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Saving Grace: Un Giallo Caraibico Firmato Katie Connell
Saving Grace: Un Giallo Caraibico Firmato Katie Connell
Saving Grace: Un Giallo Caraibico Firmato Katie Connell
E-book358 pagine4 ore

Saving Grace: Un Giallo Caraibico Firmato Katie Connell

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Info su questo ebook

Quando il destino concede all’avvocata Katie Connell, profondamente ferita, nonché un autentico disastro, un'inaspettata seconda possibilità ai Caraibi, lei ritroverà sé stessa, o sarà un assassino a trovarla?
”Katie è il primo personaggio di cui mi sono follemente innamorata sin dai tempi di Stephanie Plum!” scrive Stephanie Swindell, libraia.
La carriera di Katie Connell, avvocata del Texas e trasandata alcolista, si è appena sgretolata davanti ai suoi occhi. Dopo un fallimento pubblico e la commovente fine di una relazione, sfugge alla disintossicazione ritirandosi sull’isola tropicale dove i suoi genitori hanno tragicamente perso la vita. Ma quando vi arriva, diventa sempre più chiaro che il presunto incidente dei genitori fosse stato, invece, freddo e calcolato. Mentre Katie si fa strada tra gli indizi, viene aiutata da una fonte inaspettata: uno spirito di nome Annalise. Tra il fantasma affine, l'atmosfera locale e un bellissimo chef, la bizzarria dell’isola scombussola l’ex-avvocata. Riuscirà Katie a rimettere insieme i pezzi della sua vita e a risolvere il caso di omicidio dei genitori, in questo nuovo inizio?
Le avventure di Katie hanno oltre 4000 recensioni, un punteggio medio di 4.5/5 e sono disponibili come e-book, libro cartaceo e audio-libro. Saving Grace è il primo volume a sé stante della trilogia di Katie, e il primo libro della collana poliziesco-romantica Cosa non uccide. Il sito Once Upon a Romance si riferisce all’autrice come ad una “promettente forza motrice della scrittura”. Se apprezzate scrittrici come Sandra Brown o Janet Evanovich, amerete Pamela Fagan Hutchins, vincitrice del premio USA Today Best Seller. Come ex-avvocata di origini texane, Pamela ha vissuto nelle Isole Vergini per quasi dieci anni, anche se si rifiuta di ammettere di aver trovato l’ispirazione per i suoi romanzi durante quel periodo.
Cosa dicono i lettori della serie Cosa non uccide, su Amazon: “Non riesci a staccartene.” “Piccolo avvertimento: cancellate gli impegni prima di comprarlo perché non riuscirete a staccarvene.” “Hutchins è una maestra nel dosare la tensione.” “Un mistero intrigante… un romanzo accattivante.” “Tutto è brillante: l’intreccio, i personaggi, la scrittura. Una delizia per i lettori.” “Mi ha preso sin da subito.” “Ammaliante.” “Un mistero frenetico” “Non riesco a staccarmene” “Coinvolgente, complesso e ricco di spunti.” “Un omicidio non è mai stato così divertente!” “Garantisco che amerete la lettura!”
Comprate oggi Saving Grace per addentrarvi in un mistero esilarante, da cui non riuscirete a staccarvi!
LinguaItaliano
EditoreTektime
Data di uscita10 dic 2021
ISBN9788835429616
Saving Grace: Un Giallo Caraibico Firmato Katie Connell

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    Anteprima del libro

    Saving Grace - Pamela Fagan Hutchins

    UNO

    Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana

    14 agosto 2012

    Il nuovo anno si stava rivelando anche peggiore del precedente, che già era stato un disastro.

    Era stato l’anno in cui i miei genitori erano morti in un ‘incidente’ durante la loro vacanza ai Caraibi, e io stavo lavorando troppo per riuscire ad ascoltare i miei istinti, che gridavano ‘sono stronzate!’ così forte da farmi quasi perdere un terzo orecchio. Stavo preparando il caso più importante della mia carriera, una scusa niente male per presentarmi in ufficio solo all’ora dell’happy hour, anche se in realtà la mia vera ossessione era l’investigatore privato assegnato al mio caso.

    Nick. Il quasi divorziato Nick. Nick, il nuovo collega che a volte sembrava volesse strapparmi via la camicetta con i denti, quando non era impegnato ad ignorarmi.

    Ma le cose erano cambiate.

    Quel giorno era stato raggiunto un verdetto sul mio mega processo, il caso di licenziamento senza giusta causa del signor Burnside. Il mio studio raramente si schierava dalla parte del querelante, ecco perché mi ero assunta un grande rischio con quel caso, facendo vincere tre milioni di dollari al signor Burnside, un terzo dei quali spettavano allo studio. L’esatto opposto di un disastro.

    Dopo la vittoria al tribunale di Dallas, io e la mia assistente legale Emily ci dirigemmo all’hotel dove lo studio aveva organizzato un ritiro aziendale, a Shreveport, in Louisiana. Shreveport non è di certo nella lista delle migliori destinazioni per vacanze aziendali, ma il nostro socio anziano aveva un debole per il poker, e amava la cucina cajun, il jazz e i casinò sull’acqua. Per Gino quella vacanza era una bella scusa per concedersi un po’ di Texas Hold’Em tra un seminario di team building e l’altro senza perdere la sua reputazione fenomenale, ma per noi significava un viaggio di tre ore e mezza all’andata e altrettante al ritorno. Non era un problema per me ed Emily. Era un’occasione per colmare i vuoti del rapporto assistente legale/avvocato e amica/collega con disinvoltura, principalmente perché nessuna delle due pretendeva di darsi delle arie.

    Una volta arrivate, ci precipitammo a fare il check-in all’Eldorado.

    Desiderate una mappa dei ghost tour? chiese la receptionist poliglotta, con il suo accento texano.

    È molto gentile, ma no, grazie, biascicò Emily. Nei dieci anni in cui era stata lontana da casa non era ancora riuscita a togliersi l’accento strascicato di Amarillo dalla voce o a rinunciare alle corse dei cavalli.

    Anch’io non credevo in quegli abracadabra, ma non ero nemmeno una patita dei casinò, che trasudavano puzza di fumo e disperazione.

    Avete per caso un karaoke, o qualsiasi cosa non sia un casinò, in loco?

    Certo, signora. Abbiamo un bar panoramico con karaoke, tavoli da biliardo, questo genere di cose. La ragazza si sistemò la frangia, per poi farla tornare esattamente dov’era prima, scuotendo la testa.

    Il bar mi ispira, dissi ad Emily.

    Karaoke, rispose. Di nuovo. Alzò gli occhi al soffitto. Solo se possiamo venirci incontro. Io voglio giocare a blackjack.

    Dopo aver lasciato le valigie nelle nostre stanze ed esserci date una rinfrescata, parlando al telefono per tutto il tempo, ci unimmo al gruppo. Non appena entrammo nella sala conferenze ci accolse un applauso scrosciante da parte dei colleghi. La notizia della nostra vittoria ci aveva precedute. Ci inchinammo, per poi attribuirci il merito a vicenda.

    Dov’è Nick? chiesi. Vieni qua.

    Nick aveva lasciato l’aula di tribunale mentre la giuria era uscita per deliberare, battendoci sul tempo. Si alzò in piedi da un tavolo dall’altra parte della stanza, ma non ci raggiunse. Lo applaudii comunque a distanza.

    Mentre l’applauso si spegneva, alcuni soci mi invitarono a sedermi al loro tavolo, vicino all’entrata. Mi unii a loro e nei quindici minuti successivi ci concentrammo per riscrivere la missione aziendale. Emily ed io eravamo arrivate giusto in tempo per la fine della conferenza. Nel dividerci, il gruppo si precipitò dall’hotel all’imbarcazione ormeggiata che ospitava il casinò. In Louisiana, il gioco d’azzardo è permesso solamente sull’acqua o su terre tribali. D’impulso mi diressi verso l’ascensore, invece che al casinò. Appena prima che le porte si chiudessero, una mano vi si infilò in mezzo, facendole riaprire, e mi ritrovai diretta alla mia stanza d’hotel in compagnia di nientemeno che Nick Kovacs.

    Quindi, Elena, anche tu non giochi d’azzardo, osservò, mentre le porte dell’ascensore si chiudevano.

    Mi si capovolse lo stomaco. Una sdolcinata, lo so, ma quando era di buon umore Nick mi chiamava Elena, come Elena di Troia.

    Avevo promesso a Emily una partita veloce a blackjack, prima di andare al karaoke, ma non era necessario che lui lo sapesse. Se davvero esistesse la fortuna del principiante, giocare d’azzardo potrebbe rivelarsi pericoloso, per me, dissi.

    La sua risposta fu un silenzio di tomba. Entrambi guardavamo giù, su, a destra, a sinistra, ovunque pur di non lanciarci occhiate l’un l’altra, il che era difficile, dato che l’ascensore era pieno di specchi. C’era un tantino di tensione nell’aria.

    Però ho sentito che c’è un tavolo da biliardo al bar dell’hotel, mi piacerebbe andarci, proposi, buttandomi a gamba tesa e trattenendo il respiro nel mentre.

    Di nuovo un silenzio di tomba. Un interminabile silenzio di tomba. Sarebbe stata dura riprendersi da quella batosta.

    D’accordo, ci troviamo là tra pochi minuti, rispose Nick senza guardarmi negli occhi.

    Ha davvero detto che ci troviamo là? Solo noi due? Insieme? Oddio, Katie, ma che cosa hai fatto?

    Le porte dell’ascensore si aprirono e ognuno si diresse verso la propria stanza. Era troppo tardi per tirarsi indietro, ormai.

    Ero in stato confusionale. Iperventilavo. Sudavo. Avevo il cuore a mille. Il mio outfit era completamente sbagliato, così mi liberai del completo di Ann Taylor e indossai dei jeans, una camicia bianca semplice, e sì, lo ammetto, una borsetta colorata di Jessica Simpson con dei sandali alti coordinati. Il bianco faceva un bel contrasto con i miei lunghi e ondulati capelli rossi, che sciolsi e sistemai sulle spalle. Era proprio lo stile che cercavo, lontano dal mio consueto contegno professionale. Per di più non mi piaceva neanche il mio lavoro, quindi perché ostentarlo nell’abbigliamento?

    Solitamente ero ossessionata dall’igiene personale, ma mi limitai ad una lavata veloce di denti, una passata di deodorante e un tocco di rossetto. Stavo pensando di chiamare Emily per dirle che le avrei dato buca, ma sapevo che avrebbe capito, una volta che le avessi spiegato le circostanze. Corsi in ascensore e maledissi ogni singola fermata ai piani intermedi, prima di raggiungere il tetto.

    Ding. Finalmente. Mi fermai a riprendere fiato. Contai fino a dieci, presi un’ultima boccata d’aria per darmi coraggio e avanzai verso il bar, tra le luci soffuse. L’uomo di cui avrei potuto fiutare la mascolinità a metri di distanza mi raggiunse alle spalle. Il calore mi salì alle guance. Il mio motore si accese. Proprio l’uomo che cercavo.

    Nick aveva origini ungheresi e doveva ringraziare i suoi antenati gitani per il colore scuro di occhi, capelli e pelle, e per gli zigomi pronunciati. Amavo la sua presenza animalesca, così diversa da una classica bellezza tradizionale. Aveva un naso piuttosto largo e storto, per averlo rotto troppe volte. Un po’ di tempo prima mi aveva raccontato che i suoi incisivi scheggiati erano dovuti ad una mattinata di surf andata male. Ma era affascinante in un modo che non si può spiegare e, a giudicare dagli sguardi femminili che spesso notavo, non ero l’unica a pensarla così.

    Si accorse di me. Ciao, Elena.

    Ciao, Paride, risposi.

    Sbuffò. Oh, chiunque ma non Paride. Paride era un rammollito.

    Mmm. Menelao, allora?

    Ehm, birra.

    Sono abbastanza sicura che non ci fosse nessuno chiamato ‘Birra’ nella storia di Elena di Troia, dissi, storcendo il naso con aria di superiorità.

    Nick si rivolse al barista. Una St. Pauli Girl. E finalmente sfoggiò il suo tipico sorriso, facendo scomparire tutta la tensione accumulata in ascensore. Ne vuoi una?

    Mi serviva qualcosa di più forte per prendere coraggio. Una Amstel Light.

    Nick fece l’ordine anche per me. Il barista gli allungò le due birre con il vetro umido di condensa e si asciugò le mani. Nick mi passò la mia, arrotolando un tovagliolo intorno alla bottiglia e allineandone i bordi con la precisione militare che amavo. Canticchiava sottovoce, dondolando la testa. Honky Tonk Women dei Rolling Stones.

    Mi sa che mi piaci più a Shreveport che a Dallas, dissi.

    Grazie, credo. E a me piace vederti felice. Immagino sia stato un anno duro per te, avendo perso i tuoi genitori e tutto quanto. A quel tuo sorriso, disse, allungando la sua bottiglia verso di me.

    Il brindisi mi fece quasi fermare il cuore. Aveva indovinato sul fatto che fosse stata dura, ma preferivo che l’argomento rimanesse sepolto come i miei genitori. Brindai con lui, ma non riuscii a guardarlo negli occhi mentre lo facevo. Grazie, Nick, davvero.

    Vuoi giocare a biliardo? chiese.

    Perché no?

    Ero su di giri: la ragazza del primo anno che esce con il capitano della squadra di baseball. Entrambi amavamo la musica, così parlammo dei vari generi, di band (la sua vecchia band, gli Stingray, e ‘vere’ band), del mio corso di musica alla Baylor, e della LSD, o Lead Singer Disease, la fantomatica malattia che rende insopportabilmente arroganti i cantanti solisti. Davanti ad un cartone di birre, ci scambiammo aneddoti sugli anni del liceo, e mi raccontò di essersi una volta occupato di una passerotta ferita.

    Una passerotta ferita? chiesi. Sicuro siano affari miei? Palla otto in buca d’angolo. Colpa mia.

    Riprese le palle dalle varie buche e le riposizionò nel triangolo, mentre io strofinavo il gesso blu sulla punta della mia stecca e soffiavo via la polvere in eccesso. Sei un po’ di strette vedute. La passerotta è un uccello, Katie.

    Mi soffermai su come aveva usato il mio vero nome per una volta, godendomi la sensazione.

    Ero uscito a fare surf, e ho trovato una passerotta che non riusciva a volare. L’ho portata a casa con me e me ne sono preso cura fino a che non è arrivata l’ora di liberarla.

    Oh, mamma mia! Puzzava molto? Ti ha beccato? Scommetto che tua madre fosse contentissima! Parlavo a vanvera, in un susseguirsi di esclamazioni. Imbarazzante. Sembravo una ragazzina viziata sotto acidi. Era calma, inizialmente era sotto choc, ma col passare dei giorni si agitava sempre di più. Avevo quattordici anni e mia madre era solo felice che non stessi in camera mia per occuparmi di un altro tipo di passerotta, quindi non era un problema. Iniziò a puzzare davvero tanto dopo alcuni giorni, però.

    Aprii. Le palle schioccarono e rimbalzarono in tutte le direzioni, prima che una piena ruzzolasse dentro una buca laterale. Piene, dissi. Quindi, tua madre ti aveva già beccato ad avere a che fare con una passerotta, vero?

    Ehm, non ho detto questo... disse, balbettando fino a tacere.

    Ero più innamorata che mai.

    Damn, I Wish I Was Your Lover stava passando in sottofondo. Non sentivo quella canzone da anni. Mi fece pensare. Per mesi avevo combattuto l’impulso di saltargli al collo e mordergli la nuca, consapevole del fatto che la maggior parte dei colleghi l’avrebbe giudicato inappropriato sul luogo di lavoro. Una mancanza loro, secondo me. Rivolsi lo sguardo alla grande terrazza fuori dal bar e pensai che, se fossi riuscita a portare Nick là fuori, avrei finalmente potuto farlo, lontana da occhi indiscreti.

    Credevo di avere delle buone possibilità di riuscita, fino a che un collega non entrò. Tim era un consulente dello studio. ‘Consulente’ significava che era troppo vecchio per essere chiamato ‘associato’, ma che non era un mago degli affari. In più, teneva i pantaloni almeno due centimetri più in alto del dovuto intorno alla vita. Lo studio non l’avrebbe mai promosso a socio. Nick e io ci guardammo negli occhi. Fino a quel momento eravamo stati due radio a onda corta impostate sullo stesso canale, perfettamente sintonizzate. Ma ormai la sintonia si era trasformata in interferenza e il suo sguardo si era offuscato. Si era irrigidito e, piano piano, si era allontanato.

    Fece un cenno a Tim. Ehi, Tim, siamo qua.

    Tim ci salutò da lontano e attraversò il bar fumoso. Tutto sembrò muoversi al rallentatore mentre si avvicinava, un piede dopo l’altro, pesantemente. Il pavimento rimbombava a ogni passo, con un’eco di no… no… no… O forse lo stavo dicendo io a voce alta. Non ne ero sicura, ma non faceva alcuna differenza.

    Ehi, Tim, che bello averti qui. Prendi una birra, giochiamo a biliardo.

    Oh, per favore, non ditemi che Nick ha appena invitato Tim a stare qui con noi. Avrebbe potuto rifilargli un ‘ehi come stai buona serata io stavo andando via’, o qualsiasi altra cosa di quel tipo, e invece no, chiese a Tim di unirsi a noi.

    Tim e Nick mi guardarono, aspettando una mia conferma.

    Mi rifugiai in una breve fantasia, dove eseguivo un impeccabile calcio laterale, colpendo Tim nella pancia e facendolo cadere a terra, dove rimaneva con i conati di vomito. A cosa erano serviti i tredici anni di karate che mio padre mi aveva costretto a fare, se non potevo usarlo in momenti come questi? ‘Ogni donna dovrebbe sapersi difendere, Katie’, mi diceva mio padre, mentre mi accompagnava al dojo.

    Forse quella non sarebbe stata tecnicamente autodifesa, ma l’arrivo di Tim aveva infranto le mie speranze di saltare addosso a Nick, con tutto quello che ne sarebbe seguito. Non era forse un motivo valido?

    Scacciai quel pensiero. In realtà, Tim, perché non prendi il mio posto? Sono stata tutta la settimana in aula, sono sfinita. Iniziamo presto, domani. È l’ultimo giorno, il gran finale della squadra Hailey & Hart. E passai a Tim la mia stecca.

    Tim apprezzò l’idea. Chiaramente le donne lo spaventavano. Se mi fossi aspettata che Nick si opponesse mi sarei sbagliata, e infatti non lo fece. Riprese il teatrino ‘Katie chi?’ che faceva fuori dall’ufficio.

    Mi toccò un semplice ‘buonanotte’, senza nemmeno l’aggiunta del nome, né Katie né Elena.

    Presi un’altra Amstel Light al bar per il tragitto fino alla mia stanza.

    DUE

    Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana

    14 agosto 2012

    Quindici minuti dopo, avevo tirato fuori una bottiglia di vino dal minibar. Presi in mano il mio iPhone con l’intento di mandare un messaggio. Scrivere da ubriachi non era mai una buona idea. Se solo ci fosse stato un poliziotto lì ad arrestarmi… mi avrebbe salvato da quello che stava per succedere.

    Indirizzai il messaggio a Nick. ‘Mi hai scaricato per Tim. Mi sento sola’. A quel punto avrei anche potuto aggiungere ‘Con amore, la tua pazza stalker’.

    Nessuna risposta. Aspettai cinque minuti, mentre finivo un bicchiere di vino. Lo riempii di nuovo. Rilessi i trecento messaggi di Emily che chiedeva dove fossi, ai quali la mia risposta era stata sempre la stessa. ‘Nick!!! Scusami. Ci sentiamo dopo’.

    Gli mandai un altro messaggio. ‘Ci sei? Sei ancora con Tim?’

    ‘Ehi’, fu la sua risposta.

    Proseguì, pochi secondi dopo. ‘Dobbiamo parlare’.

    Mi chiesi se fosse un segno buono o cattivo. ‘Parlare’ era un modo poco impegnativo per dire ‘non parlare’?

    ‘Va bene. Dove, quando?’ digitai in risposta.

    ‘Lunedì, ufficio’.

    Un pugno allo stomaco. Forza, Katie, forza. Non farti sfuggire questa occasione. C’è ancora speranza. ‘Non è giusto. Adesso? Scegli un posto’.

    ‘Cattiva idea. Ho bevuto’.

    ‘Me la caverò. Camera 632’.

    Nessuna risposta. Pensa pensa pensa pensa pensa pensa pensa. Non ha detto di no. Non ha detto di sì. Potrei riscrivergli e chiedere una risposta chiara, ma potrebbe essere quella sbagliata. Supponi che sia un sì e ricomponiti, ragazza.

    Ispezionai l’austera camera d’hotel, con il piumone scadente, ingrigito dal lavaggio continuo in lavatrici industriali, il colore sbiadito delle tende risalente agli anni in cui la stanza era per fumatori, una stampa da catalogo raffigurante una barca, appesa sulla carta da parati metallizzata. Non era esattamente ciò che ci si aspettava per un interludio romantico. Sistemai ciò che potevo, tra me e la stanza, e cercai di prepararmi ad assumere un comportamento sobrio.

    Niente Nick. Camminavo avanti e indietro. Mi lamentavo. Controllavo i messaggi. E poi, improvvisamente, seppi che era lì, l’avevo sentito con il mio Nick-radar extrasensoriale.

    Sbirciai dallo spioncino. Sì, era lì, e faceva ciò che facevo io, ma dall’altro lato di quel pezzo di legno massiccio. Però non potevo aprire la porta, o avrebbe scoperto che stavo lì in piedi a guardarlo.

    Alzò la mano per bussare. La abbassò. Si girò per andarsene. Tornò. Come fosse un artiglio, si passò la mano tra i capelli e chiuse gli occhi.

    Bussò alla porta. Trattenni il respiro mentre dicevo una breve preghiera. Ti prego, Signore, aiutami a non mandare tutto all’aria. Probabilmente non la preghiera meglio concepita o espressa della storia. Aprii la porta.

    Nessuno dei due disse nulla. Feci un passo indietro e lui entrò, stringendo un tovagliolo del bar nella mano sinistra. Passò invece di nuovo la mano destra tra i capelli, con un tic nervoso che non avevo mai notato prima di quella sera.

    Mi sedetti sul letto. Lui si sedette su una sedia sotto la finestra.

    Hai detto che dobbiamo parlare, lo spronai.

    Si concentrò sul suo tovagliolo stropicciato per un bel po’. Quando alzò lo sguardo, indicò prima se stesso e poi me. La mia vita è troppo complicata, adesso. Mi dispiace, ma questa cosa non può succedere.

    Quelle non erano le parole che avevo sperato di sentire. Forse erano più o meno quelle che mi aspettavo, ma fino a quel momento non avevo perso la speranza. La mia faccia andava a fuoco. Conto alla rovescia alla fusione.

    Con ‘questa cosa’ suppongo tu ti riferisca a una qualche ‘cosa’ tra noi due, giusto? È ovvio che non può succedere. Sono una socia dello studio. Ascoltavo la mia voce come se venisse da lontano. Altezzosa. Distante. So che a volte sembra che stia flirtando, ma faccio così con tutti, Nick. Non preoccuparti. Non ci sto provando con te.

    Potevo quasi intravedere sul suo volto il segno dello schiaffo che le mie parole gli avevano dato.

    Ti ho sentito parlare al telefono con Emily quando sei arrivata, oggi pomeriggio.

    La cosa era inquietante. Di cosa stai parlando?

    Sono passato davanti alla tua camera. La porta era socchiusa. Ti ho visto. Ti ho sentito.

    Protestai. Come sapevi che ero io?

    Riconosco la tua voce. Stavi parlando di me. Ho sentito il mio nome. Mi dispiace di aver origliato, ma non sono riuscito a trattenermi. Mi sono fermato e ho ascoltato.

    Provai ad interromperlo, ma proseguì.

    Hai detto… e oh, quanto non avrei voluto sentire ciò che stava per dire, … che non riuscivi a credere a quanto fossi attratta da me. Che ti sentivi in colpa perché pensavi più a me che al lavoro o a ciò che è accaduto ai tuoi genitori… Nick si mangiava le parole, faticava a parlare. Hai detto a Emily che non riesci a fare a meno di essere innamorata di me.

    Oddio. Mamma mia. Il sangue non mi arrivava più al viso. Avevo detto davvero quelle cose a Emily per telefono. Mi aveva chiamato per raccomandarsi che andassi alla conferenza e io avevo portato la conversazione su Nick. Era una cosa così normale che l’avevo dimenticata. Diavolo, così normale che probabilmente lei neanche mi stava ascoltando. Improvvisamente, mi resi conto di quanto fossi ubriaca e la stanza iniziò a girare.

    Mi uscì una risata acuta e forzata. Sì, ho menzionato il tuo nome, ma questo non è ciò che ho detto.

    Invece sì, mi interruppe. Non sono un idiota. So quello che ho sentito.

    Beh, lo stai interpretando male, insistei. Non ti sto addosso, Nick. Per quello che ne so, sei ancora sposato. E lavoriamo insieme. Mi dispiace se ti ho messo a disagio. Proverò a non farlo più.

    Non mi hai messo a disagio. Si interruppe e passò una terza volta la mano tra i capelli, fissando di nuovo il tovagliolo. C’era scritto qualcosa su quel maledetto pezzo di carta. È solo che… Sospirò, e si fermò.

    Solo che cosa?

    Nessuna risposta. Avrei voluto poter dire che fu solo per colpa dell’alcol che proseguii con sarcasmo, ma non era la verità.

    Perché non interpelli il tuo tovagliolo magico per sapere cosa dovresti dire?

    Si incupì. Sei scortese.

    Iniziavo a scaldarmi. "Beh, sembra che tu sia venuto qui con un bel discorso pronto. ‘Rimetti la povera Katie malata d’amore al suo posto’. Inspirai profondamente e buttai fuori tutta la mia rabbia. Non riesco a credere che tu abbia dovuto annotare cosa dire su un tovagliolo da bar."

    Non sono bravo quanto te con le parole, signora Avvocatessa. Volevo fare le cose per bene. Non prendermi in giro perché ho affrontato la cosa seriamente.

    Mi dispiace di averti sottoposto a tanto stress. In realtà non mi dispiaceva affatto, e sospettavo che il mio tono l’avesse fatto capire. Per carità, finisci di leggere il tuo tovagliolo.

    Si alzò in piedi. Non c’è altro sul mio tovagliolo di cui dobbiamo parlare.

    Mi accorsi troppo tardi di quanto mi stessi comportando male. Nick, mi dispiace. Dimentica ciò che ho detto. Ho bevuto troppo. Merda, bevo sempre troppo ultimamente, e di sicuro ci darò un taglio. Spero che questo non comprometta la nostra amicizia e che possiamo continuare a lavorare normalmente. Sai come sono fatta. Sono troppo diretta e ho la lingua lunga. Smisi di blaterare inutilmente e lottai per mantenere il contatto visivo con lui.

    I miei pensieri si confondevano. Come avevo fatto a fraintenderlo a tal punto? Avevo sempre creduto che, in fondo, provasse un’attrazione per me, e non solo a livello fisico, come io la provavo per lui. Che se gli avessi dato la giusta opportunità e spinta, mi avrebbe fatto mancare la terra sotto i piedi e portato nella sua carrozza magica, per vivere felici e contenti.

    Che pensiero ridicolo. Non ero Cenerentola. Ero Glenn Close con il coniglio bollito. E lui Michael Douglas che cercava di scappare.

    Non sapevo come rimediare. Ogni secondo che passava, il suo sguardo era sempre più ostile. Senza rivolgermi un’altra parola, se ne andò furioso, con quel maledetto tovagliolo stropicciato.

    TRE

    Hotel Eldorado, Shreveport, Louisiana

    15 agosto 2012

    Mi svegliai con violenti postumi da sbornia, da imputare tanto all’umiliazione quanto alla Amstel Light e al vino del minibar, e mi ricordai di Nick nella mia camera, e di come mi ero comportata. Era difficile immaginare uno scenario peggiore di quello, ma almeno non l’avevo trovato nudo alla mia porta con una rosa tra i denti. Mi sarei alzata e mi sarei rimessa in sesto. Avrei sfoggiato il mio maglioncino verde muschio di Ellen Tracy. Avrei sistemato le cose.

    Ma prima avrei controllato i messaggi, perché il mio telefono stava esplodendo. A quell’ora del mattino?

    ‘Dove CAVOLO sei?’ Era Emily.

    ‘Mi sto preparando’.

    Una verità un po’ distorta, ma la regola fondamentale dei messaggi di testo era la concisione, per questo omisi qualche dettaglio.

    ‘Abbiamo iniziato. Muovi il sedere!’

    Forse non era presto come pensavo. ‘Sto arrivando’.

    Beh, farmi bella e riprendermi allo stesso tempo era ormai fuori questione, anche se non pensavo ci sarei riuscita comunque, date le circostanze, indipendentemente dalla fretta. Mi rimisi in sesto in conformità con le norme igieniche ed estetiche di base e mi unii alla conferenza di team building, giorno due. Speravo di riuscire a fingere abbastanza bene da ingannare i colleghi.

    Mi fermai davanti alla porta aperta della sala riunioni e mi misi ad ascoltare il moderatore. Lo studio aveva assunto uno sdolcinato consulente per aiutarci a risolvere gli attriti fra di noi in modo positivo e costruttivo.

    Buona fortuna, pensai. Mi chiesi se potesse aiutarmi a risolvere il mio ‘voglio andare a letto con il mio forse ancora sposato collega che, oh sì giusto, tra l’altro mi odia’.

    Quella non era però una conferenza stile new age: il consulente era in realtà molto bravo. Quel giorno avremmo imparato come richiedere uno sforzo maggiore o minore a un collega. Ci chiese di fare coppia con il collega con cui avevamo più bisogno di costruire una relazione di lavoro efficace.

    Feci la mia entrata nella sala riunioni a tema floreale. Nel giro di pochi secondi, le coppie erano formate. Analizzai la stanza per individuare i pomposi capelli biondi alla texana di Emily, sperando che mi avesse aspettato, ma era già accoppiata con il capo dei consulenti legali, prendendo l’attività troppo sul serio. Le lanciai un’occhiataccia e lei scrollò le spalle, alzando le sopracciglia, come per dire ‘non è colpa mia se mi dai buca e poi non riesci ad alzarti dal letto prima di mezzogiorno’. Sbuffai e mi misi a cercare un partner.

    Mentre scrutavo la stanza, lo sguardo imperturbabile di Nick incontrò lentamente il mio. Non era una cosa positiva. Anch’io non lasciavo trasparire alcuna emozione, uno sforzo considerevole dal momento che gli snack del minibar della notte scorsa cercavano di tornare fuori. Iniziai a rivolgermi altrove, poi mi resi conto che stava venendo verso di me. Mi aspettavo che mi oltrepassasse, ma non lo fece.

    Non disse nulla, così fui io a

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