elpidio a Mare. Lo scritto cerca di ricordare tutti quelli che nel nostro territorio hanno esercitato con estro e tenacia l’artigianato della calzatura, antico di secoli, tra i quali vi è il mio bisnonno, Orazio Murri.

    L’idea di portare avanti una storia della calzatura scaturì, diversi anni or sono, da un donativo che mi era stato elargito dal professor Pompilio Bonvicini il quale, nella Biblioteca Comunale di Fermo, mostrandomi la pianta di Falerone, ricavata dal Catasto napoleonico, mi fece notare come la scansione dei caseggiati a est dell’asse di crinale faleronense ricalcasse ancora la determinazione delle dimensioni romane. Tutte le ripartizioni rispondevano alla misura di uno iugero e mezzo, misura di terreno concessa dalla Lex Iulia, a chi, nell’esercito, si era dedicato alla realizzazione o alla riparazione delle scarpe militari.

    Prima ancora che fosse trovata nella pietra di Petritoli la prova dell’attuazione di scarpe nel territorio, si era potuta intuire la presenza dell’artigianato della calzatura per tutto il Fermano-maceratese, risalente al periodo piceno-romano.

    Un particolare ringraziamento, per la gran mole di informazioni e per l’incoraggiamento, è indirizzato alla mia amica Rosalia Sgalippa, ex docente della Scuola media Luigi Pirandello di Civitanova Marche, la quale mi ha donato il pregevole lavoro riguardante l’industria della calzatura nel territorio cittadino dal primo dopoguerra: " Civitanova Marche, Dalle pa-pusch alle scarpe migliori del mondo. Il volume, realizzato nel 1999 con testimonianze raccolte direttamente dai protagonisti del mondo calzaturiero civitanovese, è stato svolto sotto la guida delle insegnanti coordinatrici Rosalia Sgalippa e Livia Brillarelli e dalle classi II e III sezioni C-D della Scuola Media Luigi Pirandello" di Civitanova Marche, per essere un efficace strumento di indirizzo al lavoro. La pubblicazione rimane una puntuale e appassionata testimonianza dell’industria calzaturiera della nostra regione.

    Molte delle notizie, riportate senza alcuna citazione di fonti, sono frutto dei ricordi di mia zia, Adelina Properzi Petrelli e delle memorie dell’amico professor Giannino Mostardi.

    Per sottolineare l’importanza che l’industria calzaturiera ha avuto per il nostro territorio, ci si è avvalsi della disponibilità e dell’esperienza dei coniugi professori Pietro e Ada Ciccalè e della conoscenza del territorio dell’ingegner Paolo Pennelli.

    Un ricordo speciale va a Lanfranco Gentili, bravissimo artigiano, per le preziose informazioni in merito alla costruzione della scarpa e a Giuseppe Ribichini, altro geniale artigiano e conoscitore appassionato di storia della lavorazione della pelle, che ha utilizzato, per la creazione di originali borse, fascette di pelli a intreccio, a memoria di un artigianato antico e tuttora presente nel territorio, quello dei cappelli e dei cesti di vimini [2].

    Si ringrazia per gli incoraggiamenti l’amico professor Luca Leoni e mio marito, professor Giovanni Rocchi, per la comprensione mostratami.

    Il presente lavoro, pubblicato nel 2017, non senza sorpresa e con un pizzico di orgoglio, è servito a far conoscere all’estero il distretto calzaturiero marchigiano o meglio piceno, la sua storia e i suoi protagonisti.

    immagine 1

    Silvestro Lega (1826-1895), Il grembiule azzurro, olio su tela, cm 39,6x65, Roma collezione privata. La figura della giovane donna è tratta dalla quotidianità. Il lungo fiocco del Fazzoletto rosso e le calze rosse, indossate con semplici pianelle, attutiscono il malinconico realismo sottolineato dall’atmosfera poetica dello sfondo.


    [1] Numerosi sono i libri sulla storia della calzatura, tra cui la più esaustiva è la pubblicazione di E. Semmelhack, Scarpe, storia, stili, modelli, identità, Edizioni Odoya, 2019. Lo scritto, per lo più rivolto alla calzatura americana, non tiene conto delle tante piccole realtà dell’industria calzaturiera italiana e tanto meno di quella marchigiana.

    [2] Tale lavorazione viene portata avanti dal figlio Andrea.

    Introduzione

    Quanto è avvenuto nel corso degli anni, in particolare dall’inizio del Novecento, nella vicenda industriale calzaturiera delle province di Fermo e di Macerata, si propone quale punto di arrivo di un’evoluzione lavorativa iniziata in tempi assai lontani.

    Non è il risultato di una rivoluzione industriale, ma piuttosto frutto di un artigianato che trae origine da un ininterrotto apprendistato, da un lavoro costante, dall’attenzione al territorio e all’ambiente umano. Sono dimostrabili e ben evidenti i legami tra l’antico lavoro artigianale e l’odierna industria, pur non mancando i periodi di discontinuità e di stagnazioni, spiegabili attraverso le numerose vicissitudini storiche.

    La conoscenza del territorio e della sua storia è pure il modo di mettere insieme criticamente i risultati dell’indagine culturale e sociale, di prendere atto dell’importanza del fenomeno nel corso degli anni, per permettere una comprensibile e chiara lettura del passato.

    Questa ricerca nel mondo della calzatura del distretto fermano-maceratese è riferita a tutte le imprese della calzatura che, con notevole coraggio nell’affrontare le sfide dell’odierno mercato, sono tuttora presenti sul territorio. Sono aziende che lo qualificano tuttora e, fino a pochi anni fa, lo hanno designato il paese della calzatura. Il relativo indotto ha permesso un sostanziale avanzamento economico dell’area, incoraggiando la crescita in settori specialistici e nei servizi.

    Entrambe le province di Fermo e di Macerata, con la loro densità di calzaturifici, sono state un laboratorio di esperienze e insieme hanno concorso alla delineazione di un articolato, quanto semplice e originale, modello di società industriale esteso ad altre attività. Tali attività sono da sistemarsi nel mondo di mezzo tra l’artigianato e il prodotto industriale, come l’intreccio della paglia per i cappelli, ma pure il riutilizzo degli scarti e ritagli dei cuoi o l’intreccio delle fettucce di pellami per la creazione di originali borse.

    Con la presente indagine si è tentata una diligente lettura delle fenomenologie e si è posta l’attenzione sul significato antropologico e culturale per il quale la società, dalla trasformazione del piccolo artigianato in industria, ha continuato a mantenere tutte le sue primitive caratteristiche, che hanno integrato due realtà: la campagna e i centri urbani.

    Molti dei centri a vocazione calzaturiera hanno continuato ad avere la caratteristica struttura, assegnata loro in tempi lontani, struttura che le vicende storiche di ogni tipo, occorse in epoche successive, crisi economiche, guerre, mutamenti politici, hanno solo minimamente modificato.

    Questa integrazione tra società di campagna e urbana, ha impedito, in passato, la formazione di consistenti poli industriali nei comuni dell’area interessata, e al tempo stesso ha contrastato fortemente lo stravolgimento dei rapporti culturali con i relativi contraccolpi sulla coesione sociale, sulla mentalità e sui costumi.

    Il calzaturiere Elisio Fabi, nel suo libro La storia della mia vita, dedicato ai nipoti Nicolò, Allegra e Alessandro (a cura di E. Sarti, Simple 2013), spiega bene il passaggio da una generazione legata alla terra in condizione mezzadrile a una nuova, capace di inventarsi un lavoro in proprio con diverse e vantaggiose soluzioni economiche, in grado di credere nelle proprie potenzialità, ma soprattutto, intuitiva nel determinare e nel valutare i rischi.

    La piccola e media impresa, che da sempre ha caratterizzato l’area fermano-maceratese, in questo periodo però mostra, più che nel tempo precedente, l’affanno nel confrontarsi con uno sviluppo di nuovi e differenti mercati e soprattutto con la globalizzazione.

    Nel passato, la frantumazione industriale, che da sempre e da più parti è stata considerata la debolezza dell’industria calzaturiera marchigiana, più volte e nei periodi di crisi si è rivelata il cardine per la sopravvivenza e per il rinnovamento delle aziende. Nel presente, sicuramente l’unione di aziende e la differenziazione dei prodotti può aiutare il superamento dell’attuale fase di cambiamento.

    La signora Annarita Pilotti, amministratore delegato del calzaturificio Loriblu, nel suo primo discorso da presidente di Assocalzaturifici, notava come una crisi duratura del settore potrebbe portare ad una ripresa difficile, lenta e, per alcuni, non indolore. Le aziende hanno cercato, se pur a fatica, le risposte attraverso la cooperazione con altri simili distretti, con l’utilizzo della rete informatica e con la realizzazione di incontri.

    Gli sforzi degli imprenditori del settore per contenere i danni non mostrarono tuttavia nell’immediato la loro efficacia. Rossano Soldini , presidente dell’ANCI (Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani), già nel 2003, esprimeva il suo disappunto per la continuata mancanza di protezione del prodotto italiano da parte di tutti, istituzioni comprese.

    Per una piccola e media industria furono sicuramente sempre presenti e incombenti i paventati pericoli della sottostima delle tecnologie, dell’agitato mercato della moda, della tesa irrequietezza dell’attuale mondo bancario, delle incertezze della politica e della globalizzazione, che presenta continuamente nuove dinamiche di mercato.

    Le difficoltà erano state spesso compensate e superate dalle capacità imprenditoriali e creative e dalla competenza degli industriali della calzatura.

    Gli interrogativi riguardo al distretto calzaturiero fermano-maceratese sono volti al futuro e le risposte possono venire da una ricerca per la valorizzazione delle potenzialità del territorio.

    Le premesse per un’ulteriore evoluzione qualitativa e quantitativa del prodotto calzaturiero vi sono tutte.

    La calzatura nel periodo piceno-etrusco

    La spiegazione delle omogenee competenze che nell’antichità legavano le sponde del Mediterraneo va ricercata nel sibillinismo [1] . Esso rappresentava l’istituzione più alta, che univa all’aspetto religioso le conoscenze dei popoli mediterranei.

    I Piceni, come Fenici, i Greci e gli Etruschi, avevano i propri centri del sibillinismo. Cuma, considerata il centro sibillino più importante d’Italia, era greca dopo essere stata fenicia. Cupra, considerata sia la solare K-pr-Ra sia dea ctonia, era, per i Romani, la figurazione più alta del sibillinismo [2], essendo l’espressione più elaborata della misurazione terrestre. Presso tutte le istituzioni sibilline era conservato un ricco bagaglio culturale e cultuale fatto di competenze le cui prime manifestazioni sono da ricercarsi nella Preistoria.

    I Greci e i Fenici, che venivano nelle isole Eolie per prelevare l’ossidiana e che in seguito andarono in Sicilia per prendere l’allume nelle grotte agrigentine [3], assieme alle merci portavano dalla madrepatria quanto apparteneva al loro sibillinismo, che spaziava dalla fabbricazione del vetro, al trattamento dei metalli, alle conoscenze astrologiche, alla lavorazione di pregiati tessuti (non della seta, di cui i Cinesi custodivano gelosamente il segreto), alle misurazioni delle distanze, alla matematica, alle tinture, fino al mantenimento dei pellami.

    La lavorazione dei cuoi presupponeva un’abilità non indifferente consistente nel conservarli, nel farli durare elastici e nel tingerli.

    La tecnica del trattare le pelli per sottrarle alla putrefazione non fu quindi sconosciuta al mondo italico, dove, nel tempo, si affinò fino a raggiungere risultati apprezzabili. I migliori prodotti ottenuti, gli Etruschi li riservarono alle calzature di un’elitaria clientela presente nelle loro città. In seguito, li esportarono entrando in competizione commerciale con i Greci.

    Dal VI secolo a. C. gli Etruschi, abili navigatori, erano ricorsi all’importazione di pellami conciati e non, generalmente grezzi e conservati sotto sale, che provenivano sia dalle coste africane sia da quelle del vicino Oriente.

    Non a caso, gli Etruschi, nel territorio Piceno, come mostra la dodecapoli nella pianura del Po, avevano le loro colonie per poter meglio commerciare, attraverso l’Adriatico, con i porti greci e orientali. Da quelle terre gli Etruschi importavano le materie prime da lavorare e avevano pure scelto di condividere il territorio piceno con la popolazione autoctona [4]. Del resto, la civiltà dei Piceni non differiva molto da quella etrusca per tradizioni, simile era la lingua, se pur di poco differente era la grafia. L’abbondanza ostentata nei ricchi corredi funerari dell’area picena mostrano la presenza di una civiltà culturalmente evoluta, pronta ad accettare soluzioni artistiche di altri popoli, oltre che economicamente florida.

    A seguito dell’immigrazione di popolazioni provenienti dalle isole greche e di piccole comunità ebraiche provenienti dall’Egitto, le popolazioni picene si erano dedicate a redditizi e specialistici commerci, che riguardavano la lavorazione dell’ambra proveniente dal Baltico, che si svolgeva quasi esclusivamente a Belmonte Piceno, e quella delle armi [5]. A quest’ultima si venne ad aggiungere la produzione delle scarpe, incrementata, nel periodo della Roma repubblicana, dalla richiesta di calzari militari.

    La peculiarità del territorio del Piceno, ai tempi di Augusto compreso nelle V e VI regiones, era quella di non essere troppo distante da Roma e quindi permettere, attraverso le vie Salarie (o Salutarie), scambi regolari con la capitale. La popolazione delle due (future) regiones augustee era, dunque, sistemata in centri piceni abitati dagli Etruschi e pure da piccoli nuclei ebraici. Tra i centri piceni sorgevano le città etrusche, mentre le città costiere erano appannaggio dei Greci, venuti a più riprese sulle coste del Piceno.

    A differenza degli Etruschi, che si erano dovuti piegare con una certa riluttanza alla dominazione romana, gli abitanti del Piceno erano ritenuti affidabili dal Senato, sebbene non venissero a mancare, con Roma, divergenze e sommosse [6].

    I Romani, nonostante le contrarietà, tesero ampiamente a valorizzare gli importanti centri cultuali piceni e ad appropriarsi delle conoscenze del sibillinismo [7], dalle quali trassero la cartografia da utilizzare nelle conquiste, nella divisione delle terre, nelle costruzioni civili, nella realizzazione di strade e quindi nel catasto. Vincitori e dunque forti del loro vantaggio economico e militare, i Romani nel periodo repubblicano cercarono di usufruire al meglio dei manufatti e della tecnologia delle popolazioni italiche. L’arricchimento della popolazione romana e la diffusione della moneta [8], garantita dal Senato, avevano favorito, nei territori dove esisteva un buon artigianato, lo sviluppo di produzioni atte a migliorare il benessere delle persone che vivevano nelle città e soprattutto la vita degli ex legionari, invitati a sistemarsi nelle colonie.

    Nel V sec. a. C., un clima particolarmente umido determinò la diffusione, nel

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