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Il cielo in una stanza
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E-book226 pagine3 ore

Il cielo in una stanza

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Info su questo ebook

A volte le storie che non riusciamo a raccontare, sono proprio le nostre, ma se una storia non viene raccontata diventa qualcos'altro, una storia dimenticata. La vicenda inizia in un piccolissimo paese delle Puglie (Palagianello) con le sue usanze, le sue tradizioni e i suoi detti proverbiali.2° classificato Premio letterario "Canti  di...Versi" sezione libro edito - seconda edizione 2022 Menzione di merito  Premio letterario internazionale  "F. Dostoevskij" - seconda edizione 2022
LinguaItaliano
Data di uscita13 set 2022
ISBN9791220347167
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    Il cielo in una stanza - Alberto Galante

    Capitolo primo

    Ero in attesa di essere ricevuto e guardavo continuamente l’orario sul mio cellulare. Chiesi alla segretaria se il notaio fosse già arrivato. Lei mi confermò che oggi per sopraggiunti impegni non sarebbe rientrato.

    «Dica pure a me. Di cosa ha bisogno?» aggiunse con tono gentile e servizievole.

    «Ecco le ho portato i documenti che servivano per scrivere l’atto di trasferimento della proprietà. Mi chiamo Torquato e sono uno dei tre venditori. Gli altri due sono mio fratello Lino e mia sorella Ivana».

    «Ah sì, ricordo di avere parlato con il geometra di Palagianello. Servivano necessariamente l’atto di successione sia di vostra madre che di vostro padre».

    Con un gesto di disapprovazione obiettai: «Guardi che sia mia madre che mio padre non avevano redatto alcun testamento e noi eredi abbiamo depositato le due denunce di successione presso l’Agenzia delle Entrate. Abbiamo semmai il precedente atto testamentario con il quale mio nonno Torquato ha disposto che i suoi beni andassero alle sue cinque figlie, mia madre compresa, e gli altri atti successivi di ampliamento della costruzione della casa e di ricostruzione della facciata».

    Glieli consegnai e lei fece le fotocopie. Mi riconsegnò così gli originali.

    «Arrivederci allora… Mi farà sapere lei il giorno preciso della stipula» dissi.

    «Adesso il quadro è completo e non ci vorrà molto» rispose lei.

    Passarono alcuni giorni e della data definitiva dell’incontro tra le parti della futura compravendita nulla veniva confermato. Richiamai lo studio del notaio Marasco di Palagiano e la segretaria mi riferì che ci voleva ancora altro tempo.

    Io allora ripartii per Gallarate per motivi di lavoro, pensando ai miei obblighi nella scuola superiore dove insegnavo. Sarei ritornato così il 1° dicembre del 2020. Mia sorella Ivana nel frattempo comunicava che difficilmente sarebbe stata presente alla firma dell’atto e incaricava mio fratello, consegnando a lui la procura notarile.

    Il giorno concordato si presentò l’acquirente e, nell’attesa, scambiammo alcune opinioni sull’attuale situazione del Governo e sulle decisioni politiche prese in tema di COVID-19, per poi finire a discutere della crisi economica e delle persone di Palagianello che avevano contratto il virus.

    «Prego, entrate» fece segno la segretaria.

    Entrammo io, mio fratello Lino e l’acquirente.

    Ci sedemmo e il notaio cominciò a leggere l’atto appena redatto al computer. Ci pose alcune domande per la verifica sulla descrizione dei fatti. Così al termine della lettura, raggiungemmo l’accordo finale, firmammo e l’acquirente ci consegnò i tre assegni a ognuno di noi intestati. Noi, invece, consegnavamo le chiavi dell’abitazione.

    Prima di congedarci e uscire dallo studio mi rivolsi all’acquirente e chiesi cosa avesse intenzione di fare della casa. Lui rispose: «Per il momento non lo so. Forse l’abbatterò e ci costruirò la casa per i miei figli».

    Ci salutammo e con rammarico conclusi: «Eh già, lì se ne va un pezzo della nostra vita. Pensate che la casa era stata costruita da mio nonno nel 1920. Mia madre l’aveva ereditata e noi tre figli ci abbiamo vissuto. Io, in particolare, dopo il matrimonio, sono quello che l’ha lasciata per ultimo».

    Io e mio fratello uscimmo in fretta dallo studio. Lino si accinse a ritornare alle proprie abitudini quotidiane in un paese a un centinaio di chilometri, mentre io rimasi in auto, ancora per un po', a pensare. Non era la prima volta che mi accadeva. Cercavo spesso di riavvolgere il nastro della mia vita, ma non sempre mi riusciva facilmente. Adesso, invece, mi sentivo sempre più attento a ricordare i particolari.

    Mi capitava da un po' di tempo a questa parte di fermarmi a pensare e a riflettere, senza riuscire a governare un viaggio nella mia mente e, lasciandomi trascinare dalla memoria verso un turbinio di ricordi più o meno belli, finalmente mi ritrovavo a ripercorrere i momenti della mia esistenza e, mettendo a fuoco le immagini, mi ritrovavo proiettato in un paesello del Sud.

    Torquato è il mio nome, come già sapete, e sono nato in un paese della provincia di Taranto: Palagianello. É una piccolissima località, che fino al 1908 era considerata una frazione del più esteso comune di Palagiano.

    Si trova ai piedi di una collina e nella parte alta si erge maestoso un ampio castello appartenuto da ultimo al conte Caracciolo-Stella, fino alla seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso. Quindi alla sua morte venne ceduto ai privati, fu abbandonato per molti anni, fino a quando il comune se ne appropriò.

    Poco distante dal castello s’incentrava la parte più antica del paese con il piazzale a forma di cerchio dedicato ad Alcide de Gasperi, con le antiche abitazioni del primo nucleo cittadino e con al centro una piccola chiesetta risalente al XV secolo, leggermente sopraelevata e dedicata a San Pietro Apostolo, dove, anche se non riusciva a contenere tutti i fedeli, ogni domenica veniva celebrata la messa e dove, ogni anno, sul sagrato, veniva concelebrata all’aperto, dal vescovo della diocesi di Castellaneta, la messa del lunedì dell’Angelo, cui era abbinata la festa patronale in onore della Madonna delle Grazie.

    La parte del borgo antico si diramava con le sue viuzze costeggiando il castello, fino a raggiungere dei caseggiati prospicienti una gravina e, discendendo pochi scalini, vi erano anche le case grotte tipo Matera in muratura con la calce bianca.

    Dietro il castello vi era un percorso che portava in discesa dentro la gravina e verso il Santuario, la chiesa più antica del paese, scavata nella parete rocciosa risalente al XVI secolo che, lasciata nell’incuria e dichiarata poi pericolante, crollò la notte del Natale del 1972 per le infiltrazioni piovane. In questa antica struttura alloggiava una statua lignea della Madonna delle Grazie, che dava inizio alla processione del lunedì Santo. A seguito del crollo, in attesa della nuova ricostruzione avvenuta nel 2000, la statua era stata deposta nella cappella Caracciolo, cioè in un’ala del castello, al piano terra, e per entrarvi occorreva percorrere un ponticello in muratura.

    La parte nuova del paese era quella costruita della linea ferroviaria, che divideva in due l’abitato. Era dunque la zona meridionale del nuovo agglomerato urbano, cioè quella denominata come rione croci. Quando la gente voleva sapere dove abitavo aggiungeva: «Abbasc o sus li cruscee)?» ovvero «Sotto o sopra le croci?».

    La via principale era quella denominata negli anni ’40 come la via del Commercio dall’allora guida dell’amministrazione comunale. Da ogni angolo si estendevano come un reticolo tutte le vie secondarie del rione Croci. I passanti entravano in paese provenienti da Palagiano o da Castellaneta e, sempre diritto, giungevano sulla linea ferroviaria. Proseguivano, ancora sempre diritto, nella parte vecchia di corso Repubblica dove ci si avvicinava alla Porta Grande, sormontata dalla Torre dell’orologio risalente al XVI secolo che poneva la scritta di mussoliniana memoria: Noi tireremo diritto. Mai frase fu più azzeccata, perché dopo aver percorso l’arco del torrione si giungeva al castello e ancora continuando vi era la via del Precipizio che portava giù, dentro la gravina. Io e i miei amici giovincelli divertiti dicevamo: «Ecco dove andremo a finire, se continuiamo a camminare».

    Difatti, nei primi anni ’70 vi era stata posta sin dall’inizio sulla via di accesso verso il burrone una porta con una chiusura in legno. Ma noi da piccoli, di nascosto, approfittando di un reticolato dismesso, ci andavamo, affrontando il pericolo della caduta dei massi scoscesi e notavamo che vi erano spesso i depositi di rifiuti organici delle capre.

    Scendevamo verso il letto del torrente e proseguivamo fino a raggiungere la parete opposta della gravina per raggiungere la folta pineta.

    L’orologio del paese faceva sentire i suoi rintocchi ogni mezz’ora e per un certo numero di volte quando richiamava le ore piene. La gente così si accorgeva che il tempo passava lentamente ascoltando con attenzione il suono della campana. A mezzogiorno e alle quattro e mezza del pomeriggio si sentiva anche la sirena, che era funzionante sin dai tempi del fascismo, e che ancora oggi riecheggia nello stesso identico modo.

    Il paese pullulava di gente sin dal primo mattino. Si parlava a voce alta e io, da bambino, quando aprivo il finestrone che volgeva sulla strada principale, mi affacciavo anche dal balcone per ascoltare tutti i discorsi dei passanti. C’era, poco distante, il mercato ortofrutticolo con la persona che urlava richiamando l’attenzione dei passanti per fare pubblicità alla sua frutta e verdura, la macelleria di fronte, il bar, i negozi di vario tipo. E poi tanti saluti e il fragore di tante risate.

    Durante la giornata vi era un signore, ormai piuttosto avanti negli anni, che nella propria vita esercitava uno strano mestiere: era un banditore. Con il viso serio e ieratico passeggiava a passo lento e sicuro per le vie del paese, si fermava all’improvviso e a voce alta quasi urlando, scandendo bene le parole nel dialetto locale, faceva un appello che tradotto in italiano era del seguente tenore: «Si informano i compaesani che a mezzanotte nel paese ci sarà la disinfestazione, il comune avverte che dovete chiudere le finestre ed è vietato uscire dalle proprie case fino alle quattro e mezza del mattino».

    L’operatore, sempre incaricato dal comune, in occasione della festa patronale della Madonna delle Grazie dava indicazione anche delle vie che avrebbe percorso la processione e invitava a lasciare libero il passaggio durante la manifestazione. Nessun abitante del paese lo ringraziava né si fermava per dargli parola, mentre lui continuava solitario a svolgere il proprio lavoro. Era una modalità per far raggiungere tra la gente il passaparola, ed era il mezzo più efficace per informare delle iniziative comunali in sostituzione del manifesto affisso, data l’ignoranza della gente che negli anni ’60 era ancora dilagante.

    Mia madre Luciana diceva spesso: «Voi non dovete essere come gli altri, non dovete mai parlare il dialetto, neanche qui a casa vostra».

    Così accadeva che i miei genitori, che comunicavano nel dialetto locale, preferivano che noi rispondessimo alle loro domande e a quelle dei concittadini sempre in italiano. Forse il motivo era quello che mia madre non voleva essere da meno dinanzi alle proprie sorelle che avevano sposato dei cittadini tarantini i cui figli quasi maggiorenni parlavano correttamente l’italiano. Difatti, correva spesso il detto tra i tarantini che noi dei paesi di provincia, quando ci recavamo in città per stabilire contatti o per fissare la propria permanenza, ci sforzavamo d’imitarli nei modi di dire e nelle inflessioni del linguaggio al punto da venire additati come i cafoni di città.

    La nostra casa era sulla via del Commercio. Mio nonno, che era stato un imprenditore edile, l’aveva costruita quando quella zona era ancora isolata, cioè in aperta campagna. Poi, nel tempo vi era stata inaugurata la via del Commercio, che era diventata una delle vie principali del paese. Il nonno l’aveva costruita a modo suo, subito dopo essere rientrato dalla Prima guerra mondiale. Da quell’esperienza aveva portato con sé un unico ricordo: una piccola botola di guerra che poteva contenere l’essenziale per sopravvivere al grande freddo delle montagne e i suoi pensieri custoditi in una piccolissima agenda.

    Nella sua casa, al posto delle travi, il nonno aveva pensato di porre i binari della nostra stazione ferroviaria e la casa non aveva mai subito delle profonde ristrutturazioni fino ad oggi. Le volte erano alte e l’area di sopra, cioè la terrazza, veniva utilizzata oltre che per stendere i panni, anche per fare delle ottime fotografie con tutta la famiglia: il nonno, la nonna e le sue cinque figlie.

    Mia madre era l’ultima e non si occupava mai delle faccende di casa. Piuttosto ci pensavano le altre. Andava soltanto a fare spesa e lì si incrociarono gli sguardi furtivi di entrambi i miei genitori.

    La bellezza del paese stava nella vita che si svolgeva ordinatamente e con un senso di appartenenza collettiva. Tutti sapevano tutto di tutti. Se giungeva un forestiero, veniva subito notato e da ogni angolo della strada ci si chiedeva: «Ma chi è? Perché è qui? Cosa vuole?». La gente si avvicinava e, con fare rispettoso, lo salutava e cominciava a fare le proprie indagini, che poi dovevano essere concluse come passatempo per il parlare quotidiano. Non sfuggiva nulla e tutto era sotto controllo. Anche le vicende sulle nascite dei bimbi e quelle sulle morti.

    Difatti, appena io nacqui, già si sapeva in paese che, dopo il primo figlio maschio Lino, mia madre, di poco già alla sua seconda gravidanza, avrebbe preferito una femmina, e che alla nascita, avvenuta undici mesi dopo dalla prima, non era stata molto contenta. Avrebbe poi ritentato. Circa sette anni dopo, finalmente nacque mia sorella Ivana.

    Ma prima del suo arrivo, mia madre riversò su di me il suo forte desiderio assieme a tutte le attenzioni: mi faceva crescere i capelli fino a farli diventare troppo lunghi per un bimbo della mia età.

    Lei diceva che erano alla moda, perché all’epoca, negli anni ’60 del secolo scorso, impazzavano i Beatles. Intanto le persone che venivano a visitarmi mi scambiavano per una femminuccia già vedendo le fotografie di famiglia, e questa storia continuò anche quando nacque finalmente mia sorella. Già dai suoi primissimi anni, per lei, io ero Dado e mio fratello era Dido.

    Ovviamente noi due fratelli eravamo passati in secondo piano, perché era nata la regina della casa. Difatti, lei con atteggiamento autoritario e da primadonna sin da bambina voleva essere sempre al centro dell’attenzione. Allora noi simpaticamente dicevamo che lei era nata non per essere la regina della casa bensì la regina del gabinetto, e le indicavamo il bagno, facendola piangere tantissimo. «No, non è vero» contestava, sollevandosi dalla tavola imbandita e correndo via in un’altra stanza. E in famiglia si rideva.

    Pertanto lei, per ripicca, andava a riferire passo passo a mia madre ciò che stavamo facendo in casa per farci rimproverare, stravolgendo anche i fatti a suo favore e sostenendo di essere stata offesa. La reazione di madre, che credeva sempre a Ivana, era che per punizione non dovevamo uscire la sera o dovevamo andare a letto subito dopo il Carosello pubblicitario, senza vedere il film di nostro gradimento.

    Allora noi, vedendo i regali che i parenti le facevano in moneta spicciola nelle vecchie lire e in carta moneta, che lei poneva con soddisfazione dentro un grosso salvadanaio in terracotta, pensammo a come ottenere il nostro personale tornaconto.

    Entrambi, scuotendo il salvadanaio, dal foro della parte superiore riuscivamo a prendere molti dei suoi spiccioli risparmiati e infine, qualche giorno prima della fine dell’anno, quando si avvicinava il momento della conta finale, eravamo in grado anche di rompere l’involucro in due cocci, perfettamente innestantesi. C’erano molti soldi e noi con grande gioia ce ne appropriammo. Ma quando, durante il Natale, mia madre disse a cena: «È giunto il momento di vedere quanti soldi ha accumulato Ivana per un intero anno», io e mio fratello fummo letteralmente presi dal panico.

    Mia madre prese il salvadanaio, che era posizionato sopra il nostro armadio in camera da letto, e subito le si sfaldò in due. Immediatamente, e con una certa sorpresa, vide che c’era ben poco. Mia sorella cominciò a piangere, mia madre ci rincorse per tutta la casa e cominciò dapprima con una raffica di schiaffoni fino ad avventarsi su di noi, dandoci morsi alle braccia e quant’altro. Era diventata una furia scatenata. Così ci rinchiudemmo in bagno a leccarci le ferite. Intanto, nostra sorella piangeva e urlava: «Voglio i soldi» e mamma e papà erano lì a consolarla: «Non ti preoccupare li avrai tutti. Ecco, tieni questi». E mia sorella invece ancora più arrabbiata: «Voglio i miei soldi, questi sono pochi» insisteva.

    A lei rimase così impressa la scena che, per molti anni, anche in età adulta, ci rinfacciò di volere quei soldi da noi due. Ma oramai non ricordavamo più quanti esattamente ne eravamo riusciti a rubare, e quanti ne spendemmo io per le figurine dei calciatori della collezione completa Panini di Modena, e mio fratello per ampliare la sua collezione di francobolli.

    Spesso Ivana, a quattro anni, guardando le mie fotografie si rivolgeva a mia madre sussurrando: «Mamma, quando Torquato era femmina…» come se stesse iniziando un racconto.

    Ma io non avevo neanche gli atteggiamenti di un effeminato, anzi, sin dalla nascita facevo rilevare la mia prepotenza maschile perché volevo sempre mangiare, urlando sia di giorno che di notte. Mia madre si rivolse a una donna vicina di casa e chiese consiglio. Questa, con un tono rassicurante, esclamò: «È forte? Urla tanto? Dagli la papagna. Più urla, e più gliene dai, vedrai che così si calmerà sicuramente».

    La papagna era un infuso preparato in casa tratto dai fiori di papavero e, quindi, a base di oppiacei che, con riferimento anche ai dosaggi in base all'età, serviva a conciliare il sonno soprattutto dei più piccoli. Intere generazioni erano state cresciute a suon di oppiacei ed alcaloidi.

    Poiché le mie urla erano insopportabili, mia madre pensò di darmene una dose altissima. Dormii per due giorni interi. Non mi svegliavo mai, al punto che poi mia madre diceva preoccupata: «Ma adesso basta dormire, svegliati».

    Io, invece, continuavo a dormire ancora. Per fortuna, i tentativi del medico specialista ebbero successo. La papagna, poco dopo, venne bandita dallo Stato italiano, perché considerata una droga, quindi illecita. Ed io, pur avendo il primato di essere stato il drogato più giovane in Italia, e di tutti i tempi mio malgrado, ma sopravvissuto alla morte certa, da allora divenni calmissimo.

    Mio padre Giuseppe si sposò con mia madre nonostante il parere contrario dei genitori di lei, perché non aveva un lavoro stabile e si arrangiava con lavoretti occasionali. Era un tuttofare e dopo il matrimonio cominciò a fare il meccanico nell’autofficina di casa nostra. Lavorava molto, ma tanti clienti purtroppo non lo pagavano. Così, dopo essersi messo a suo carico, moglie e due figli, riuscì a convincere con la sua abilità di saldatore

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