Donbass, la guerra fantasma nel cuore d'Europa
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Sara Reginella nasce ad Ancona nel 1980. Lavora come psicologa a indirizzo clinico e giuridico e come psicoterapeuta. È regista e autrice di reportage di guerra. I suoi lavori integrano l’interesse per le dinamiche psicologiche con l’attenzione per l’attualità e uno sguardo che mai dimentica le frange socialmente più vulnerabili.
Nel 2015 avvia la sua carriera di documentarista in territori di guerra e nel 2016 si diploma in Regia e sceneggiatura presso l’Accademia nazionale del cinema di Bologna. Tra i suoi lavori: "Le stagioni del Donbass" con lo scrittore Nicolai Lilin, il reporter Eliseo Bertolasi e il vignettista Vauro. Il suo ultimo documentario, "Start Up a War. Psicologia di un conflitto", ha conquistato selezioni ufficiali e premi nei festival internazionali.
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Anteprima del libro
Donbass, la guerra fantasma nel cuore d'Europa - Sara Reginella
1
LA GUERRA FANTASMA
– Nu deržis’ devočka! – m’incoraggia Mark nella sua ultima email. Dal russo, le sue parole suonano come un Tieni duro, ragazza!
– Certo che deržisco
– gli scrivo in risposta.
L’unico scatto che ho di lui è di qualche anno fa. Gambe sulla scrivania, stuzzica con un cacciavite il carapace della scheda madre di un computer, accerchiato da cavi tentacolari. Ha lo sguardo concentrato sull’esoscheletro elettronico e la calma cetacea di chi è abituato ai fondali.
Questa immagine è la business card con cui si presenta sul mercato del lavoro di uno dei social network professionali più smart del web. Non che a lui, sulla soglia dei sessant’anni, interessasse granché trovare lavoro via web, ma è su quella piattaforma virtuale che ci siamo conosciuti anni fa, nel 2014. L’anno in cui è scoppiato il conflitto nel Donbass.
Non ci siamo mai incontrati di persona, ma ci scriviamo da anni. A volte trascorrono lunghi periodi di silenzio tra noi, poi di colpo: Jack in the box! Quando uno dei due gira la manovella, quello nascosto nella scatola ode il suono del carillon e sbuca all’improvviso. È allora che balza fuori una sua email da Belgorod, la città bianca al confine con l’Ucraina, o una mia da Ancona, la città che sgomita sul mare.
Sto chiusa nel mio appartamento da settimane e vivo sotto il coprifuoco. Come in guerra. L’emergenza coronavirus ci tiene in casa.
– Devočka, l’ultravioletto uccide virus e batteri, lo sapevi? – mi domanda Mark. Intuisco dove vuole andare a parare, sta per tirare fuori uno dei suoi marchingegni.
– L’ho sperimentato una quindicina di anni fa nel villaggio dove vivevo. Con una lampada UV da 400 watt ho bonificato tutta casa. T’insegno a costruirne una.
Leggo, e realizzo che Mark è realmente convinto che costruirò da me uno scettro ultravioletto contro il coronavirus, e che lo installerò da qualche parte.
– A ogni modo, ti servono: una lampada DRL250, uno starter e due metri di cavo a due nuclei, ce li hai?
No. Ma possiedo una maschera antigas sovietica che ho comprato in un mercatino dell’usato tempo fa, e che mi fissa impettita dalla libreria ogni volta che indosso la mascherina chirurgica per fugaci uscite da casa, e mi sfotte: Dov’è che vai te, con quel foglietto di carta sulla bocca?
Quella protegge sul serio da ricadute radioattive, armi chimiche e batteriologiche. Non è poi così diversa dalle GP-5 gas mask in cui mi sono imbattuta al fronte, in Donbass: scheletriche e funerarie, abbandonate sul terriccio come pelli di serpente.
All’epoca in cui io e Mark c’eravamo conosciuti, in Italia e nel resto del mondo occidentale la guerra nel Donbass conduceva un’esistenza spettrale, nessuno ne parlava.
Io l’avevo vista per la prima volta con gli occhi di Mark. Dalla sua città russa al confine con l’Ucraina, si era impegnato, dallo scoppio del conflitto, a disseminare come mine, nei salotti occidentali del social web, i video dei bombardamenti in corso, che nella metà del mondo in cui viveva lui venivano mostrati, ma non nella metà in cui vivevo io.
In quei saloon virtuali, Mark affiorava all’improvviso a creare scompiglio con l’energia di uno Stromboli impazzito e si reimmergeva subito dopo.
– Voi non sapete niente di quello che succede! – E aveva ragione.
Nel 2014 all’anziana Europa, assopita dietro la faccia decrepita da vecchia snob, sembrava non interessasse granché della guerra nel Donbass.
– E di base te ne freghi anche te – mi aveva scritto un giorno, colpendomi forte per farmi male.
All’inizio della guerra era stato quasi impossibile reperire informazioni da fonti occidentali, l’unica occasione per me erano gli aggiornamenti quotidiani di quello sconosciuto.
Avevo iniziato a mostrare i video che mi segnalava Mark a colleghi, amici e conoscenti e, nella maggior parte dei casi, venivo liquidata così: – Se in Ucraina fosse in corso un conflitto, che non lo sapremmo?
– E allora questi? Guardate! – insistevo, mostrando dallo smartphone immagini di edifici semidistrutti.
– Saranno immagini della Siria – mi rispondevano.
– Ma che Siria, non è lo stile di Damasco!
– Allora ci sta veramente la guerra in Ucraina? – mi domandarono quelli che avevano scambiato Donetsk per Damasco.– Allora ci sta veramente la guerra in Ucraina? – mi domandarono quelli che avevano scambiato Donetsk per Damasco.
– E che stile è se è tutto distrutto?
– Guardate meglio!
Allora scrutavano le macerie come quei devoti che, in attesa dell’apparizione celeste, cercano conferme ovunque nel firmamento. E alla fine le trovano: – È Damasco.
Vabbè.
Per me invece, che da anni viaggio in quelle aree geografiche, erano indiscutibilmente case made in Cccp: distinguevo chiaramente i chruščëvki sventrati, edifici di cinque piani costruiti nell’era Chruščëv, dai brežnevki, ben più alti e risalenti all’era Brežnev.
La prima volta che avevo dormito in un palazzo sovietico, molti anni prima, mi trovavo in Siberia, in una città sulle rive del lago Bajkal. Avevo prenotato un bed and breakfast e mi ero ritrovata davanti a un vecchio edificio di cemento immerso nel verde, sulla cui parete esterna erano rimasti appesi, retaggi dell’era sovietica, una falce e un martello in ferro battuto.
Entrai, lasciandomi alle spalle un pony che brucava erba zuppa di pioggia davanti al portone d’ingresso. Una giovane coppia con tre figli, dopo avermi accolto, si rintanò nella camera matrimoniale, lasciando a me per la notte la cameretta dei bambini. Era quella la stanza che d’estate ospitava i viaggiatori diretti all’isola di Olkhon.
La mattina dopo pagai con una manciata di rubli. Poggiai le banconote sul tavolino della cucina, tra le molliche della colazione, e vidi la coppia irrigidirsi: erano troppe. Non ero stata in grado di leggere correttamente la cifra scarabocchiata su un foglietto di carta ma loro pensarono che avessi voluto fare intenzionalmente una sorta di elemosina.
Sorrisi candidamente e a disagio: – It’s for you.
Il marito separò le banconote in due mucchi, me ne restituì una parte e scambiò un’occhiata con sua moglie. Lo avevo fatto forse perché ero stata ospitata nella cameretta dei figli mentre loro dormivano in cinque in una matrimoniale? O forse perché gli infissi in bagno erano malamente coibentati in poliuretano espanso, il piatto della colazione mezzo sbeccato e le scarpe all’ingresso malconce e fangose? Avrei voluto dirgli che non me ne importava niente delle scarpe, del poliuretano e del piatto. Loro non parlavano inglese e io non capivo una parola di russo. Era chiaro però che il mio gesto, frainteso, li aveva feriti umiliandoli. Uscii da quell’edificio con la falce e il martello, lasciandoli nella convinzione errata che un’occidentale presuntuosa aveva provato a fare la carità.
Anche il pony m’ignorò. Dietro il vetro di una di quelle finestre coibentate, i tre figli mi stavano guardando come se fossi il nemico.
Non riuscivo a farmi capire neanche quando nel 2014 mostravo i chruščëvki bombardati ai miei amici italiani. Però poi accadde qualcosa: a seguito dell’abbattimento del Boeing 777 della Malaysia Airlines, che il 17 luglio 2014 viaggiava nei cieli del Donbass, un’area di guerra interdetta al volo, l’allora presidente americano Barack Obama intervenne in conferenza stampa, collegando l’abbattimento del volo MH17 alla presenza di separatisti filorussi nei territori del Donbass.
A quel drammatico incidente seguirono sia un rimpallo di responsabilità tra le parti in guerra sia una serie di telefonate e messaggi che ricevetti quella sera stessa.
– Allora c’è veramente la guerra in Ucraina? – mi domandarono quelli che avevano scambiato Donetsk per Damasco. La guerra c’era, ma era stato possibile farla scomparire.
– Molodec – brava
, commentò Mark accorgendosi di quanto fossi determinata nel voler continuare a parlare della guerra fantasma.
Non ho mai chiesto a Mark che lavoro facesse davvero. All’epoca, viveva con sua madre.
– Qui da noi le persone non sono ricche – mi scrisse un giorno.
– Figurati, neanche qui – replicai.
– Ma qui è peggio. Ieri, ad esempio, ho riparato il televisore a una babuška. Non aveva di che pagarmi, così per ringraziarmi mi ha regalato un casino di aglio. Un po’ l’ho messo nelle tasche del vatnik, il resto me lo sono legato al collo, mia madre sarà contenta.
Il vatnik è una giacca imbottita usata in passato come divisa invernale anche dall’esercito dell’Armata Rossa, durante la Seconda guerra mondiale. Lo indossano in una famosa fotografia in bianco e nero due partigiane della divisione Sydir Kovpak: in testa un’ušanka, il colbacco russo, e il fucile in pugno.
Le unità partigiane di Sydir Kovpak, celebri all’interno dell’Armata per la tattica della guerriglia, combatterono in Ucraina durante l’invasione tedesca.
In quella stessa terra, dopo oltre settant’anni, si diceva che l’epidemia nazista fosse tornata e che fosse responsabile dello scoppio della guerra in Donbass. Ma ricordo che di quell’epidemia qui nessuno parlava.
Nell’estate del 2014, infatti, la televisione italiana informava sull’importanza di bere molta acqua, evitare il sole nelle ore più calde, mangiare frutta e verdura, e disquisiva su quale fosse il tormentone musicale del momento.
Non si faceva cenno al conflitto ucraino e gran parte della popolazione italiana ignorava quanto accaduto a partire dal fatidico novembre 2013, quando si erano conclusi senza risultato i negoziati tra l’allora presidente ucraino Viktor Yanukovyč e gli incaricati dell’Unione Europea, cui spettava il compito di far sottoscrivere accordi che avrebbero rappresentato un ulteriore passo dell’Ucraina in direzione dell’integrazione europea.
Nei tanti servizi televisivi di quella estate, continuavo a vedere gente spiaggiata oppure ombrelli sotto la pioggia: giugno caldo record, luglio piovoso, agosto perturbazione atlantica.
Nessuno accennava al fatto che la mancata firma dell’accordo europeo aveva portato alle mobilitazioni di Maidan, la piazza centrale di Kiev.
Il movimento filoeuropeista, già protagonista della Rivoluzione Arancione, si era inserito a fianco del movimento di protesta in atto contro la crisi economica e la corruzione. Poi si erano aggiunti partiti e gruppi della destra ultranazionalista, come Svoboda e Pravy Sektor, il cosiddetto Settore Destro
. All’interno di questo movimento di protesta, che fu chiamato Euromaidan
, iniziarono così a sventolare, accanto a quelle europee, bandiere rosso-nere del settore destro e drappi giallo-blu del partito Svoboda. Quest’ultimo, inizialmente denominato Partito nazional sociale ucraino, dal nome del Partito nazionalsocialista di Hitler, fu fondato nel 1991 da Andrij Parubiy, l’attuale presidente della Rada, il parlamento ucraino. Il wolfsangel, simbolo usato dalla divisione tedesca SS Das Reich, era anche il simbolo ufficiale del partito, poi sostituito nel 2014 da una surreale mano gialla.
L’Ucraina si spaccò ed ebbe inizio un conflitto che vide le milizie separatiste delle Repubbliche popolari del Donbass scontrarsi contro l’esercito ucraino del nuovo governo di Kiev.
Le proteste connesse al movimento Euromaidan portarono a febbraio 2014 a un violento colpo di stato, perlopiù descritto dai media occidentali come una rivoluzione democratica contro il presunto dittatore ucraino (democraticamente eletto) Viktor Yanukovyč.
In risposta a ciò, ad aprile dello stesso anno, nelle regioni di Donetsk e Lugansk, in Donbass, territorio del sud-est ucraino al confine con la Russia, dove le posizioni del movimento Euromaidan non erano condivise e il nuovo governo era considerato illegittimo, avvenne qualcosa di inaspettato. Furono occupati gli istituti pubblici e la popolazione fece un salto indietro nel tempo. Esplosero gli orologi e bruciarono i calendari: l’autoproclamazione delle Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk sancì, in quelle aree, il tentativo di ritornare a un’essenza passata, quella del mondo precedente alla dissoluzione dell’Unione Sovietica.
L’Ucraina si spaccò ed ebbe inizio un conflitto che vide le milizie separatiste delle Repubbliche popolari del Donbass scontrarsi contro l’esercito ucraino del nuovo governo di Kiev.
Si era tornati ai tempi della guerra fredda, una nuova
guerra fredda in cui il ruolo dei cattivi
veniva assegnato agli abitanti del Donbass, accusati di terrorismo e colpevoli di essersi opposti a quei movimenti filoeuropeisti e filoamericani che, a loro avviso, avrebbero contribuito alla svendita delle proprie terre.
So che in questi luoghi di confine è molto forte e radicato il sentimento di appartenenza all’universo russo, quel mondo che avevo iniziato a esplorare negli anni precedenti lo scoppio del conflitto.
Ripenso ai miei viaggi e al fatto che ho sempre amato spostarmi in treno; ho attraversato parte dell’est, privilegiando la magia della terza classe. Ricordo le donne con le ciabatte ai piedi che srotolavano i piumoni forniti dal servizio ferroviario. I bambini vi s’infilavano risucchiati in una nuvola: nei vagoni di terza classe non ci sono cuccette e si dorme tutti insieme. Alle fermate in stazione, le babuške e le loro nipoti venivano a darci ristoro vendendo dolci fritti e pesce essiccato, che acquistavo sporgendomi dal finestrino. Poi, per sentirmi una vera russa, sgranocchiavo semi di girasole o bevevo caffè solubile nell’acqua dei bollitori presenti in ogni vagone. Di notte, ricavata la mia nicchia, sdraiata in un piccolo spazio, osservavo i boschi dal finestrino e dondolata dal treno mi addormentavo tra le betulle, condividendo con degli estranei l’esperienza più intima, quella del riposo. Forse è così che ho iniziato a comprendere qualcosa di più della gente dell’est, a stabilire un legame interiore: durante il sonno, quando per capirsi e sentirsi vicini non serve parlare la stessa lingua.
A quei popoli ho continuato a sentirmi legata nel tempo, così che anni dopo, durante i primi tempi dello scoppio del conflitto, il giorno in cui mi è capitato sottomano un video intitolato I am a Ukrainian, girato durante gli scontri di Maidan, a Kiev, sono rimasta parecchio amareggiata.
Nel filmato, una ragazza, Yulia Maruševka, che di lì a poco sarebbe stata nominata capo dell’amministrazione statale regionale di Odessa, descriveva gli scontri di Euromaidan come una rivolta per la democrazia. Mi colpì quanto fosse semplicistico il suo messaggio: non conteneva riferimenti all’attuale scenario geopolitico né alla complessa partita che si stava giocando in Ucraina tra Europa e Stati Uniti da una parte e Russia dall’altra. Vi era solo una divisione del mondo in buoni e cattivi, ma l’impatto che ne derivava in termini emotivi era potente. L’opera, come specificato sul canale in cui era pubblicata, era collegata al team di A whisper to a roar, un documentario made in Usa ispirato al lavoro di Larry Diamond sulle cosiddette rivoluzioni democratiche, avvenute in paesi i cui governi non erano politicamente allineati agli Stati Uniti.
So che in questi luoghi di confine è molto forte e radicato il sentimento di appartenenza all’universo russo.So che in questi luoghi di confine è molto forte e radicato il sentimento di appartenenza all’universo russo.
Nel tempo, furono confezionati video analoghi, tutti con lo stesso copione: da Help Hong Kong a S.O.S. Venezuela, delle ragazze, durante una protesta di piazza, sensibilizzavano il pubblico denunciando il cattivo di turno.
Ritenendo parziali e semplicistiche quelle posizioni, sull’onda dello sgomento che provavo in quei mesi, ebbi l’idea di realizzare I’m Italian, un video in risposta a I am a Ukrainian che, anziché rappresentare una sola posizione, ne avrebbe presentate due, l’una in opposizione all’altra.
Una parte del mondo, infatti, vedeva la rivolta di Maidan come una rivoluzione democratica e la reazione separatista del Donbass come una svolta terroristica, veicolata dall’occupazione militare russa. L’altra parte del mondo vedeva, invece, gli eventi di Maidan come connessi a un colpo di stato e la risposta separatista del Donbass come una forma legittima di resistenza antifascista.
– Per rappresentare visivamente questa doppia visione –, dissi a una mia collega, – potrei creare una specie di doppelgänger: sdoppiare un’attrice in due diversi personaggi, divisi, come lo siamo noi per la mancanza d’informazioni, e in conflitto come sono loro, per via della guerra.
– Ma tu mica lo sai come si gira un video – sentenziò la collega, senza guardarmi negli occhi. Lavoravo da anni come psicoterapeuta e non avevo competenze in campo cinematografico.
– Ma dai, devo solo trovare la protagonista – la rassicurai, mossa da un vertiginoso ottimismo.
Via web diffusi la chiamata al casting supportata da una pagina di controinformazione sul conflitto nel Donbass. Alcune ragazze russe e ucraine risposero e feci un provino online. Iniziò così la selezione della nuova Yulia Maruševka.
Scelsi Margot, un’esile siberiana proveniente da una delle regioni più fredde del mondo, la Yakuzia.
Grazie a lei, la risposta a I am a Ukrainian decollò da piazza del Plebiscito e dalla piazza delle Erbe, due location anconetane anonime rispetto alla grande Maidan.
Durante le riprese nella prima location, sebbene fosse abituata alla Yakuzia, Margot si congelò.
– Per favore, siediti a terra sugli scalini, alla destra del Papa.
– Alla destra della statua? – mi chiese, sgranando gli occhi asiatici.
– Sì, tanto il Papa non lo inquadriamo.
– Stai tranquilla, ce la caviamo in fretta con le riprese.
Avevo sottostimato i tempi e Clemente XII, in abito bianco, non mi tolse di dosso il suo sguardo severo per tutta la durata delle riprese. Margot rimase accovacciata per ore alla sua destra, su uno scalino cucito con lo stesso tessuto della fredda veste pontificia.
Nel tardo pomeriggio, insieme al team con cui giravo, l’accompagnai al riparo nel ventre di ferro e ghisa del Mercato delle erbe.
– Ti rovinerai la carriera da psicologa pubblicando questa roba – mi sussurrava una vocina tentando di spaventarmi.
– Questo non è il tuo campo, che penserà la gente? Chi ti darà credito?
Il video era già stato montato, pronto a farsi vedere.
– Fermati, non pubblicarlo, sei ancora in tempo! – si raccomandava inutilmente.
A febbraio 2015 buttavo il mio nome e il mio primo video in pasto alla rete, restando in attesa.
Rispose l’Università di Psicologia di Rostov sul Don. L’avevo coinvolta durante la prima del video, all’interno di un evento di sensibilizzazione sul conflitto.
Fui invitata a Rostov e portai con me due colleghe italiane, Daniela e Nicoletta; mi ritrovai a relazionare in un’aula di future psicologhe russe sull’approccio psicologico che regge dall’interno la struttura di I’m Italian. Mostrai alcune immagini: una signora sorridente che distribuiva del cibo a persone imbacuccate e un anziano canuto che stringeva la mano a gente infreddolita.
– Lei è Victoria Nuland, assistente del segretario di Stato statunitense per gli Affari europei ed eurasiatici, offre cibo ai manifestanti durante la rivolta di Euromaidan. Il signore coi capelli bianchi, invece, è l’ex senatore repubblicano John McCain che dal palco della piazza incita il popolo ucraino contro il proprio governo – commentai.
Poi mostrai dei genogrammi di sistemi familiari.
– Quando un individuo o un gruppo istiga una parte contro un’altra, si osservano meccanismi il cui esito è sempre la distruzione. Il sistema, il gruppo, il paese, la famiglia sono spaccati dall’interno – spiegai. – Dietro un’apparenza salvifica, può dunque celarsi un meccanismo occulto d’istigazione, spesso riscontrabile anche in sistemi familiari disfunzionali. Possiamo osservare una situazione tipica quando un genitore fomenta un figlio contro un altro membro del sistema. Una madre, ad esempio, può presentarsi amorevole e comprensiva, l’unica in grado di capire e sostenere, una sorta di salvatrice capace di presentare il padre come un antagonista. Ma coalizzandosi con un