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L'ospite inatteso
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E-book569 pagine7 ore

L'ospite inatteso

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Info su questo ebook

Bestseller in Inghilterra, Stati Uniti, Australia e Canada

Un grande thriller
Un intreccio incredibile
Un finale mozzafiato

La buca non era profonda. Un sacchetto di farina avvolgeva il piccolo corpo. Tre faccine guardavano dalla finestra, gli occhi neri di terrore. Uno dei bambini disse: «Chi sarà il prossimo?» 
La detective Lottie Parker cerca un collegamento tra la morte di una donna assassinata in una cattedrale e quella di un uomo impiccato a un albero del suo giardino. Le vittime hanno infatti un passato oscuro in comune. Ma nel corso delle indagini Lottie vede man mano riaffiorare antichi dolori che ben conosce, e quello strano caso sembra iniziare a riguardarla personalmente. Solo muovendosi in fretta potrà fermare l’allungarsi della scia di sangue, ma andare fino in fondo potrebbe farle correre un pericolo terribile che la riguarda molto da vicino…

Un'autrice rivelazione
Oltre 1 milione di copie vendute nel mondo


«Non vedevo l’ora di leggere questo libro e non ha deluso le aspettative. Aspetterò di sicuro con impazienza i prossimi casi della detective Parker.»
Angela Marsons, autrice del bestseller Urla nel silenzio

«L'esordio di Patricia Gibney è uno dei più grandi successi editoriali di quest’anno.»
The Times
Patricia Gibney
Proviene dal cuore dell’Irlanda. La serie incentrata sul personaggio di Lottie Parker è diventata un caso editoriale, con oltre 1 milione di copie vendute e traduzioni in numerosi Paesi. La Newton Compton ha già pubblicato L’ospite inatteso, Le ragazze scomparse, Uccidere ancora e Nessun luogo è sicuro.
LinguaItaliano
Data di uscita13 nov 2017
ISBN9788822715968
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    Anteprima del libro

    L'ospite inatteso - Patricia Gibney

    tavola

    Indice

    Prologo

    PRIMO GIORNO. 30 DICEMBRE 2014

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    SECONDO GIORNO. 31 DICEMBRE 2014

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    TERZO GIORNO. 1 GENNAIO 2015

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    QUARTO GIORNO. 2 GENNAIO 2015

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Capitolo 37

    Capitolo 38

    QUINTO GIORNO. 3 GENNAIO 2015

    Capitolo 39

    Capitolo 40

    Capitolo 41

    Capitolo 42

    Capitolo 43

    Capitolo 44

    Capitolo 45

    Capitolo 46

    Capitolo 47

    Capitolo 48

    SESTO GIORNO. 4 GENNAIO 2015

    Capitolo 49

    Capitolo 50

    Capitolo 51

    Capitolo 52

    Capitolo 53

    Capitolo 54

    Capitolo 55

    Capitolo 56

    Capitolo 57

    Capitolo 58

    Capitolo 59

    Capitolo 60

    Capitolo 61

    Capitolo 62

    Capitolo 63

    SETTIMO GIORNO. 5 GENNAIO 2015

    Capitolo 64

    Capitolo 65

    Capitolo 66

    Capitolo 67

    Capitolo 68

    Capitolo 69

    Capitolo 70

    Capitolo 71

    Capitolo 72

    Capitolo 73

    Capitolo 74

    Capitolo 75

    Capitolo 76

    Capitolo 77

    OTTAVO GIORNO. 6 GENNAIO 2015

    Capitolo 78

    Capitolo 79

    Capitolo 80

    Capitolo 81

    Capitolo 82

    Capitolo 83

    Capitolo 84

    Capitolo 85

    Capitolo 86

    Capitolo 87

    Capitolo 88

    Capitolo 89

    Capitolo 90

    Capitolo 91

    Capitolo 92

    Capitolo 93

    Capitolo 94

    Capitolo 95

    Capitolo 96

    Capitolo 97

    Capitolo 98

    Capitolo 99

    Capitolo 100

    Capitolo 101

    Capitolo 102

    Capitolo 103

    Capitolo 104

    Capitolo 105

    Capitolo 106

    NONO GIORNO. 7 GENNAIO 2015

    Capitolo 107

    Capitolo 108

    Capitolo 109

    Capitolo 110

    Capitolo 111

    Epilogo

    Ringraziamenti

    Una lettera da parte di Patricia

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    1794

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Titolo originale:The Missing Ones

    Copyright © Patricia Gibney, 2017

    Published by arrangement with Rights People, London

    Patricia Gibney has asserted her right to be identified

    as the author of this work

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Laura Decè

    Prima edizione ebook: gennaio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1596-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Sandro Ristori

     Patricia Gibney

    L’ospite inatteso

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Per Aisling, Orla e Cathal.

    La mia vita, il mio mondo.

    Prologo

    31 gennaio 1976

    La buca che scavarono non era profonda, meno di un metro. Il corpicino era racchiuso in un sacco di farina color bianco latte ed era legato stretto, con i lacci sporchi di un grembiule che una volta era stato bianco. Fecero rotolare il sacco sul terreno, anche se era leggero e avrebbero potuto alzarlo senza problemi. Non mostrarono alcun rispetto per il defunto. Uno di loro con un calcio lo spedì in mezzo alla buca e lo schiacciò ancora più giù nel terreno con la suola delle scarpe. Non fu recitata alcuna preghiera, niente parole ispirate, ma solo vangate di terra umida che velocemente coprivano il candore con l’oscurità, simile al calare di una notte non annunciata dal crepuscolo. Sotto l’albero di mele, che avrebbe fatto nascere dei boccioli bianchi in primavera e donato ricchi frutti in estate, giacevano due cumuli di terra, uno compatto e solido, l’altro fresco e friabile.

    Tre faccine osservavano dalla finestra del terzo piano con occhi terrorizzati. Si inginocchiarono su uno dei loro letti, con quei cuscini ruvidi.

    Mentre le persone sotto raccoglievano i loro utensili e se ne andavano, i tre continuarono a guardare verso il melo, che era ora illuminato da una falce di luna. Erano stati testimoni di qualcosa che le loro giovani menti non potevano comprendere. Tremavano, ma non per il freddo.

    Il bambino in mezzo parlò senza girare la testa.

    «Chi di noi sarà il prossimo?».

    Primo giorno

    30 dicembre 2014

    Capitolo 1

    Susan Sullivan stava per incontrare la persona di cui aveva più paura al mondo.

    Una passeggiata, sì, una passeggiata le avrebbe fatto bene. Fuori, alla luce del giorno, lontano dalla sua casa così soffocante, lontano dal turbinio dei suoi pensieri. Si ficcò nelle orecchie gli auricolari dell’iPod, si calcò in testa un berretto di lana scuro, si strinse nel suo tweed marrone e affrontò la neve pungente.

    La sua mente correva. Chi stava prendendo in giro? Non poteva distrarsi, non poteva fuggire dall’incubo del suo passato, che la perseguitava ogni singolo minuto di ogni singola giornata e invadeva le sue notti come un pipistrello, nero e veloce, togliendole il fiato. Aveva provato a mettersi in contatto con un detective della stazione di polizia di Ragmullin, ma non aveva ricevuto alcuna risposta. Sarebbe stata la sua rete di sicurezza. Voleva scoprire la verità ad ogni costo, e quando aveva esaurito tutti i canali tradizionali, aveva deciso di fare da sola. Forse così sarebbe riuscita a esorcizzare i suoi demoni. Tremò. Camminava più veloce, scivolava, perdeva l’equilibrio, non le importava più nulla. Doveva sapere. Era giunto il momento.

    Con la testa bassa contro la furia del vento attraversava a fatica il paese, più veloce che poteva con il ghiaccio che rendeva infide le strade. Guardò in alto le guglie gemelle della cattedrale mentre entrava nel cancello di ferro battuto. Si fece il segno della croce, un riflesso meccanico. Qualcuno aveva gettato delle manciate di sale sugli scalini di cemento, sentiva lo scricchiolio sotto gli stivali. La neve diminuì e un basso sole invernale si affacciò dietro le nuvole scure. Aprì le grandi porte, pestò i piedi intorpiditi sul tappetino di gomma. Mentre l’eco delle porte che si chiudevano si spegneva pian piano, si incamminò nel silenzio.

    Si tolse gli auricolari e li lasciò penzolare sulle spalle. Sebbene avesse camminato solo mezz’ora, stava congelando. Il vento dell’est si era aperto un varco tra i vestiti e il suo misero strato di grasso corporeo non riusciva a proteggere le sue ossa di cinquantenne. Sfregandosi il viso, con il dito seguì il contorno degli occhi incavati e sbatté le palpebre per allontanare le lacrime. Cercò di mettere a fuoco nell’oscurità. Le candele sull’altare laterale gettavano lunghe ombre sui mosaici alle pareti. La debole luce del sole filtrava dalle vetrate in alto sopra la Via Crucis. Susan camminò lentamente attraverso la foschia color seppia, annusando l’aroma d’incenso nell’aria.

    Chinando la testa, si avvicinò furtivamente alla prima fila. Il banco di legno era un supplizio per le sue povere ginocchia. Si fece di nuovo il segno della croce, chiedendosi se avesse ancora un briciolo di fede dopo tutto quello che aveva fatto, tutto quello che aveva passato. Nel silenzio si sentì preda della solitudine. Pensò a quanto fosse ironico che lui avesse suggerito d’incontrarsi proprio nella cattedrale. Susan non aveva avuto nulla da obiettare, perché era convinta che sarebbe stata piena di gente a quell’ora. Un posto sicuro. E invece non c’era nessuno, il freddo aveva scoraggiato i fedeli.

    Una porta si aprì e si chiuse in un attimo, sollevando una folata di vento nella navata centrale. Susan sapeva che era lui. La paura la paralizzò. Non poteva guardarsi attorno. Si limitò a tenere lo sguardo dritto davanti a sé, verso la candela sull’altare, fino a che i contorni della fiamma iniziarono a tremolare.

    Passi lenti e sicuri echeggiavano nella navata. Il posto dietro di lei scricchiolò quando lui si inginocchiò. Aria fredda e nebbiosa la avvolse, riconobbe l’odore dell’uomo anche con tutto quell’incenso. Si alzò e si mise a sedere. Il respiro dell’uomo – una serie di sbuffi corti e acuti – era l’unico suono che riusciva a sentire. Percepiva la sua presenza con forza, anche se lui non l’aveva nemmeno sfiorata. Capì all’istante che era stato un errore. Lui non era venuto per rispondere alle sue domande. Non le avrebbe concesso il finale che desiderava ardentemente.

    «Avresti dovuto farti gli affari tuoi». La sua voce era un sussurro severo.

    Lei non riusciva a rispondere. Con il respiro spezzato sentiva il cuore che le batteva furioso rimbombando contro le costole. Serrò le dita a pugno, le nocche erano bianche sotto la pelle sottile. Avrebbe voluto correre, scappare lontano, ma le sue energie erano terminate e sapeva che era giunto il momento.

    Le lacrime brillavano agli angoli dei suoi occhi mentre la mano dell’uomo si stringeva intorno alla sua gola. Le dita ricoperte dai guanti tracciavano una linea dall’alto verso il basso sulla sua carne scoperta. Le mani di lei scattarono per prendere le sue, ma l’uomo le allontanò bruscamente. Le dita guantate trovarono il cavo dell’iPod e Susan sentì che glielo stava attorcigliando intorno al collo. Avvertì l’odore aspro del dopobarba e in quell’istante ebbe l’assoluta certezza che sarebbe morta senza mai scoprire la verità.

    Si divincolò sul duro banco di legno e cercò di spingerlo via, le sue mani tentavano freneticamente di dilaniare quelle dita coperte dai guanti, ma l’unico risultato che ottenne fu che il cavo le lacerò ancora più a fondo la pelle. Cercò di prendere fiato, ma si rese conto che non ci riusciva. Un liquido caldo le bruciò tra le gambe. Se l’era fatta addosso. L’uomo tirò ancora di più. Ormai senza forze, Susan lasciò cadere le braccia. Lui era troppo forte.

    Mentre la sua vita si spegneva sotto quella stretta soffocante, si ritrovò per assurdo ad accogliere con benevolenza il dolore fisico che scendeva sopra gli anni tormentati dalle sofferenze. L’oscurità discese su di lei, smorzando la fiamma della candela, appena la mano dell’uomo tirò uno strattone, poi un altro. Il suo corpo cedette e tutte le paure la abbandonarono.

    Durante quegli ultimi momenti di agonia, lasciò che le ombre la portassero in un posto di luce e benessere, raggiunse una pace che non aveva mai provato in vita sua. Piccole stelle le pizzicarono gli occhi, prima che l’oscurità inondasse il suo corpo morente.

    Le campane della cattedrale rintoccarono dodici volte. L’uomo lasciò la presa e spinse il corpo a terra. Un’altra folata fredda soffiò nella navata centrale quando se ne andò velocemente, in silenzio.

    Capitolo 2

    «Tredici», disse l’ispettore di polizia Lottie Parker.

    «Dodici», la corresse il sergente Mark Boyd.

    «No, sono tredici. Vedi la bottiglia di vodka dietro al Jack Daniel’s? È nel posto sbagliato».

    Lei contava le cose. Una perversione, Boyd la definiva così. Lottie la chiamava noia, invece. Ma sapeva che era un fatto che risaliva alla sua infanzia. Incapace di far fronte a un trauma che le aveva segnato la vita, era ricorsa a quel semplice mezzo di distrazione: contava per estraniarsi da cose e situazioni che non poteva comprendere. Ormai però era diventata solo un’abitudine.

    «Hai bisogno di un paio di occhiali», disse Boyd.

    «Trentaquattro», disse Lottie. «Mensola in basso».

    «Ci rinuncio», disse Boyd.

    «Sfigato», rise lei.

    Erano seduti al bancone del bar Danny, tra i pochi clienti dell’ora di pranzo. Le fiamme si alzarono con un ruggito nell’ampio camino dietro di loro, e diffusero un po’ di calore nell’ambiente. Lo chef era al buffet delle carni, e stava mescolando la salsa in un vassoio vicino alla specialità del giorno – roast beef rinsecchito. Lottie aveva ordinato un sandwich con pollo. Boyd l’aveva copiata. Un’esile ragazza italiana girata di schiena cincischiava fissando il piccolo tostapane in cui venivano abbrustolite le fette.

    «Ma perché ci mettono tanto a fare due panini? Stanno spennando i polli?», disse Boyd.

    «Mi stai facendo passare l’appetito», disse Lottie.

    «Anche se lo ritrovassi non ci sarebbe comunque nulla da mangiare», disse Boyd.

    Decorazioni natalizie dimenticate luccicavano sopra il bar, un poster attaccato con il nastro adesivo al muro pubblicizzava il gruppo del fine settimana, gli Aftermath. Lottie li aveva sentiti nominare dalla figlia sedicenne, Chloe. Un grande specchio ornato riportava la grande promozione della sera prima, scritta con il gessetto bianco: «TRE SHOT A DIECI EURO».

    «In questo istante darei dieci euro per uno shot solo», disse Lottie.

    Prima che Boyd potesse rispondere, il telefono di Lottie vibrò sul bancone. Una chiamata in arrivo, sul display lampeggiava il nome del sovrintendente Corrigan.

    «Guai in vista», disse Lottie.

    La piccola ragazza italiana si girò con i sandwich al pollo.

    Lottie e Boyd erano già andati via.

    «Chi mai poteva desiderare la morte di questa donna?», disse il sovrintendente Myles Corrigan ai detective fuori dalla cattedrale.

    Un assassino, pensò Lottie, anche se non era così folle da pronunciare quest’osservazione a voce alta. Era stanca. Eternamente stanca. Odiava il freddo, la faceva sentire letargica. Aveva bisogno di una lunga vacanza. Impossibile, era al verde. Dio, odiava il Natale e odiava persino di più il periodo cupo che lo seguiva.

    Lei e Boyd, ancora affamati, erano corsi sulla scena del crimine, la splendida cattedrale di Ragmullin risalente agli anni Trenta.

    Il sovrintendente Corrigan li aveva informati dei fatti sugli scalini ghiacciati. La stazione aveva ricevuto una chiamata, era stato trovato un corpo nella cattedrale. Lui era subito entrato in modalità uomo d’azione, delimitando la scena del crimine. Se fosse venuto fuori che si trattava effettivamente di un delitto, allontanarlo da quel caso sarebbe stato molto difficile, Lottie lo sapeva bene. In quanto ispettore della città di Ragmullin, la responsabile sarebbe dovuta essere lei, non Corrigan.

    Comunque per ora doveva mettere da parte le beghe interne alla stazione di polizia e concentrarsi sul lavoro da fare sul campo.

    Il suo sovrintendente vomitava istruzioni senza sosta. Lei si ficcò i capelli lunghi fino alle spalle nel cappuccio del giubbotto e si tirò su la cerniera senza entusiasmo. Guardò Mark Boyd alle spalle di Corrigan, lo beccò con un sorrisetto stampato sul volto e lo ignorò. Sperava non si trattasse di un omicidio. Probabilmente un senzatetto morto di ipotermia. Il freddo ultimamente era stato spietato, era ovvio che qualche sfortunato potesse rimanerne vittima. Aveva notato gli scatoloni di cartone e i sacchi a pelo arrotolati agli angoli dell’entrata dei negozi.

    Corrigan tacque. Il segno che dovevano mettersi al lavoro.

    Lottie si fece largo tra i gardaí, i membri della polizia irlandese, che si davano da fare all’ingresso, poi oltrepassò il secondo cordone posizionato nella navata centrale. Si chinò sotto il nastro e si avvicinò al corpo. Un odore di gas si alzava dalla donna con il tweed, incastrata tra l’inginocchiatoio e il sedile della prima fila. Notò il filo degli auricolari attorno al collo e una piccola pozzanghera sul pavimento.

    Lottie soffocò l’impulso di nascondere il corpo con una coperta. Per Dio! È una donna, non un oggetto, avrebbe voluto urlare. Chi è? Perché era qui? Per poco non si chinò per chiuderle gli occhi e cancellare quello sguardo fisso. Non era compito suo.

    Ferma nella fredda cattedrale, ora inondata di luci abbaglianti, ignorò Corrigan e fece tutte le chiamate necessarie per convocare immediatamente gli esperti della scientifica, dopo di che mise in sicurezza l’area.

    «Il medico legale sta arrivando», disse Corrigan. «Dovrebbe impiegarci solo trenta minuti, più o meno, dipende dal traffico. Vedremo cosa ne pensa».

    Lottie lo squadrò. Tutto felice, assaporava già la prospettiva di un bel caso di omicidio. Di sicuro il suo cervello stava improvvisando un discorso per l’inevitabile conferenza stampa. Ma questa era la sua indagine, e Corrigan non avrebbe dovuto nemmeno mettere piede sulla scena del crimine.

    Dietro l’altare, il poliziotto Gillian O’Donoghue era accanto a un prete che teneva le mani sulle spalle di una donna che tremava violentemente. Lottie superò i cancelli di ottone e si avvicinò decisa.

    «Buon pomeriggio. Sono l’ispettore Lottie Parker. Vi devo fare delle domande».

    La donna piagnucolava.

    «Deve farle proprio ora?», domandò il prete.

    Doveva avere qualche anno meno di lei, si disse Lottie. Lei ne avrebbe compiuti quarantaquattro a giugno, il prete poteva averne trentotto o trentanove. Il classico uomo di chiesa, con i pantaloni neri e il maglione di lana sopra la camicia con il collarino bianco rigido.

    «Non ci metterò molto», rispose Lottie. «Questo è il momento migliore per porre delle domande, quando gli eventi sono ancora freschi nella mente dei testimoni».

    «Capisco», disse il prete. «Ma siamo terribilmente scioccati, non penso che scoprirebbe niente di utile».

    Si alzò, tendendole la mano. «Padre Joe Burke. E lei è la signora Gavin, si occupa delle pulizie della cattedrale».

    La fermezza della sua stretta di mano la sorprese. Sentì il calore del palmo. Era alto. Aggiunse quella caratteristica al quadro iniziale che si era fatta di lui. Occhi di un blu intenso, che brillavano per il riflesso delle candele ardenti.

    «La signora Gavin ha trovato il corpo», disse.

    Lottie aprì il taccuino che aveva preso dalla tasca interna del giubbotto. Normalmente usava il cellulare per gli appunti, ma in quel luogo sacro non le sembrava appropriato. La donna delle pulizie alzò gli occhi al cielo e iniziò a piangere.

    «Ssh, ssh». Padre Burke la confortò come se fosse sua figlia: si sedette e massaggiò dolcemente le spalle della signora Gavin. «L’ispettore è molto cortese, vuole solo che le spieghi nei dettagli cos’è successo».

    Cortese?, pensò Lottie. Una definizione che non avrebbe mai utilizzato per descrivere se stessa. Si accomodò di fronte ai due e si girò, per quanto il giubbotto imbottito le rendesse difficili i movimenti. I jeans le stavano segando la carne. Gesù, pensò, devo smetterla di mangiare schifezze.

    Studiando il volto della donna delle pulizie, Lottie si disse che doveva avere circa sessant’anni. Il suo viso era bianco dallo spavento, un pallore che sottolineava ogni linea e ruga.

    «Signora Gavin, può raccontarmi tutto dal momento in cui è entrata nella cattedrale oggi, per favore?».

    Una domanda abbastanza semplice, pensò Lottie. Non per la signora Gavin, però, che accolse la sua richiesta scoppiando a piangere.

    Lottie notò lo sguardo di padre Burke. Sembrava quasi che la compatisse per l’ingrato compito che le era toccato. Strappare qualche informazione alla signora Gavin in quel momento era una sfida ardua. Improvvisamente però la donna sconvolta cominciò a parlare, come se volesse dimostrare al prete e all’ispettore che si sbagliavano. La sua voce era bassa e tremante.

    «Sono entrata in servizio alle dodici per pulire dopo la messa delle dieci. Normalmente inizio da questo lato», disse lei, indicando alla sua destra, «ma pensavo di aver visto un cappotto sul pavimento, davanti alla navata nel mezzo. Così mi sono detta che era meglio partire da lì. Quando ho scoperto che non era solo un cappotto… Oh santa madre di Dio…».

    Si fece il segno della croce tre volte e tentò di asciugarsi le lacrime con un fazzoletto stropicciato. La santa madre di Dio non aiuterà nessuno di noi, pensò Lottie.

    «Ha toccato il corpo?»

    «Dio no, no!», disse la signora Gavin. «I suoi occhi erano aperti e quella… quella cosa attorno al suo collo. Ho già visto delle salme prima d’ora ma mai niente del genere. Per Gesù – scusi padre –, ho capito subito che era morta».

    «Cosa ha fatto dopo?»

    «Mi sono messa a urlare. Ho lasciato cadere lo spazzolone e il secchio e sono andata di corsa verso la sacrestia. Sono andata a sbattere contro padre Burke».

    «Io ho sentito le urla e sono venuto a vedere cosa stava succedendo», disse lui.

    «Nessuno di voi ha visto qualcun altro in giro?»

    «Non un’anima», rispose padre Burke.

    Nuove lacrime rigarono le guance della signora Gavin.

    «Vedo che è a dir poco sconvolta, signora», disse Lottie. «L’agente O’Donoghue le prenderà le generalità e la farà accompagnare a casa. La contatteremo più tardi. Provi a riposare un poco».

    «Mi occuperò io di lei, ispettore», disse padre Burke.

    «Veramente vorrei scambiare con lei due parole».

    «Vivo nella canonica dietro la cattedrale. Mi trova lì in qualsiasi momento».

    La donna delle pulizie appoggiò la testa contro la spalla del prete.

    «Devo andare con la signora Gavin», ribadì lui.

    «Va bene». Lottie cedette: la donna era distrutta, ogni secondo per lei era un’agonia. «Mi metterò in contatto con lei in seguito».

    Padre Burke annuì, prese la signora Gavin per il braccio e la accompagnò lungo il pavimento di marmo verso una porta dietro l’altare. O’Donoghue li seguì fuori.

    Una folata di aria gelida entrò nella cattedrale insieme alla scientifica. Il sovrintendente Corrigan corse ad accoglierli. Jim McGlynn, il capo della scientifica, gli offrì una stretta di mano priva di qualsiasi traccia di calore, ignorò le sue chiacchiere e iniziò immediatamente a dare direttive ai suoi.

    Lottie li osservò per qualche minuto, poi fece il giro della panca, avvicinandosi al corpo per quanto le permetteva McGlynn.

    «Una donna di mezza età, a quanto pare. Ben coperta contro il freddo», disse Lottie a Boyd, che le stava alle costole come un cane da guardia. Tornò indietro verso l’altare, un po’ per avere una vista migliore, ma principalmente per staccarsi dal collega.

    «Dunque l’ipotermia è da escludere», disse lui senza rivolgersi a nessuno in particolare. Del resto, stava solo sottolineando l’ovvio.

    Lottie tremò mentre la quiete della cattedrale veniva incrinata dalle attività sempre più ferventi degli agenti. Continuò a osservare la squadra al lavoro.

    «Questa cattedrale è un incubo», disse Jim McGlynn. «Solo Dio sa quante persone vengono qui ogni giorno, e ognuno lascia un pezzo di se stesso».

    «Il killer ha scelto il luogo del delitto con cura», disse il sovrintendente Corrigan. Nessuno gli rispose.

    Un ticchettio di tacchi alti lungo la navata centrale costrinse Lottie a spostare lo sguardo. La donna minuta che si precipitava verso di loro era infagottata in un piumino nero. Fece tintinnare le chiavi della macchina in mano e poi, come se si fosse ricordata dov’era solo in quel momento, le fece cadere nella borsa di cuoio nera che portava al braccio. Diede la mano al sovrintendente quando lui si presentò.

    «Sono il medico legale Jane Dore». Tono secco, professionale.

    «Conosce l’ispettore Lottie Parker?», disse Corrigan.

    «Sì. Cercherò di fare il prima possibile». Il medico legale si rivolse a Lottie: «Sono ansiosa di iniziare l’autopsia. Non appena mi sarà possibile stilare un rapporto, potrete entrare in azione».

    Lottie era impressionata: quella donna sapeva bene come si gestiva uno come Corrigan, lo aveva messo a tacere senza dargli il tempo di attaccare con i suoi sermoni. Jane Dore non arrivava al metro e sessanta, e sembrava così piccola vicino a Lottie, che senza tacchi era un metro e settantacinque. Quel giorno l’ispettore indossava un paio di comodi ugg, con i jeans ficcati dentro gli stivaletti senza alcuna cura.

    Dopo aver messo i guanti, indossò una tuta di teflon bianca e si coprì le scarpe. Poi la patologa procedette con le analisi preliminari. Portò le dita sotto il collo della donna, esaminando con attenzione il cavo incastrato nella gola, le alzò la testa e si concentrò sugli occhi, la bocca e la testa. La scientifica girò il corpo di lato e subito un fetore si alzò nell’aria. Lottie realizzò che la pozza congelata sul pavimento era composta da urina ed escrementi. La vittima se l’era fatta addosso negli ultimi secondi della sua vita.

    «Qualche idea sull’orario presunto della morte?», chiese in tono calmo Lottie.

    «Da una prima analisi direi che è morta non più di due ore fa. Quando avrò completato l’autopsia potrò confermarlo». Jane Dore si tolse i piccoli guanti di lattice. «Jim, quando hai terminato, il corpo può essere portato alla camera mortuaria di Tullamore».

    Non era certo la prima volta che Lottie rimpiangeva che l’Health Services Executive avesse spostato la camera mortuaria all’ospedale di Tullamore, che distava mezz’ora da lì. Un altro brutto colpo per Ragmullin.

    «Non appena potrà dichiarare la causa di morte mi informi immediatamente, per favore», disse Corrigan.

    Lottie si sforzò di non sbuffare. Era ovvio che la vittima fosse stata strangolata. Il medico legale doveva solo classificare ufficialmente la morte come omicidio. Non era possibile che quella donna si fosse strangolata accidentalmente, no?

    Jane Dore buttò la tuta di teflon in una borsa di carta e lasciò la scena del crimine veloce com’era arrivata. L’eco dei suoi tacchi alti risuonava nella navata.

    «Torno in ufficio», disse Corrigan. «Ispettore Parker, raduna subito la squadra per il caso». Marciò lungo il pavimento di marmo, nella scia del medico legale.

    La scientifica lavorò per un’altra ora attorno alla vittima, prima di spostarsi all’esterno. Il corpo era stato messo in un sacco per cadaveri ben chiuso e posizionato su una barella. Le operazioni vennero svolte con tutta la dignità che si poteva conservare dovendo maneggiare una grossa busta di plastica. La porta di legno cigolò quando uscirono. L’ambulanza partì inutilmente a sirene spiegate. Tanto il paziente era morto e non aveva fretta di andare da nessuna parte.

    Capitolo 3

    Lottie si tirò su il cappuccio e se lo strinse bene sulle orecchie. Sugli scalini innevati della cattedrale, si lasciò alle spalle il ronzio delle attività della polizia. Ogni nicchia, ogni singolo millimetro di marmo sarebbero stati ispezionati.

    Respirò l’aria fredda e scrutò il cielo. I primi fiocchi di neve si adagiarono sul suo naso e si sciolsero. Ragmullin giaceva immobile oltre il cancello di ferro battuto, ora sigillato dai nastri blu e bianchi della scena del crimine. Come lei, quella cittadina industriale una volta era florida e ora faticava a svegliarsi giorno dopo giorno. Gli abitanti facevano quel che potevano nelle ore di luce, fino a quando il buio oscurava le finestre e andavano a riposarsi fino all’alba del giorno seguente, banale come quello che l’aveva preceduto. A Lottie piaceva l’anonimato che offriva, ma sapeva anche che il suo paese, come molti altri, aveva i suoi segreti sepolti in profondità.

    La vita a Ragmullin era morta insieme alla crescita economica. I giovani fuggivano sulle coste australiane e canadesi per raggiungere quelli che erano stati abbastanza fortunati da filarsela prima. I genitori si lamentavano di non avere abbastanza soldi per le necessità giornaliere, senza parlare del sogno di un iPhone per Natale. Be’, Natale era passato e non se ne sarebbe parlato per un altro anno, pensò Lottie. Grazie al cielo!

    Il rumore costante del traffico della circonvallazione faceva tremare il terreno, sebbene fosse lontana due chilometri. Peccato per i negozianti, che non potevano contare su un viavai di clienti. Guardò gli alberi che si incurvavano sotto il peso dei rami pieni di neve e analizzò il terreno di fronte a lei. L’istinto le diceva che non avrebbe trovato alcuna prova. La terra era congelata e la neve soffice s’induriva appena cadeva. Le impronte dei fedeli che erano andati a messa la mattina erano ricoperte sotto un altro strato di neve e ghiaccio. I gardaí impugnavano delle pinze per il ghiaccio, frugando nel terreno per cercare delle prove. Augurò loro buona fortuna.

    «Quattordici», disse Boyd.

    Il fumo della sigaretta investì Lottie non appena il suo collega le si avvicinò. Di nuovo. Lottie si allontanò, e Boyd invase lo spazio che lei aveva appena liberato: erano così attaccati che le maniche dei cappotti si sfioravano. Boyd era alto e magro. Ha un’aria famelica, aveva detto una volta la madre di Lottie, storcendo il naso. Occhi castani screziati di nocciola illuminavano un viso interessante, forte e dalla pelle chiara, con le orecchie un po’ sporgenti. I capelli corti si stavano ingrigendo velocemente. Aveva quarantacinque anni, indossava una camicia bianca immacolata e un abito grigio sotto il pesante giubbotto con il cappuccio.

    «Quattordici cosa?», chiese lei.

    «Stazioni della Via Crucis», disse Boyd. «Pensavo che le avessi contate, così ci sono arrivato prima io».

    «Perché non ti fai una vita?», chiese Lottie.

    C’era stato qualcosa tra loro. Fece una smorfia quando le tornò in mente quel ricordo alcolico, distillato dal passare del tempo ma ancora presente ai margini della sua coscienza. Altre cose si erano messe in mezzo – lei aveva ottenuto il posto da ispettore che Boyd desiderava. Per la maggior parte del tempo lui riusciva a farsene una ragione, ma Lottie sapeva che avrebbe apprezzato molto l’opportunità di guidare l’indagine. Chi se ne frega, pensò. Era felice della promozione, perché adesso non avrebbe più dovuto fare la pendolare per sessanta chilometri ogni giorno fino ad Athlone. Gli anni passati laggiù erano stati una seccatura, anche se forse tornare con Boyd a Ragmullin poteva rivelarsi una seccatura ancora più grande. Ma tra i pro c’era anche che non doveva dipendere più da sua madre per tenere d’occhio i suoi figli. Era una donna così invadente…

    Boyd soffiava anelli di fumo nell’aria come un ragazzino e lei si voltò per non guardare più il sorriso che si allargava sotto quel naso inquisitore.

    «Hai iniziato tu», disse lui. Con un ultimo tiro di sigaretta scese le scale e si diresse verso la stazione di polizia dall’altra parte della strada.

    Lottie rise, malgrado tutto, e si incamminò con attenzione. Non voleva finire con il culo per terra di fronte a metà degli agenti della città. Seguì il suo collega alto e allampanato.

    Alla reception c’erano poche persone in fila. Mentre l’agente di turno cercava di mantenere l’ordine, Lottie salì velocemente le scale verso l’ufficio.

    I telefoni squillavano rabbiosi. Si dice che le buone notizie viaggino veloci, ma di certo le cattive viaggiano alla velocità della luce.

    Annusando l’aria stantia dell’ufficio, si guardò attorno. La sua scrivania era un disastro, quella di Boyd in perfetto ordine come la cucina di uno chef in TV. Non c’era nemmeno un briciolo di farina, cioè, non c’era nemmeno un raccoglitore, una penna in disordine. Chiari segni di un disturbo ossessivo compulsivo.

    «Maniaco», mormorò Lottie sottovoce.

    A causa dei lavori di ristrutturazione, condivideva l’ufficio con altri tre detective – Mark Boyd, Maria Lynch e Larry Kirby. Telefoni fissi, cellulari, fotocopiatrici, rumorose stufe e l’infinita processione di poliziotti che aveva bisogno di usare il bagno: la stanza aveva una perenne aria di caos. Le mancavano i suoi spazi, il silenzio che le permetteva di pensare. Non vedeva l’ora che i lavori finissero.

    Se non altro non ci si annoia, pensò mentre si sedeva alla sua scrivania. Come se quello che era successo alla cattedrale avesse sollevato un velo di fatica e di noia, lasciando uomini e donne pronti all’azione. Bene.

    «Scopri chi è», disse Lottie a Boyd.

    «La vic?»

    «No, il papa. Certo, la vittima». Lo odiava quando parlava come se fosse uscito da una puntata di CSI.

    Boyd sorrise tra sé e sé. Aveva un asso nella manica, era del tutto evidente.

    «Immagino che tu sappia già di chi si tratta». Spostò le cartelle da un lato all’altro della scrivania, cercando la tastiera.

    «Susan Sullivan. Aveva cinquantuno anni. Nubile. Viveva da sola a Parkgreen. Dieci minuti di macchina da qui a seconda del traffico, circa mezz’ora a piedi. Ha lavorato al consiglio della contea negli ultimi due anni, nel Dipartimento della pianificazione. Senior Executive Officer, qualsiasi cosa significhi. Si è trasferita in questo posto da Dublino».

    «Come hai fatto a scoprirlo così velocemente?»

    «McGlynn ha trovato il suo nome scritto con il bianchetto sul retro dell’iPod».

    «E quindi?»

    «L’ho cercato su Google. Ho preso le informazioni sul sito del comune e ho controllato il suo indirizzo sul registro degli elettori».

    «Aveva un cellulare?». Lottie continuava a cercare sulla scrivania. Le avrebbero fatto comodo una mappa e una bussola in quella confusione.

    «No», disse Boyd.

    «Spedisci Kirby e Lynch a ispezionare la casa. Una delle nostre priorità è cercare il suo cellulare e qualcuno che possa verificare i suoi movimenti oggi». Trovò la tastiera sopra al cestino ai suoi piedi.

    «Va bene», disse lui.

    «Nessun parente stretto?»

    «Non risulta sposata. Devo scavare più a fondo per scoprire se i suoi genitori, o qualche altro parente, sono vivi».

    Fece l’accesso al computer. Si sentiva eccitata, e allo stesso tempo malediceva in silenzio il turbine di attività che l’investigazione avrebbe generato. Avevano già fin troppo lavoro – casi che si trascinavano, i problemi con la comunità nomade – e l’indomani, a capodanno, ci sarebbero stati i soliti guai a tarda notte.

    Pensò alla sua famiglia. I suoi tre ragazzi a casa da soli. Ancora. Forse doveva chiamarli per essere sicura che stessero bene. Merda, doveva fare la spesa. Se l’annotò nell’app del cellulare. Stava morendo di fame. Rovistando nel suo cassetto straripante, trovò un pacchetto di biscotti scaduti e li offrì a Boyd, che rifiutò. Ne sgranocchiò uno e trascrisse il suo interrogatorio con la signora Gavin e padre Burke.

    «Devi per forza mangiare con la bocca aperta?», chiese Boyd.

    «Boyd?», lo chiamò Lottie.

    «Che c’è?»

    «Sta’ zitto!».

    Si ficcò un altro biscotto in bocca e masticò rumorosamente.

    «Per l’amor di Dio», disse Boyd.

    «Ispettore Parker! Nel mio ufficio».

    Lottie involontariamente sobbalzò non appena la voce tonante del sovrintendente Corrigan la investì. Perfino Boyd alzò lo sguardo quando la porta sbatté, facendo vibrare la fotocopiatrice.

    «Che diavolo…?».

    Lottie si lisciò la camicia, tirò giù la manica sopra il polsino della canotta termica e si spazzolò i jeans pieni di briciole. Con un colpetto si mise una ciocca ribelle dietro l’orecchio e seguì il suo capo in una corsa a ostacoli tra scale e barattoli di vernice. Quelli della sicurezza sul lavoro si sarebbero messi le mani nei capelli, ma in realtà ben pochi si lamentavano della situazione. Sempre meglio degli uffici di prima.

    Si chiuse la porta dietro alle spalle. L’ufficio del sovrintendente era stato ristrutturato per primo. Annusò l’odore di mobili nuovi e vernice fresca.

    «Siediti», le ordinò.

    Guardò Corrigan sistemarsi alla sua scrivania, accarezzarsi il naso arrossato da bevitore. Aveva passato la cinquantina, il suo pancione era schiacciato contro il legno. Se lo ricordava snello e in forma, ai tempi in cui tormentava chiunque gli passasse a tiro con le sue sparate a favore di una vita sana. Poi era stato travolto dalla vita vera. Si piegò per firmare un modulo e lei si vide riflessa sulla sua testa calva.

    «Che sta succedendo là fuori?», abbaiò.

    Sei tu il capo, dovresti saperlo, pensò Lottie. Possibile che quell’uomo fosse fisicamente impossibilitato a parlare in un tono normale? Forse quel rimbombo assordante era una caratteristica inclusa nella carica che occupava.

    «Non capisco, signore».

    Quanto le sarebbe piaciuto avere ancora il suo giubbotto. Avrebbe seppellito il mento nell’imbottitura.

    «Non capisco, signore», la imitò lui. «Tu e quel maledetto Boyd. Non potete comportarvi in modo civile per cinque minuti? Questa diventerà presto un’indagine per un caso di omicidio e voi due litigate come due cavolo di bambini di cinque anni».

    Non hai idea di come stanno le cose. Corrigan sarebbe rimasto scioccato se avesse saputo la verità?

    «Pensavo che il nostro comportamento fosse molto civile».

    «Lascia perdere la faccenda e vai avanti con il lavoro. Cosa abbiamo fino ad ora?»

    «Abbiamo individuato il nome della vittima, l’indirizzo e il posto di lavoro. Stiamo controllando se ha dei parenti», disse Lottie.

    «E?»

    «Lavora presso il consiglio della contea. I detective Kirby e Lynch stanno recintando la sua casa, fino all’arrivo della scientifica».

    Il sovrintendente continuava a guardarla.

    Lei sospirò.

    «Questo è quanto, signore. Appena avrò organizzato una sala operativa, andrò agli uffici del comune per cercare di fare un quadro completo della situazione».

    «Non voglio nessun maledetto quadro», ruggì. «Voglio la soluzione di questo caso. Velocemente. Devo fare un’intervista tra un’ora con il maledetto Cathal Moroney della RTE. E tu vuoi dipingermi un cavolo di quadro!».

    Senza abbassare lo sguardo, Lottie mascherò le sue vere emozioni con aria impassibile, un’espressione che aveva perfezionato in venticinque anni di polizia.

    «Metti in piedi la sala operativa, riunisci la tua squadra, assegna qualcuno alle scartoffie e mandami via mail i dettagli. Organizza una riunione per domattina, parteciperò anch’io».

    «Sei del mattino?».

    Lui annuì. «E quando scopri qualcosa, fammelo sapere per primo. Avanti, ispettore, dacci dentro».

    Lei scattò.

    Un’ora dopo Lottie era pienamente soddisfatta, tutti sapevano cosa dovevano fare. Alcuni agenti iniziarono le indagini porta a porta. Progressi. Era tempo di scoprire di più a proposito di Susan Sullivan.

    Uscì sotto la tempesta di neve.

    Capitolo 4

    Gli uffici del consiglio della contea, ospitati in un edificio all’avanguardia nel centro di Ragmullin, erano a cinque minuti a piedi dalla stazione di polizia. Lottie ne impiegò dieci, la strada era tutta ghiacciata.

    Analizzò la grande costruzione di vetro. Era come un acquario mostruoso con una moltitudine di pesci dentro. Scrutò i tre piani, riusciva a vedere le persone alle loro scrivanie e altre che camminavano su e giù per i corridoi, galleggiando nella loro boccia di vetro. Ecco cosa vuol dire il governo quando parla di trasparenza nel settore pubblico. Attraversò le porte

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