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Il Purgatorio: Tertium non datur
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E-book441 pagine6 ore

Il Purgatorio: Tertium non datur

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Essere cattolici praticanti non include la pedissequa e acritica condivisione di qualsiasi scelta, decisione o atto che caratterizzano e connotano la storia della Chiesa di Roma. Il libro è una ferma e decisa analisi di tutti i momenti in cui la cattolicità persegue in modo sconsiderato quelle derive che, già dal terzo secolo in poi, hanno reso sempre più evanescenti le orme del Maestro. La metanoia del Cristo è stata sopraffatta da un fitto apparato dottrinale, dogmatico e comportamentale, quale intrigo di fatti, logiche e aspirazioni materiali più che misticospirituali. Pessimismo per un futuro migliore: solo la Parusia può salvare l’uomo.
LinguaItaliano
Data di uscita12 giu 2022
ISBN9788893692601
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    Anteprima del libro

    Il Purgatorio - Tonino Filizzola

    Uno schema come sinossi del testo

    Capisco che è quantomeno atipico ricorrere ad uno schema che faccia da incipit, ma l’ho fatto in tutta certezza di non aver travisato questa strategia semantica né nuociuto alla sua funzionalità. Già un primo sguardo d’insieme dei momenti componenti quanto sotto riportato, lascia presagire quale possa essere l’espansione concettuale del testo e disporre quegli itinerari mentali che agevoleranno e orienteranno l’intero percorso di lettura. Il mio exordium inconsueto non segue alcun suggerimento della retorica classica, pronta a scatenare flussi di captatio benevolentiae, ma è tale da anticipare al lettore le argomentazioni a cui andrà incontro, qualora avesse intenzione di approfondire il testo. Si tratta, in sostanza, di un incipit in medias res, non tanto nel significato classico che solitamente accompagna questa locuzione, ma nel senso che esso, comunque, introduce l’argomento di fondo, cosa peraltro già esplicitata a chiare lettere nel titolo. Chiesa e tradizione sono state pessimi complici nel creare formule deviazionistiche, divenute nel tempo verità paradigmatiche, capaci di sostenere una gigantesca e complessa struttura, edificata, però, su fondamenta di sabbia; lo schema seguente, che sarà commentato dettagliatamente nelle pagine successive, chiarisce gli espedienti per costruire sul niente, ma suggerisce anche i criteri attraverso i quali la reificazione di un’astrazione possa implodere su se stessa [segue...]

    Prefazione

    Un cinghiale è entrato nella tua vigna!

    Con questa allegoria messa come incipit nella bolla Exsurge Domine, Leone X, pur non indirizzandola a nessuno, di fatto denunciava e tentava di parare le bordate che arrivavano alla Chiesa dal cinghiale devastatore Lutero. Continuando con l’allegoria a cui allude papa Leone, la storia riporta che l’eresia luterana non sarà il primo né tantomeno l’ultimo cinghiale ad entrare nella vigna per fare sconquassi. Cambiano, però, per forza di cose, le modalità con cui alla Chiesa è possibile neutralizzare i movimenti che le sono ostili. Al tempo di Innocenzo III, erano soprattutto i Catari, con la loro idea della purezza comportamentale e dottrinale, a suggerire un revisionismo nella mentalità ierocratica che contrassegnava peculiarmente la figura pontificia, con grave danno per l’immagine dell’intera cristianità, ma in particolar modo per la Chiesa latina. Contro i Catari, Innocenzo III fece ricorso, per convincerli a rientrare nell’ortodossia, a mezzi coercitivi, come la scomunica, l’esilio e la confisca dei beni; tuttavia, visto l’insuccesso, non esitò più di tanto ad usare contro gli eretici maniere più drastiche che si tradussero in una crociata contro di essi. Perché tanta violenza? E soprattutto cosa poteva legittimare tanta crudeltà da parte della Chiesa? La risposta viene dall’analisi storica della società del tempo, vista come un corpo unico e indivisibile, di fronte a cui il valore dell’individuo era praticamente nullo. Poiché la Chiesa, centro della fede, era vista come fondamento della società e la premessa essenziale dell’autorità, niente appariva più pericoloso per la sua stessa sopravvivenza di qualsiasi atto di ribellione contro l’organizzazione e le decisioni ecclesiali. In sostanza, rifiutare l’obbedienza alla Chiesa significava essere un nemico della società. Era quanto asseriva l’imperatore Teodosio (347-395) all’interno del contenuto dell’Editto di Tessalonica, promulgato nel 380, a cui farà eco in modo più esplicito una nota specifica del diritto romano-giustinianeo[1], che ravvisava in ogni deviazione dall’ortodossia della religiosità cristiana un’implicita contrapposizione a Cristo, ritenuto fulcro inamovibile nonché l’unica, vera testata d’angolo (Mt 21:42,44) della società. Che a Lutero la Chiesa si contrappose con energia e decisione è vero, ma è anche vero che la lotta contro di lui fu meno facile ed efficace rispetto alla neutralizzazione dei movimenti ereticali del passato, date le radicali mutazioni sociali giunte a maturazione nel XVI secolo, conseguenti alle tante novità economiche e filosofiche che spingevano irreversibilmente verso l’affermazione di una cultura autonoma, con tutto quello che ne derivava.

    Va anche detto, però, a stretto rigore storico, che la reiterazione del fenomeno era l’immagine del dissenso nei riguardi delle modalità interpretative del ruolo di pontefice; sarebbe stato opportuno, quindi, che la cattolicità si interrogasse sulle pesanti contrapposizioni che la destabilizzavano e facesse quell’atto di autocritica di cui è stata storicamente deficitaria. Ritornando all’espressione di Leone X con cui si dà inizio alla bolla, un cinghiale è entrato nella tua vigna, non c’è niente di più falso di quella forma aggettivale esprimente possesso da parte di Dio, perché la Chiesa, in un apparato dichiaratamente teocratico, era possedimento esclusivo del papa, non certo indice di un’affettuosa, convinta, partecipata adesione o appartenenza, ma espressione del senso più vero della proprietà, del dominio totale, di appannaggi verticistici autoreferenziali. A voler leggere all’interno della storia, non sfuggirà, neanche al lettore più distratto, che il tentativo di devastare la vigna è stato reiterato con una frequenza preoccupante; in pratica un dissenso continuo e tenace che non consente di assolvere con superficialità l’operato dei pontefici che si sono susseguiti sul soglio di Pietro: evidentemente qualcosa (probabilmente più di qualcosa) ha risentito delle modalità interpretative di quel ruolo istituito da Cristo. Sorge il dubbio, per un motivo non percepibile, che la Chiesa sia autolesionista, che faccia male a se stessa con atteggiamenti di distaccata ed evidente indolenza, di fronte alle tante accuse che le piovono addosso, o rispondendo solo parzialmente e temporaneamente a situazioni che andrebbero affrontate radicalmente, Vangelo alla mano, e non con vuoti appelli irenico-esortativi che non convincono nessuno. Preghiamo perché i terroristi islamici si convertano, ha detto papa Francesco durante l’Angelus, dopo uno dei tanti attentati di queste orde sanguinarie che sono figli di situazioni politiche, non certo degli insegnamenti coranici. Con tutto il rispetto per papa Francesco, ma l’appello non è sorretto da una reale forza persuasiva, non coinvolge il credente che sa benissimo che Dio non interviene facilmente, e spesso, come dirò più avanti, la Divinità è silente al punto da sembrare sorda ai nostri appelli; ma soprattutto non interviene in casi come quello prospettato dal pontefice perché è un Padre di giustizia che, chiamato ad intervenire, lo fa nei confronti di tutti i suoi figli e non solo di una parte di essi. Chiarisco il concetto a beneficio del lettore, che ovviamente ne trarrà le conclusioni che ritiene opportune. È del tutto giusto l’appello di papa Francesco, al di là del metodo troppo sbrigativo per risolvere una questione abnorme per dimensioni e complessità? No, che non è giusto, né tantomeno assennato e coerente! Solo i terroristi devono convertirsi? Chi c’è dietro gli attentati? Chi li finanzia? Quale connivenza politica internazionale ne è la vera matrice? Chi vuole destabilizzare il pianeta? Chi da questa destabilizzazione trae profitti oceanici? Quello che è inconfutabilmente certo è la provenienza delle armi usate dai terroristi, prodotte rigorosamente in Occidente o comunque da superpotenze che hanno nelle industrie di materiale bellico un settore che non hai mai risentito di alcuna crisi. E, allora, sono solo i terroristi che devono convertirsi o anche chi li arma e ne favorisce l’escalation perché dietro la destabilizzazione dell’equilibrio mondiale prolifera in modo esponenziale la ricchezza di pochi? In sostanza, tra la presunzione di infallibilità, farisaici buonismi, sviste non sempre inconsapevoli e una gestione della religiosità mai completamente avulsa e disinteressata degli accadimenti politici internazionali, la Chiesa farebbe pensare che il male e addirittura l’Anticristo si annidi, infido e beffardo, proprio negli occulti ed arcani ambienti dell’alta clericalità; un’eventualità assai più che probabile, suffragata da una ricchissima letteratura in proposito, al cui interno ritengo sia oltremodo significativo ed esplicativo il contenuto del testo L’Anticristo di Gianni Baget Bozzo (2001). La storia, che è solita parlare a suon di documenti, sentenzia che tanti devastatori della Chiesa (parlo di quella vera, quella che è solo di Dio e di Cristo) troppe volte sono stati partoriti al suo stesso interno, sulla spinta di ambizioni secolari, avulse da ogni sensibilità spirituale. La genuina e coerente coscienza cristiana, opposta a cesaropapismi e ierocrazie, è stata messa al bando e demonizzata da figure sordide e perfide che esaltavano se stesse, affossando le spinte di quella Chiesa che ha la prerogativa dell’invisibilità: l’unica vera Chiesa, di fronte alla quale non esistono né esisteranno alternative, perché riesce a dare il marchio dell’indefettibilità anche alla Chiesa cosiddetta visibile. Che la Chiesa invisibile ricopra un ruolo fondamentale, non sembrano esserci dubbi, se è vero che i donatisti, gli ariani, i catari, Zwingli[2], Lutero e buona parte dell’ecclesiologia protestante le assegneranno una valenza assoluta. Personalmente, ritengo valida la posizione della Chiesa cattolica che postula l’esistenza delle due chiese, visibile e invisibile, inscindibili ed esistenti l’una in funzione dell’altra. È dello stesso avviso Calvino[3], in disaccordo almeno su tale questione con gran parte del mondo protestante, che unifica le due chiese in un unico corpo, secondo quella visione che sarà propria del Concilio Vaticano II, espressa al punto n. 8 dell’enciclica Lumen Gentium, sulla scia delle affermazioni di Pio XII, formulate nell’enciclica Mystici Corporis Christi. È anche vero che Calvino opera una distinzione tra la Chiesa visibile e quella invisibile, inserendo nella prima la comunità dei credenti cristiani e nella seconda l’insieme degli eletti, dei santi e di tutti i consacrati, ma è altrettanto vero che ogni credente è chiamato a profondere il massimo impegno come Chiesa visibile, guardando con un atteggiamento attento e deferente alla Chiesa invisibile, vera ed unica immagine del corpo di Cristo. Distinzione che non scalfisce più di tanto un’unità che trova la sintesi indissolubile in quell’unica Chiesa, così come il Cristo-Essenza l’ha voluta. Una Chiesa che ha la sua invisibilità nella comunione di tutti gli eletti che sono conosciuti soltanto da Dio e quindi non visibili a tutti; la sua visibilità si manifesta, invece, nell’insieme dei fedeli, organizzati secondo una struttura assembleare che, sotto la guida di ministri, tendono al raggiungimento della salvezza, aderendo ai precetti prescritti dalle Sacre Scritture. D’altra parte, la coesistenza delle due chiese diventa un dogma obbligato per il credente, alla luce di quanto esprime l’incipit del Vangelo di Giovanni (In principio era il Verbo...), secondo cui il Verbo diventa carne, natura umana, per operare la salvezza, così come lo Spirito Santo, dopo l’ascesa di Gesù in cielo, si dovrà servire dell’organismo visibile della Chiesa per diffondere la grazia. In effetti, così come Cristo è sintesi del visibile (natura umana) e dell’invisibile (il Verbo), così la Chiesa ha l’invisibilità nello Spirito Santo e la visibilità nella comunità reale che segue e diffonde il messaggio biblico. Ad ulteriore chiarimento della tematica, aggiungo che il concetto teologico cristiano di Chiesa invisibile si è affermato prevalentemente nell’ecclesiologia protestante, laddove per Chiesa si intende essenzialmente una realtà spirituale conosciuta solo da Dio, realtà che trascende le sue manifestazioni storiche contingenti, imperfette e fallibili, quelle che nascono e si sviluppano in questo mondo; essa prescinde perciò dalla qualità dei suoi membri e quindi dalla cosiddetta successione apostolica. L’idea nasce con il donatismo, per essere ripresa successivamente dall’arianesimo e dai catari; non mancherà di influenzare il profetismo di Gioacchino da Fiore da cui prenderà sviluppo il movimento degli spiritualisti francescani. Con John Wycliffe, Jan Hus e Marsilio da Padova la disputa ecclesiologica si arricchirà di nuovi contorni, fino a concepire un netto distinguo tra l’ecclesia abscondita (spiritualis) e l’ecclesia universalis. Lo sviluppo successivo e, per certi versi, chiarificatore, prenderà avvio con la nascita e l’affermazione della riforma luterana che si serve del termine visibile per definire quella parte della Chiesa cattolica gravemente corrotta, per distinguerla da coloro che, all’interno della cattolicità, esprimevano una fede sana e incrollabile. I fautori della riforma, nella fattispecie quella luterana, non alludevano ad una bipartizione all’interno della Chiesa, ma se mai a differenziare la cristianità in due ordini, entrambi, però, componenti dell’unica comunione esteriore. La Chiesa invisibile è nella Chiesa visibile perché, come l’anima trova motivo d’essere attraverso il corpo, allo stesso modo la Chiesa invisibile trova collocazione nella Chiesa visibile; spetta, comunque, solo a Dio stabilire chi alla fine avrà la salvezza, perché solo Lui ha certezza assoluta dei meriti con cui si è stati adepti della Chiesa invisibile. L’invisibilità, quindi, trova riscontro anche nel fatto che alla sapienza umana è impedito ogni possibilità di accesso nel presagire il destino escatologico del singolo individuo e dell’umanità nella sua interezza. Lutero adotterà il temine invisibile desumendolo dal Credo Apostolico che esprime le principali verità della fede cristiana, ma che è meglio espresso dalla prima formulazione del Credo riproposta nel Concilio di Nicea (325) e completata in quello di Costantinopoli (381), giunta sino a noi e solitamente recitata durante la celebrazione della messa secondo il rito cattolico. Lutero parla di Chiesa visibile e Chiesa invisibile, ma sia chiaro che non è nelle sue intenzioni ricavarne due realtà a sé stanti. Prospetta l’unicità della Chiesa che è all’un tempo visibile e invisibile: visibile perché si fa conoscere come il luogo in cui è predicata la Parola di Dio e vengono rettamente amministrati i sacramenti; invisibile perché l’effetto della Parola predicata, cioè la fede, non si può sottoporre ad alcun tipo di controllo. Piuttosto che invisibile per Lutero la Chiesa è nascosta, nel senso che non si lascia ridurre alle semplici istituzioni storiche espresse dalle contingenze di particolari milieu sociali e culturali. La Chiesa invisibile non può essere gerarchica, ma è solo quella degli eletti, consacrati da Dio alla diffusione del vero Verbo. Lutero non disconosce di fatto la struttura ecclesiastica, ma ne limita le mansioni, nel senso che non ha tra le sue prerogative, quella di garantire la salvezza tramite i sacramenti. In sostanza la Chiesa di Lutero, come si è già detto, è preminentemente quella spirituale e invisibile, ma egli le riconosce il requisito della materialità e quindi di una funzione istituzionale. Come tale deve rendere palese la sua esistenza perché solo così potrà divulgare, attraverso la predicazione, il messaggio evangelico e riunirsi in assemblee per pregare il Signore, cantandone le lodi. Fin qui Lutero era in totale accordo con la Chiesa cattolica, con la quale, appunto, riconosceva l’esistenza di una Chiesa visibile e una invisibile, un binomio perfettamente fuso in una unità indistinta nelle sue parti componenti, che si integravano alla perfezione. La divisione tra la dottrina luterana e quella cattolica divenne incolmabile quando l’ex monaco agostiniano precisò che la Chiesa era chiamata a divulgare il messaggio biblico senza la pretesa di essere depositaria diretta della funzione salvifica dell’anima dei fedeli, prerogativa spettante solo a Dio, con la Chiesa visibile che, per tale finalità, si autoconferiva unicamente la funzione di umile strumento nelle mani di Dio. In pratica, la Chiesa visibile è l’insieme di tutti i fedeli (o presunti tali) che vivono nella società per diffondere il contenuto delle Sacre Scritture, supportando la loro attività con una condotta di vita esemplare. La Chiesa invisibile si distingue per la sua dimensione unicamente spirituale, emblema della presenza abscondita di Cristo presente nella realtà umana, sotto forma di Spirito Santo e come corpo mistico.

    Preferisco a questo punto non sconfinare ulteriormente nel terreno del pensiero luterano sia per evitare derive concettuali che non devono essere parte di questo lavoro, sia per evitare che il lettore possa accreditarmi, in termini confessionali, derive personali che non ho mai avuto né intendo avere. Ciò detto, non sarei intellettualmente onesto se non confessassi di condividere, comunque, la tesi luterana che conferisce ampio rilievo soprattutto alla Chiesa invisibile per l’impossibilità che le è propria di non poter cedere a devianze, a cedimenti, a distorsioni, dato il carattere ontologico che ne costituisce la peculiarità essenziale. Al contrario, quella visibile ha mostrato (e mostra tuttora) segni di debolezza in ogni momento storico in cui i fedeli si sono allontanati da Dio, professando la fede alla maniera dei pagani, dei sadducei, dei farisei e degli scribi. Si tratta di una Chiesa che purtroppo include tutti coloro che dichiarano apertamente di credere in Cristo, anche quelli che ricevono costantemente e in pubblico i sacramenti; ma tutto si risolve in un atto esteriore, privo della vera illuminazione dello Spirito Santo, della fede pura e perseverante, col risultato inevitabile di mettere a nudo le loro debolezze, le distorsioni fideistiche, le loro defezioni. In definitiva, si parla di quel tipo di Chiesa di cui, a stretto rigore storico, farò riferimento in seguito e che ha posto nella visibilità l’unico suo modo di essere, trascurando di configurarsi come l’ideale reificazione della spiritualità della Chiesa invisibile.

    Si tratta probabilmente di una storia vecchia, connaturata col genere umano, che porta l’apostolo Giovanni ad affermare: Sono usciti di mezzo a noi, ma non erano dei nostri; perché se fossero stati dei nostri, sarebbero rimasti con noi; ma ciò è avvenuto perché fosse manifesto che non tutti sono dei nostri (1 Gv 2:19). Matteo, in modo diverso, ribadisce lo stesso concetto:

    Ciononostante, per il tempo in cui fingono di temere e di amare Dio, vengono contati nella Chiesa, benché non siano affatto della Chiesa, esattamente come in una repubblica i traditori vengono contati nel numero dei cittadini prima che il loro tradimento sia scoperto e come il loglio e la paglia è mescolato con il grano, e come gli ascessi e le gobbe si trovino in un corpo sano, benché, in verità, si tratti piuttosto di malattie (tumori) e di deformità del corpo che non di vere membra dello stesso. La Chiesa di Dio viene perciò a ragione paragonata ad una rete che contiene ogni sorta di pesci e ad un campo in cui si trovino erbacce in mezzo al buon grano. (Mt 13:47ss; 13:24ss)

    Ritengo, a questo punto, di non dover insistere sulla questione con ulteriori approfondimenti, data la complessità del tema, anche perché credo di aver offerto sufficienti stimoli al lettore che volesse eventualmente accrescere le sue conoscenze in proposito. Da parte mia, ho ritenuto necessario soffermarmi su un argomento che solo in apparenza sembrerebbe estraneo allo sviluppo del presente lavoro. In realtà, le parole di Giovanni e la posizione di Lutero non fanno altro che mettere in rilievo i limiti della Chiesa visibile che non solo ha rifiutato l’autocritica, ma ha assunto, lungo l’arco della storia, un ruolo di assoluta preminenza al punto da condizionare, alterare e tradire le verità della Chiesa invisibile, intervenendo ex cathedra su fattori teologici, teleologici, escatologici. Ne è stata diretta conseguenza quel motivo che, su tutti, mi ha indotto alla stesura di questo saggio, ossia l’intrusione del terzo regno ultraterreno, in un contesto da sempre e per sempre bipartito, così come l’imperscrutabile disegno del Padre ha stabilito. Cesaropapismi e ierocrazie hanno preso il sopravvento su quegli spiriti ricchi di autentica sensibilità religiosa e forti di aneliti morali tenaci e indefettibili, facendo scempio del loro corpo e della loro dignità. L’insegnamento del Maestro messo a tacere, stravolto e mistificato, per esaltare sordide e perfide figure umane. Eppure il Figlio dell’Uomo è il paraclito che salva, è portatore di alétheia, di dis-velamento (nel senso letterale di togliere il velo), che irrompe nella storia per certificare in via definitiva l’intima correlazione tra uomo e Dio, perché all’umanità sia chiaro, una volta per sempre, quale debba essere il suo rapporto con la divinità, nonché il suo percorso escatologico: Ed ecco il velo del tempio si squarciò in due da cima a fondo (Mt 21:51). La limpidezza del messaggio è un dono che il Padre fa attraverso il Figlio, per mezzo del quale si degrada, fino ad assumere le precarie condizioni della finitudine. Si adempie la contrazione dell’infinito nel finito, in una sorta di processo discensivo (ontologico), in base al quale la Divinità si fa natura, uomo, con Gesù-uomo che farà il percorso inverso, ascensivo (cosmologico), a significare che il destino umano è proiettato in una dimensione metafisica. Ma la Chiesa visibile ha smarrito il messaggio e al dis-velamento di Cristo (di Socrate e altri) ha contrapposto il ri-velamento, nel senso di rimettere il velo davanti alla verità, ricorrendo a strutture concettuali pregne di relativismo e contingenze. Si verifica, in sostanza, un incauto ritorno a quelle incrostazioni antropomorfiche che conferiscono a Dio connotazioni umane, con il sostegno di quella insolente teologia dell’identità che dimentica il rispetto per l’inconoscibilità del Divino. Le espressioni racchiuse tra virgolette sono di Karl Barth (1886-1968), sul quale credo sia opportuno un minimo di approfondimento non solo per chiarire il significato teologico delle sue asserzioni, ma anche per giustificare la condivisione di buona parte del pensiero di Feuerbach, da lui definito, dopo un’attenta analisi, non il negatore della fede, ma il teologo che più di ogni altro ha liberato Dio dalle incrostazioni antropomorfiche; entrambi, in sostanza, respingono con fermezza, proprio l’insolente teologia dell’identità. A chiunque verrebbe da pensare alla improponibilità del connubio Barth-Feuerbach; ogni dubbio è legittimo se si tratta di conciliare le posizioni di uno ritenuto non a torto tra i più grandi teologi del ‘900, e l’altro (ovviamente Feuerbach) che sviluppa il suo pensiero sulla base della frase Homo homini deus est (L’uomo è Dio dell’Uomo)[4]. L’incompatibilità tra i due è più che altro apparente o esito di conclusioni pressappochistiche. Senza alcuna pretesa di essere esaustivo, credo di poter offrire al lettore qualche elemento chiarificatore, riproponendo alcuni punti essenziali del pensiero barthiano. Nella sua opera più significativa, L’Epistola ai Romani (Der Römerbrief, 2002), Barth irrompe prepotentemente nella speculazione di orientamento religioso, con la teologia dialettica, che nel primo ventennio del ‘900 si contrappone alla teologia liberale, le cui radici affondavano in ambiti storicistici e romantici. Ovviamente il lemma dialettica non ha alcun nesso con la dialettica hegeliana[5], forte di un dinamismo continuo e circolare, in quanto Barth, riconoscendo in Dio il. totalmente altro, non può che ipotizzare nei confronti della Divinità un approccio unicamente apofatico. Si tratta di un Dio che trascende ogni realtà fisica e qualsiasi capacità cognitiva dell’essere umano, per cui quella barthiana è una dialettica che consente solo la contrapposizione insormontabile tra Dio e il mondo: due dimensioni assolutamente inconciliabili, data la profonda alterità che le separa. In sostanza, il pensiero di Barth nasce e si sviluppa sulla base di un Deus absconditus (Isaia 45,15) che sfugge ad ogni tentativo di antropomorfizzazione. La tematica trova un ulteriore sviluppo nella Dogmatica ecclesiale, composta da 13 tomi, la cui stesura ha richiesto una totale dedizione dal 1932 fino al 1968, anno della morte dell’autore. Nell’opera, Barth contesta l’analogia entis che ammetterebbe la possibilità umana di dissertare sull’esistenza e la natura di Dio, partendo dal creato. Il teologo contesta con fermezza e determinazione tale assunto di evidente stampo tomistico, al punto da fargli dire: Ritengo che l’analogia entis sia un’invenzione dell’Anticristo, e penso che proprio a causa di esso non si possa diventare cattolici. Mi permetto di aggiungere che tutte le altre ragioni che si possono addurre per non farsi cattolici, mi sembrano puerili e di poco conto[6].

    A completamento di questa mia ultima considerazione, devo, con sommo rincrescimento, citare un personaggio che detesto, ma in grado di elaborare un paradigma che nel suo freddo cinismo definisce le modalità con cui si possa alterare il concetto di verità. Si tratta di Joseph Goebbels (1897-1945), famigerato e odioso ideologo del Nazismo che era solito proferire: Ripeti una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà verità. È avvilente doversi piegare a questo assunto, ma purtroppo la storia attesta che è proprio così. La Chiesa visibile ha fatto tutto questo! Ha deformato verità, ne ha create di nuove, ha fatto di tutto per stravolgere l’ordine naturale delle cose (ha dato a Cesare anche quello che era di Dio!): creata e voluta da Cristo come sua propaggine per aiutare l’umanità ad elevarsi a Dio, con l’aiuto dello Spirito Santo, ha, invece, elevato se stessa fino a deificarsi e ad invertire la causa con l’effetto. Le dottrine si susseguono, le novità teologiche si sovrappongono, le esegesi surrettizie diventano norma, la spiritualità è messa ai margini, la temporalità ha esondato nel passato, ma tuttora non demorde dai suoi propositi. È solo un caso che la Chiesa, in particolare quella latina (ma il discorso è estensibile a tutta la cristianità), abbia avuto così tante voci dissenzienti? Non mi riferisco a contrapposizioni di tipo secolare, cosa che rientrerebbe nell’ordine naturale delle cose, ma a dissensi di figure dalla spiritualità alta, santa, pervicace, come quella di Francesco d’Assisi, Domenico di Guzman, Gioacchino da Fiore, solo per citarne alcuni. È forse un caso la fioritura di ordini monastici (in primis i benedettini, fino ad arrivare ai gesuiti), che predicavano il ritorno ai principi evangelici, perché, in tutta evidenza la Chiesa di Roma aveva smarrito le sue radici? Perché mai la Chiesa si è opposta con tanta ferocia alla cultura autonoma (così viene definita ogni forma culturale non più controllata dalla clericalità), al punto da stilare un elenco di opere pericolose, messe rigorosamente all’indice, con distruzione delle stesse e con la condanna anche capitale degli autori? Cosa avrebbe dovuto temere se si fosse attenuta rigorosamente al messaggio evangelico? Perché l’inquisizione? Perché le crociate? Perché il rogo per Jan Hus, per Giordano Bruno e Savonarola, tanto per fare qualche nome? Perché lo sfarzo in un contesto che dovrebbe emblematizzare l’umiltà e la povertà? Perché l’infallibilità del papa e quindi della Chiesa? Perché Pio IX si ostinava ad impedire l’unità d’Italia, al punto da dichiararsi prigioniero politico al momento dell’occupazione di Roma? Quale riferimento biblico lo rendeva ostinatamente legato a perseguire la strada della teocrazia? Ma le incongruenze non fanno parte solo del passato. Oggi si continua a giocare col terzo mistero di Fatima, il cui contenuto, avvolto da un silenzio che incuteva un senso di angoscia e paura, una volta svelato (ammesso che sia davvero quello) fa bella mostra di sé per l’insulsaggine che lo contraddistingue, intriso di una banalità fumosa, per un simbolismo metaforico che lo lascia allo stato di mistero, in quanto privo di qualsiasi nesso con la logica umana e soprattutto con quella divina. Non si può né si deve chiamare in causa la Madonna per scempiaggini del genere: troppo coerente, concreta e benevola la Madre di Gesù per accreditarle rebus da Settimana enigmistica. Ma non finisce qui perché il pensiero corre al dramma irrisolto di Emanuela Orlandi, all’attentato di Ali Agca a Giovanni Paolo II, allo IOR (acronimo che sta per Istituto per le Opere di Religione, più propriamente noto come Banca Vaticana), istituto pontificio di diritto privato, creato nel 1942 da papa Pio XII, con sede nella Città del Vaticano. Purtroppo proprio lo IOR ha fatto presto a trasformarsi in una fabbrica di denaro (lo è tuttora), con tutte le sue connivenze che non appartengono solo al passato; il silenzio-assenso della Chiesa latina di fronte ad un fenomeno evidente è stato a dir poco imbarazzante: nessuna condanna per l’anomalo modus operandi dell’istituto, con l’inspiegabile laissez faire all’arcivescovo Paul Marcinkus che dello IOR è stato presidente, potente curatore e chissà che cos’altro, dati i suoi legami con Michele Sindona, Licio Gelli, Roberto Calvi (affiliato alla Loggia massonica P2), con tutto quello che ne è derivato, compreso lo scandalo del Banco Ambrosiano e la morte misteriosa di Calvi e Sindona. In sostanza, un uomo potente e pericoloso che non disdegnò amicizie mafiose e che completerà poi la sua già complessa figura, quando entrerà a far parte della Massoneria, il 21 agosto 1967, con numero di matricola 43/649 e col soprannome Marpa. Questa notizia è riportata dalla rivista OP-Osservatore Politico, in data 12 settembre 1978, edita da Mino Pecorelli, assassinato il 20 marzo 1979. Mi soffermo ancora sulla figura di Marcinkus perché il lettore possa rendersi conto di quanto risultasse inquietante, ma anche perché vorrei dimostrare che certe mie posizioni forti contro la Chiesa latina, hanno ben motivo d’essere. Mi chiedo, pertanto, quale fosse il grado di miopia del Vaticano, nei confronti di un tale personaggio, dato che per la sua affermazione hanno inciso colpevolmente soprattutto le scelte di due papi: il primo è Paolo VI, che il 6 gennaio del 1969 lo consacrò arcivescovo titolare di Orta, nella Basilica di S. Pietro. Successivamente, negli anni settanta, gli assegnò l’incarico di organizzare il servizio di guardia del corpo della sua persona. Nell’espletamento di tale ruolo, venne soprannominato Il Gorilla, sia per l’imponenza fisica sia per i suoi modi burberi e sbrigativi. Il secondo è Giovanni Paolo II, che il 26 settembre del 1981 lo nominò pro-presidente della Pontificia Commissione per lo Stato della Città del Vaticano, incarico che mantenne fino al 30 ottobre del 1990, allorquando si dimise. Ci sono nella complessa storia di questo sordido personaggio, almeno due episodi (fra i tanti) che mi causano una vaga ma profonda inquietudine: il primo è che, stranamente, l’unico personaggio importante del clero con cui Marcinkus entrò in contrasto fu Albino Luciani, nel 1972, quando era ancora patriarca di Venezia. Il secondo è che, nonostante ci fosse nei suoi confronti un mandato di cattura, emesso dal giudice istruttore del tribunale di Milano, il 20 febbraio del 1987, il Vaticano se lo tenne fino alla pensione, prevista dal Codice di Diritto Canonico, al raggiungimento dei 75 anni di età. Il buon Marcinkus ovviamente si dovette dimettere da ogni incarico e finalmente lasciò il Vaticano per far ritorno alla sua arcidiocesi di Chicago. Lasciava in eredità alla Chiesa cattolica (non certo a quella di Cristo) un patrimonio di immonde sozzure che nascondevano delitti, riciclaggio di enormi somme di denaro, illeciti finanziari di ogni genere, compromessi con personaggi potenti della politica e dell’alta finanza, connivenza con ambienti mafiosi. Naturalmente, con questi dati che incutono un senso di angoscia e di incredulità, c’è più di un sospetto che Marcinkus entri da protagonista nella storia di Emanuela Orlandi e nella strana morte di papa Luciani, uno dei pochi, se non l’unico, a respingere con decisione ogni tentativo di farne un tassello di quel mondo contorto nel quale viveva Marcinkus, senza che qualcuno tentasse di arginarne la squallida e riprovevole attività. Credo sia di estrema importanza fare chiarezza sul dissidio del 1972 tra Albino Luciani e Marcinkus, per capire i due personaggi e dare un’idea di quali oscuri intrighi si potessero tramare nelle alte sfere della cattolicità; in pratica lo IOR avrebbe voluto cedere il 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto al Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, senza avvisare i vescovi veneti. Luciani non solo si oppose ma, diventato papa Giovanni Paolo I nel 1978, annuncia di voler fare pulizia nella finanza vaticana e di voler epurare la Chiesa dalla massiccia presenza di massoni all’interno dell’alta gerarchia ecclesiastica. Luciani morirà dopo soli 33 giorni di pontificato in circostanze mai chiarite, con un’unica certezza: il numero 33 è altamente simbolico per la Massoneria perché è il numero del Gran Maestro ed è inoltre multiplo di 11, che rappresenta il numero mistico della Cabala ebraica, dalla quale dipendono tutti i segreti e la simbologia dell’intera organizzazione massonica. Per capire la portata del progetto di papa Luciani, nel voler fare un repulisti all’interno del perfido gotha vaticano, ricordo che Marcinkus fu uno dei protagonisti (se non il vero protagonista) del fallimento del Banco Ambrosiano, a cui fece seguito il suicidio di Calvi a Londra. Qualora si volesse approfondire questa complessa questione, rimando a quella che tra le tante fonti mi è sembrata la più accreditata: Andreatta. Ministro del Tesoro di F. Salsano (2009: 104-112, Il Mulino, Bologna).

    Un’altra risposta che il Vaticano ha l’obbligo di dare, non solo ai fedeli, è quella che fornisca spiegazioni plausibili sui motivi che sono alla base della traslazione del corpo di Luigi De Pedis, detto Renatino, dal cimitero Verano di Roma alla Basilica di sant’Apollinare, con tanto di lapide commemorativa a fare bella mostra di sé, nella quale gli si ascrivevano grandi meriti di benefattore, specie nei confronti dei bambini. Per chi non lo sapesse, il De Pedis è stato il più sanguinario componente della banda della Magliana, invischiato in molte delle luride collusioni tra politica, poteri forti e delinquenza spicciola. Ammesso pure che evidenziasse atti di generosa filantropia, sarebbe lecito interrogarsi sulla loro origine e sui motivi che spingevano la Chiesa o altre associazioni ad accettare quel denaro elargito sotto forma di offerta, dietro al quale grondavano fiumi di sangue. Non sarebbe male, inoltre, che il Vaticano pretendesse chiarimenti definitivi sulla vicenda di Elisa Claps, dato che la tragedia si è consumata all’interno di una chiesa di Potenza. È in questo marasma di interrogativi senza risposta che la Chiesa latina vive il dramma di un’esistenza dimentica del messaggio del Maestro. È nel disordine di questo caos che chi come me, cattolico praticante, che tale vuole rimanere, deve fare i conti giorno per giorno, nella speranza di rivedere la Chiesa nelle vesti di luce e guida per chi si perde nella bolgia di un mondo che sconcerta con le sue frenesie irrazionali, in un fermento e in una contingenza che danno al tempo il carattere della durata infinitesimale. È probabile che tale stato d’animo mi abbia spinto a misurarmi nella stesura di questo libro, che non vuole e non deve fare di me un cinghiale dagli istinti distruttivi, ma solo uno che, nel denunciare l’anomalia del Purgatorio, vuole offrire al lettore un quadro storico della Chiesa da cui è scaturita questa mistificazione teleologica, i cui danni hanno attraversato i secoli fino ad arrivare ai nostri giorni, sulla spinta di forze più o meno occulte che devastano il Vangelo sin dalle sue basi più profonde. Il riferimento più diretto delle motivazioni che mi hanno sostenuto lungo tutto il percorso espositivo trova la sintesi più significativa nel titolo e nel sottotitolo che vado a ad esplicitare per il lettore che eventualmente non ne avesse colto il giusto senso. Intanto si integrano dato che il primo prelude al secondo e insieme agiscono in totale sinergia perché raggiugano il massimo dell’efficacia semantica. Quel tertium non datur è un’espressione mutuata dalla logica aristotelico-scolastica che serve per asserire che non è data una terza possibilità. In sostanza, date due ipotesi contrapposte o magari un’affermazione e la sua negazione, si deve escludere ogni altra possibilità o soluzione intermedia. Se andiamo nella logica binaria o principio di bivalenza e ci rifacciamo a ogni forma di logica in cui i valori di verità siano polari, il principio formulato nella metafisica aristotelica è ampiamente confermato. Un esempio pratico del tertium non datur e del conseguente principio del terzo escluso lo si trova in due proposizioni che danno vita ad una coppia cosiddetta antifàtica (p e ¬p), strutturata cioè con enunciazioni logicamente opposte

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