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Il rimpianto perfetto
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E-book134 pagine2 ore

Il rimpianto perfetto

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Info su questo ebook

Medico anestesista, madre e moglie, Lavinia ripercorre tutta la sua vita, facendola ruotare attorno all’incontro casuale, nelle corsie dell’ospedale in cui lavora, con una ragazza bella e disperata, Marzia, che le chiede aiuto e la sconvolge.

Credeva di aver dimenticato, Lavinia, e invece tutto il suo passato l’aggredisce, all’improvviso, in una mattina qualunque di smonto notte, mentre si rifugia alle “sue” macchinette del caffè.

– Quando sei giovane sei audace, e osi pensare di poter dimenticare…–

I ricordi assalgono Lavinia, obbligata a tornare indietro da un passato inopportuno, e si rivede, spensierata liceale, alle prese con amori innocui, e poi universitaria ambiziosa e tenace. Sognava l’amore, Lavinia, ma neanche troppo, piccola donna ligia al dovere che voleva laurearsi presto, per rendere orgoglioso suo padre e non invecchiare tra i banchi polverosi della facoltà di medicina.

Il padre, il nonno, la madre e i suoi fratelli fanno da sfondo alla sua vita in bilico tra due mondi, quello di casa, da cui non riesce a staccarsi, e quello della nuova città, che ha sempre sentito estranea. Quando incontra l’amore lo crede “per sempre”, e va a vivere con Antonio, nonostante i rigidi principi con cui è stata educata. Crede di essere felice, ma quell’amore ingannevole inonderà di sgomento ogni sua giornata. Per sempre.
LinguaItaliano
Data di uscita11 dic 2020
ISBN9788868674298
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    Anteprima del libro

    Il rimpianto perfetto - Stefania Lamanna

    vite.

    ​1.

    È domenica mattina presto, a quell’ora trasparente in cui nulla è ancora cominciato e niente può essere davvero finito. Anche l’estate se la prende con calma e non vuole andarsene, ma il ricordo dei suoi giorni che stanno per finire non mette tristezza, a quest’ora. In questa quiete indisturbata c’è posto per tutto, i sentimenti si allargano, stiracchiandosi pigri come la signora che sta bevendo il caffè, affacciata alla finestra. Mi piace quest’ora, con le strade semideserte, le macchine placidamente in doppia fila, nessuno corre, nessuno è arrabbiato. Sembra che tutti aspettino che gli accada qualcosa di bello, che questo attimo di non tempo, in cui ancora non è veramente domenica, mantenga le sue promesse. Ho messo i tacchi, per la prima volta dopo tanto tempo, e un tubino color borgogna, comprato una vita fa. Ho chiuso la porta di casa alle mie spalle, provando un amore cocente per tutto ciò che le sue stanze contengono, di cose e di persone. In quest’ora sospesa anche le incomprensioni giungono ovattate alla memoria, e soltanto la tenerezza riesce a brillare nitida, come il sole nel cielo azzurro, senza neanche una nuvola, di questa domenica mattina presto.

    Ho deciso di andare in ospedale per qualche ora, anche se avrei potuto restare a casa, oggi, perché non sono di turno. Ma avevo voglia di uscire, e per un medico fare un giro in ospedale è sempre una buona idea, se ti piace il tuo lavoro e se non ami fare le torte. È come una seconda casa il mio reparto, un luogo dove la mia presenza si incastona perfettamente con persone e cose, dove non mi sento mai fuori posto e dove, se voglio, riesco anche a star sola.

    Mi avvio a passo lento verso la macchina e sistemo i miei tacchi sui pedali, mi guardo nello specchietto e per un lungo attimo ho l’impressione di non essere io, di essere lontana da lì, e ripenso a tutte le domeniche mattina presto della mia vita, alle sue lusinghe, alle promesse non mantenute. Dallo specchietto vedo una ragazzina che porta a spasso il suo cane, si somigliano, entrambi baldanzosi e audaci, entrambi sorridenti e con la stessa andatura. Anch’io volevo un cane, da piccola, e tante altre cose.

    ​2.

    Quando sei giovane, non ci pensi mai per davvero. Al futuro, naturalmente.

    Negli anni del liceo non andavo oltre la prossima interrogazione di latino. O di matematica. Gli occhiali rotondi della prof di filosofia e lo sguardo indecifrabile di quella di greco erano il solo motivo di sconforto, in un mondo che cominciava e finiva in quell’aula, la seconda a sinistra del corridoio al piano terra, con la porta bianca di legno scrostato e i banchi vecchi. Ero uno dei tasselli di un mosaico, che si scomponeva al rassicurante rumore delle sedie, a ricreazione, e si ricomponeva nell’inquieto silenzio dei compiti in classe. Ognuno si sedeva o si alzava dal suo posto, sempre quello, vicino allo stesso compagno, con il quale usciva da scuola tutti i giorni. Eravamo tutti amici, finché eravamo lì, più o meno alla stessa maniera, uniti da quel quadrato di cemento, dove le vite e i momenti si rimescolavano tutti i giorni e le cose cambiavano continuamente per poi tornare com’erano prima. Fuori no, invece, quando si usciva i rapporti si diversificavano, ognuno riacquistava un’identità, scegliendo chi frequentare ed esponendo, timidamente, sentimenti e simpatie. La luce, in sintonia con i rumori della strada, cambiava durante la mattinata, secondo l’orario e le stagioni, e ti veniva naturale riconoscerla. Tornavi a casa come gli altri, il pomeriggio passato a fare gli stessi compiti, e il giorno dopo ricominciava una giornata uguale alla precedente. Una vita fatta di certezze.

    Il mio era un paese piccolo, dove le uniche distrazioni erano le eterne passeggiate con gli amici e il sabato pomeriggio al cinema, e tornavo a casa che mi sentivo male, perché quelle due ore le passavo avvolta in una nuvola di fumo, che ancora non era vietato. Abitavo in una grande casa a tre piani, dove sono stata figlia, nipote, sorella. C’era un terrazzo in quella casa, illuminato, d’estate, da un sole arrogante, che dava su una parte del paese che era quasi campagna, con poche case e un dancing che accendeva di musica le sere d’estate. Si sentivano le cicale cantare e, se eri fortunato, potevi vedere, qualche volta, le lucciole sul ciglio della strada. Ho passato giorni infiniti a giocare fuori, a tutti i giochi del mondo, finché tornavamo a casa stanchi morti e affamati, e mangiavamo pane e burro, e bevevamo l’acqua del rubinetto. Sulla via per la scuola c’era una villetta con i glicini che si arrampicavano disordinatamente sul cancello, e un negozietto di generi alimentari piccolissimo, con una proprietaria grigia e spettinata, che preparava panini enormi, avvolti in una carta marrone, unta d’olio.

    Per tutti ero Lalli, un nome allegro, rotondo come le sue elle e pieno di gioia nella pronuncia, almeno così mi sembrava, allora. Da piccola lo immaginavo come una palla azzurra, e a volte lo ripetevo ad alta voce, mentre giocavo o mentre ero persa nei miei sogni. Lalli, un nome da persona felice e spensierata, un nome al quale non potrà mai succedere niente, un nome da bambina, che giocava con una bambola che cantava, di quelle col dischetto nella schiena e le batterie che finivano sul più bello. Avevo sempre un libro in mano, da leggere distrattamente nei lunghi pomeriggi di pioggia, in cui non si può uscire, seduta a terra in veranda, e d’estate sul mio terrazzo incantato, immersa nel sole e nella voglia di vivere. Uscivamo tutte insieme, io e le mie amiche, con le mamme che ci covavano con gli occhi, piene d’orgoglio, «Mia figlia è la più bella», oppure ascoltavamo l’ultimo disco, di Renato Zero o De Gregori, sedute per terra, a casa di qualcuna, con gli occhi persi e la voce stonata. Di un’ingenuità imbarazzante e convinte di saperla lunga, dispensavamo perle di saggezza a chiunque ritenessimo più sprovveduto di noi, ci vestivamo all’ultima moda, ma le vecchie foto le abbiamo nascoste, perché il risultato era veramente terribile. Una colata di ragazzi inconsapevoli, ignari della vita, della differenza tra realtà e illusione, appartenenti a quella piccola borghesia che appiattiva le menti, incasellandoti in un quadratino di società compiaciuta e impettita.

    «Voi siete fortunati, con la bella vita che fate» ci ripeteva la madre di un mio amico, sottolineando l’importanza del ruolo sociale. «Non tutti possono permettersi di andare all’università, e poi, voi siete così intelligenti.»

    A quindici anni indossai i primi tacchi, degli stivaletti beige, su cui proprio non ci sapevo camminare e bisognava che mi appoggiassi a qualcuno tutto il tempo, ma continuavo a metterli, tenacemente, perché mi avevano detto che stavo benissimo. E così zoppicavo per tutta la sera, facendo finta di niente e nascondendo il dolore, e gli ultimi passi, quelli che mi separavano dal portone di casa, sembravano infiniti. Non sapevamo quasi niente gli uni degli altri, molte cose le ho scoperte per caso, anni dopo, troppo pudore a raccontarsi, dei padri, delle madri, e dei problemi di cui ci si vergognava.

    «I panni sporchi si lavano in casa.» Era una delle frasi preferite di mia madre, ma certe cose è meglio non raccontarle, perché la gente, a volte, sa essere molto cattiva. Non ho mai condiviso, allora, queste affermazioni, ma adesso sì, forse era vero, forse aveva ragione lei. Se qualcuna faceva l’amore con il suo ragazzo non si doveva sapere, e se poi lui, malauguratamente, ti lasciava, valevi meno di zero, nessuno ti avrebbe più voluta. Ma i maschi no, loro potevano, anzi, dovevano, andare a donne, e si lanciavano in sorrisini e battute sottovoce, tra di loro, che Noi la sappiamo lunga, che credete, siamo uomini di mondo, noi. Che poi, non era vero niente, ma noi ragazze, allora, non lo sapevamo, e pensavamo che il mondo fosse così, con gli uomini che usano e giudicano le donne, e quelle leggere non le vorrà nessuno. E comincia una sorta d’impercettibile sottomissione al sesso maschile, subdola e tenace, e temi il giudizio dei coetanei maschi, perché sei giovane e non capisci, e ti convinci che il mondo è così, che basta un niente e puoi vederti puntare un dito contro. E il primo, il più temibile, sarebbe quello di tuo padre. Non puoi fare le stesse cose che fa tuo fratello e chiedi perché, e tua madre ti risponde che lui è maschio, per loro è diverso, le donne è meglio che stiano al posto loro. Proprio non ti sembra giusto e ti ribelli, ma è così anche per le tue amiche e te ne fai una ragione, che tanto, se non vanno a ballare loro, io che cosa ci vado a fare da sola. «Cercate di fare le persone serie e di farvi rispettare» era il perenne insegnamento di mio padre, e l’immancabile «Mi raccomando, state attente» di mia madre gli faceva da eco. E in queste due affermazioni c’era tutto il messaggio di una società dove essere donna era molto complicato, dove era sempre necessario dover dimostrare qualcosa in più degli uomini, se volevi essere credibile.

    Passavo i pomeriggi a studiare, perché mi piaceva, e per meritarmi quel bacio compiaciuto, sempre lo stesso, quando prendevo un bel voto. Oppure a leggere, e nelle pagine di ogni libro intravedevo un progetto, diverso ogni volta, a cui ripensavo la sera, quando ero a letto. La mia adolescenza la ricordo serena e ignara, senza colpi di testa o esaltazioni, facevo la figlia e mi adattavo ai miei panni, intrappolata dal senso del dovere e dai miei genitori. L’esame di maturità lo dimenticai che non era ancora finito, con incoscienza, senza che mi sfiorasse il pensiero che l’avrei rimpianto. Studiai Kierkegaard e il suo Aut aut con la presunzione dei diciotto anni, vivevo i giorni e le amicizie come fossero di passaggio, aspettando un tempo nuovo e utopico, e aggrappata al mio presente. Una vita scandita dalla campanella della scuola, dai rintocchi del campanile, da una canzone nuova, che già trasmette nostalgia. Un tempo in cui non avevi bisogno di decidere niente, il concetto

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