Tutto il cinema è Addio
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Nel mezzo e sul confine nasce questo libro, che si incammina sulla strada dell’estetica e della fenomenologia del cinema scandagliandone il legame con il tema dell’Addio, “luogo in cui l’immagine si deposita nella sua contemporaneità assoluta”.
Da Drive a 8 ½ l’autore percorre le pieghe della settima arte attraversando le sue fughe, le sue angosce, le sue ambiguità. Perché il cinema è qualcosa che “non finisce mai continuando a finire” e dal cuore della propria solitudine “getta la maschera del tempo per indossare quella del destino”.
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Anteprima del libro
Tutto il cinema è Addio - Michele Montorfano
DENTRO DI ME
«Siete sempre più sprovvisti di difesa davanti al terrore della storia».
Così, guardandoci, direbbe l’uomo della società arcaica, fiero del suo modo di esistere che gli permetteva, a ogni fine del mondo naturale, di annullare la propria storia, di abolire i propri peccati e ritornare a essere libero e creatore¹.
Probabilmente noi, in questo colloquio impossibile, gli risponderemmo con un gesto. Risponderemmo indicando l’estremità di un qualcosa che ci viene incontro e che si apre solo nella misura in cui avanza. Qualcosa che consegna un immaginario di desideri, di suggerimenti, di allusioni e di ambiguità posandoli su un orizzonte inaspettato e attraversato dai confini della mondanità. Qualcosa che passa nella nostra quotidianità con i suoi frammenti d’intellegibile lasciando dietro di sé la forza d’irruzione di un sentimento e la distanza di una possibilità. Ciò che si avvicina è un corpo senza unità che ci sfida in una semplice pluralità d’incanti, di luce e di dettagli, un canto discontinuo di amabilità. E questo, è già l’indizio di una salvezza che coincide con il piacere. L’incontro che diventa l’attimo del tempo, «l’attimo nel giardino delle rose, l’attimo sotto la pergola dove batte la pioggia»², l’attimo dell’incontro dove accade l’inaudito.
Ci sono dunque due luoghi, due pianeti, due città, due continenti nati nella testa degli uomini: il muro della natura con il suo corpo ciclico nel tempo e il cinema: questa cosa radicale che ci sorpassa, ci attende, che offre e scambia con noi tutte le pieghe della sua carne fino a farsi deridere, insultare, riempire gli occhi di lacrime mentre lo guardiamo e lo apriamo con forza ritrovando brani del nostro passato, fili sottili e tenui di storie che il tempo rischiava di cancellare.
Il cinema è questo vaso di Pandora, questa piccola scatola inapribile che abita in noi prima di essere vista; è ciò che chiede di essere posseduto per poter svelare il proprio bisogno di perdersi.
Non mi riferisco alla sua superficie, a quello che possiamo vedere stando fermi sulla costa, ma a ciò che succede in noi a trenta piedi di profondità dove una vita, ancora senza nome, scorre e ci affascina incarnando il terrore delle cose che ancora non sono. È l’orifiamma di un regno da creare e da edificare. È il fascino di ciò che, non essendo ancora, può essere e che a un angolo della strada o sdraiati nel letto ci fa immaginare rotte segrete da percorrere in piena notte per arrivare a qualche isola favolosa, un posto che abita nella profondità del nostro cuore e che nessuno ha mai visto, ha mai navigato e non ha mai avuto.
Il primo cinema che incontriamo è quindi una fessura aperta su una strana verità: una felicità che ci attraversa ancora prima di parlare, di guardare; la felicità di colui che nasce o addirittura di colui che deve nascere. È una felicità simile a quella che sperimentiamo nel sogno, quel «ritornare a non essere visti, cadere nel grembo della vita madre che tutto concede; cessare di prestare attenzione al gioco imposto dalla realtà, quello in cui si paga pegno, per giocare a un gioco proprio, gratuito, dove non esiste legge né frontiera, dove, come diceva Eraclito, si è in un mondo privato, dove non è necessario rispondere perché non è necessario domandare»³.
Il cinema prima del cinema, quindi.
Il cinema che è il nostro vivere, rivivere, «sprofondare nel passato della nostra anima che è un’acqua profonda»⁴.
Un’acqua che corre tra due fiumi, tra due oceani. Tra l’acqua che placa la sete e quella che non la estingue.
L’acqua che «con i suoi riflessi duplica il mondo, raddoppia le cose» sdoppiando anche «il sognatore, non solo come una vana immagine, ma impegnandolo in una nuova esperienza onirica»⁵ in quell’immagine che si affretta e lascia dietro di sé una fenditura dalla quale poter guardare, un’ombra alla quale poterci stringere tra le braccia così profondamente da non avere più imbarazzo nello scostare l’angolo del vestito e penetrare con lo sguardo nelle nostre zone più intime. Firma incontestabile dell’essere nella propria agonia; in ciò che costruisce, che posiziona una fine.
Questo cinema è il nostro corpo estremo sul quale tacciamo perché non abbiamo più bisogno di domandare e «domandare di qualcosa, una cosa qualsiasi, è domandare della verità»⁶. Si tace perché si sta sotto questa verità, immersi nella «tendenza a creare ostacoli e a rafforzarsi contro di essi»⁷ (è il desiderio) e in quel cercarsi nella partita ingaggiata con l’altro senza concedersi mai, arrivando alla propria liquidazione (è la seduzione).
Farsi trapassare, farsi ferire, darsi al ferire. Ricucire. Lenire. Questo rito del chiudere e dell’aprire abita in noi come «un luogo in cui abbiamo necessità di avvolgerci, così come si avvolgono le creature appena nate»⁸.
Questa la strana verità del nostro cinema. Questo il continuo ritardo che corre nella nostra felicità. Perché è tutto ciò che abbiamo patito e che siamo costretti a lasciare alla soglia delle frasi.
È tutto ciò che continuamente inizia a finire, senza finire mai.
Eppure con la parola cinema non identifichiamo solo questa efflorescenza di noi ma anche un luogo fisico,