Il discepolo di Hegel
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Cosmo Pasciuto è nato a Formia il 28 marzo 1972. Vive a Gaeta, città che sul finire del XX secolo ha ospitato Carlo Bernari e Goliarda Sapienza, due autorevoli voci del panorama letterario contemporaneo. Ha conseguito la laurea in Lettere, presso L'Università degli Studi di Roma "La Sapienza" e ottenuto l'abilitazione concorsuale all'insegnamento delle Materie Letterarie e Latino nei Licei. È appassionato di Filosofia, in particolar modo di Hegel e dell'idealismo tedesco. Appassionato soprattutto di lingue classiche ha perfezionato le sue conoscenze linguistiche moderne per il Francese e conosce l'Inglese, l'Esperanto. Attualmente, è docente di Lettere Italiane e Latine presso il Liceo Scientifico e Linguistico “Teodosio Rossi” di Priverno, dove insegna anche Histoire per il piano EsaBac.
Per le informazioni sulla vita di Hegel:
Materiale telematico di vario genere;
Enrico Valente: Il mio primo Hegel, Incontri filosofici Edizioni
Tommaso Tuppini: Hegel, Pelago Edizioni
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Anteprima del libro
Il discepolo di Hegel - Cosmo Pasciuto
0. Berlino, L’incontro con il Maestro
22 aprile 1831, venerdì
Tutto ebbe inizio il 22 aprile 1831, quando ero poco più che ventenne. Avevo sentito parlare di lui sin da quando ero ancora al Ginnasio. Dicevano che fosse geniale e questa diffusa opinione aveva alimentato in me la passione per la filosofia.
Di tutti gli allievi di Berlino io, Ludwig Rundlich, ero tra i più poveri e spesso ero deriso ed umiliato dai più facoltosi e addirittura tenuto un po’ in disparte dal resto degli allievi.
Qualcuno diceva che puzzavo come un capra, altri mi chiamavano cane rognoso
, altri ancora mi urlavano a squarciagola il loro disprezzo canzonandomi in mille modi, per tutti ero soltanto un pezzente, un poveraccio. Io però avevo imparato a non ascoltarli. Del resto avevano ragione loro: non era quello l’ambiente adatto ad uno straccione come me. Così con il tempo avevo capito che non c’era posto per me all’Università e me ne ero fatta una ragione: spesso, per evitare le umiliazioni che mi regalavano, sedevo agli ultimi banchi, ma anche questo non bastava e, per quanto mi sforzassi di non frequentarli, loro mi raggiungevano per strada e mi canzonavano.
Peter Hoffenbach, il più bello dell’allegra brigata, spesso mi attendeva lungo il viale alberato, insieme a quattro scagnozzi che gli reggevano il bavero della giacca.
E subito cominciava il divertimento: mi strattonavano con forza buttando all’aria i miei quaderni con tutti gli appunti delle lezioni. Una volta mi strapparono il cappotto di dosso e lo fecero a brandelli e quell’anno - era il 1830 – l’inverno regalò a Berlino un freddo intenso. Ricordo bene quella giornata. Per tutta la mattinata una sottile pioggerellina aveva bagnato la città. Faceva freddo. Loro mi raggiunsero per strada ed iniziarono a prendersi gioco di me. In cinque e con la pancia piena è più facile avere la meglio su un cane rognoso come me. Così, senza farsi alcun scrupolo, dopo avermi strappato il cappotto e aver gettato sul selciato la mia tracolla con i libri mi lasciarono cadere in una pozzanghera mentre ero ancora intento a raccogliere quei pochi fogli che erano sfuggiti alla loro furia. Fino allo sbocciare della primavera fui il bersaglio dei loro divertimenti: tutte le volte che mi vedevano entrare nell’aula tutto intirizzito dal freddo e dalle mani screpolate dal vento si burlavano di me.
Anche le ragazze non mi degnavano di uno sguardo, del resto per loro ero un semplice squattrinato, ed io non rappresentavo un buon partito. Chi mai avrebbe voluto compromettersi con un giovane sfaccendato e senza il becco di un quattrino?
E così anche loro camminavano con il naso all’insù quando mi vedevano o lanciavano le loro occhiatacce sui miei calzoni sdruciti ai lembi, sulle scarpe dal tacco consumato... A Berlino ho capito cosa significa essere soli.
Pur di mettere qualcosa sotto i denti lavoravo da Hans Freunz, il fornaio del mio quartiere, altre volte mi davo da fare per le consegne e le faccende dei ricchi signori.
Tutti i miei colleghi vantavano il buon nome delle loro casate, io non potevo che lodare le mani callose dei miei genitori, i borbottio dello stomaco durante le notti di inverno e le camicie sdrucite sui gomiti.
Avevano ragione loro: ero un pezzente.
La mia era infatti una famiglia anonima, senza eroi ma - come amava precisare mio padre – anche senza ladri; era composta da facchini e servitori, c’erano anche dei contadini e qualcuno aveva scelto di dedicarsi alla pastorizia lontano dalla città.
I Rundlich di Dresda - il ramo da cui provenivo - erano artigiani; solo mio padre Hans, figlio di Ludwig, era uno di quelli che aveva tentato la scalata sociale prima come facchino presso gli Schimitz-Hoffen, poi come manovale presso la falegnameria dei fratelli Gunthel ed infine come aiutante liutaio di Otto Vogels… Poi, quando il gruzzolo che s’era messo da parte, dopo tanti anni di sacrifici, era diventato consistente, aveva aperto bottega ma quella non fu una scelta saggia: i soldi infatti non bastavano mai e spesso doveva andare a bussare a casa dei vicini per avere un tozzo di pane da bagnare nella zuppa di farro e lenticchie.
Mia madre, Marie Anne Sprinkel, di soli due anni più piccola di lui, ma consumata fino alle ossa dalla fatica e dal lavoro, era lei a far quadrare i conti. Era stata per tutta la vita, un’inserviente premurosa di casa Schneider. In città si racconta che il vecchio Ludwig Rundlich – che Dio lo abbia in gloria - per tutta la vita non aveva mai acconsentito a quel matrimonio per il suo unico figlio maschio ma poi quando giunse la sua ora, la ritrovò al capezzale e se ne andò da questa terra stringendole la mano.
Era una donnina ossuta: il grembiule nero sempre unto di olio e la cuffia bianca in testa che mal celava i suoi capelli biondo cenere.
Ogni tanto, anche adesso che sono avanti nell’età, quella donnina dal volto emaciato riaffiora ancora nei miei sogni come quando, stanca per il lavoro, rincasava a tarda sera in inverno: lo scialle nero sulle spalle e le mani tremanti per il freddo; lasciava sulla tavola un tozzo di pane avanzato dalla mensa degli Schneider e poi faceva cadere qualche soldo nella vecchia brocca di argilla.
Con questi