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L'amica Flora
L'amica Flora
L'amica Flora
E-book152 pagine2 ore

L'amica Flora

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Info su questo ebook

Chi è Flora?
Semplicemente un nome di donna oppure la dea romana dei fiori e della primavera?
Il titolo di un quadro d’autore o di una scultura in marmo? Più scientificamente, l’insieme di tutti gli esseri viventi del Regno Vegetale?
In ogni caso una presenza “amica”, quale fonte d’ispirazione per questa antologia di racconti.
Sarà il lettore a scoprire che cosa realmente farà da cornice ai fatti narrati o addirittura chi ne avrà parte attiva; a volte trovandosi piacevolmente immerso nella natura, altre osservando le scene solo da spettatore.
Il silenzio farà da colonna sonora, invitando alla meditazione e allo stupore per quanto verrà offerto da qualcosa di inaspettato e inimmaginabile.
Un libro, dunque, capace di trasmettere emozioni e di destare interesse, in presenza di reali entità biologiche e spirituali.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2023
ISBN9788855392815
L'amica Flora

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    Anteprima del libro

    L'amica Flora - Consuelo Cordara

    L’amica Flora

    EEE- Edizioni Tripla E

    Consuelo Cordara, Marina Maimone, L’amica Flora

    © EEE - Edizioni Tripla E, 2023

    ISBN: 9788855392815

    Collana Raccontare, n. 24. Prima edizione.

    EEE - Edizioni Tripla E

    di Piera Rossotti

    www.edizionitriplae.it

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina: quadro di Consuelo Cordara, liberamente ispirato ad un’opera di Richard Burlet. Le fotografie e le illustrazioni interne sono delle Autrici.

    PREFAZIONE

    L’amica Flora ama vestire di verde, ma non disdegna le sfumature del rosa e dell’ambra, a seconda delle stagioni.

    Adora poi ornarsi di fiori e profumare di erba e di sole.

    L’amica Flora è timida e silenziosa, pur possedendo un carattere determinato; quando si propone di realizzare un progetto lo porta a compimento, costi quello che costi.

    Flora è vulnerabile e delicata, patisce la prepotenza, l’inciviltà e gli abusi, dei quali – a modo suo – si vendica puntualmente. Non per cattiveria, no, ma per recuperare equilibrio e armonia.

    Senza di lei saremmo tutti più tristi, più pallidi e ci mancherebbe il respiro È davvero un’amica a cui dobbiamo molto, per questo lei si fa amare, a patto che la si rispetti.

    Grazie, cara Flora, di esistere e di renderci bella e salutare la vita!

    Le Autrici

    IL MONACO INNAMORATO DELLE PIANTE

    (Consuelo Cordara)

    L’antica abbazia benedettina si ergeva sulla sommità di un picco, dal quale si dominava la valle. L’architettura del monastero, caratterizzata da muraglioni e contrafforti in pietra, lo rendeva simile a una fortezza militare, conferendole un aspetto severo e vagamente inquietante. Ci vivevano dodici monaci, molto anziani, alcuni dei quali affetti dalle più svariate malattie. Nel Medioevo erano frequenti, infatti, casi di peste, di vaiolo e di herpes zoster, quest’ultimo più comunemente chiamato fuoco di Sant’Antonio.

    Fra’ Bartolo era il più giovane del gruppo, pur compiendo ottant’anni, proprio il giorno di Natale: non un giovanotto quindi, ma un uomo energico, lucido di mente, colto e molto saggio. Il centenario Abate Antonino lo teneva in grande considerazione, tanto da averlo già designato come suo futuro successore. La buona fama di cui era circondato il monaco si era diffusa, al punto che, dalla vallata sottostante, la gente si inerpicava verso l’abbazia per incontrarlo, chiedergli un consiglio, un parere o una benedizione speciale. Lui si prodigava nel tentare di risolvere dispute famigliari, problemi di salute, situazioni di indigenza e, a tutti, diceva una parola di conforto – oppure, secondo la necessità – donava una piccola somma di denaro, piuttosto che tisane e tinture curative estratte dalle piante officinali del suo orto.

    Da tempo Fra’ Bartolo teneva con sé un piccolo aiutante, una specie di apprendista stregone. Si trattava di Costantino, un bimbo che il monaco aveva trovato neonato, abbandonato nel bosco, in una fredda mattina invernale di otto anni prima. L’aveva allevato ed educato personalmente, insegnandogli non solo a leggere, scrivere e far di conto, ma anche a riconoscere gli alberi e le piante, rispettando ugualmente uomini e animali.

    Seguendo Fra’ Bartolo nelle sue passeggiate mattutine, Costantino aveva imparato a distinguere i frutti commestibili da quelli velenosi, le erbe curative da quelle tossiche. Nel laboratorio da alchimista, che il monaco si era creato negli anni, il piccolo Costantino aveva cominciato a usare correttamente il pestello, a estrarre gli oli essenziali, a far seccare le foglie di salvia, timo e rosmarino per poi preparare tisane e decotti.

    Tale farmacopea era molto utile per la cura dei monaci anziani, che traevano sollievo dagli unguenti e dagli sciroppi di Fra’ Bartolo e del suo promettente aiutante.

    Una sera, però, successe un fatto strano …

    «Bartolo! Bartolo!» gridò Costantino dalla piccionaia dove si recava, al tramonto, per occuparsi dei colombi viaggiatori che il frate teneva in grandi gabbie.

    Il bambino aveva il compito di tenerle pulite e di aggiungere, nelle vaschette, i semi nuovi e l’acqua fresca. Quella sera, però, si trovò di fronte a una scena spaventosa: tutti gli uccelli giacevano morti sulla sabbia delle enormi voliere. Il monaco, richiamato dalle urla di Costantino, nonostante l’andatura claudicante dovuta all’età, si arrampicò sulla ripida scala che conduceva alla piccionaia.

    «Mio Dio! Chi può aver causato tale ecatombe?» esclamò il frate, stringendo a sé il piccolo, che stava piangendo a dirotto.

    Fra’ Bartolo si accorse che i colombi avevano il ventre gonfio: probabilmente avevano ingoiato del cibo tossico e non era certo stato Costantino a somministrarlo. Il monaco notò casualmente, accanto alle gabbie, alcune palline bianche dall’odore molto acre; ne raccolse una e avvertì che era morbida al tatto: si trattava di mollica di pane, ma imbevuta di una forte soluzione alcolica.

    «Sono stati avvelenati, non c’è dubbio. Qualcuno si è intrufolato nel mio laboratorio e ha trovato la boccetta della grappa in cui avevo messo a macerare radici di rabarbaro e genziana... ma perché prendersela con queste povere creature?»

    La sera stessa Fra’ Bartolo informò l’Abate di ciò che era successo in piccionaia, esprimendogli le sue perplessità riguardo all’accaduto.

    «Caro il mio erborista» gli rispose Frate Antonino, non senza ironia «i nostri confratelli si stanno ammalando di tifo e lei s’interroga sulla morte misteriosa dei suoi piccioni viaggiatori? Non le sembra assurdo? Peraltro, se vuole proprio sapere il mio parere, credo che tali uccelli siano i maggiori responsabili dell’epidemia intestinale diffusasi nell’Abbazia».

    Detto ciò, senza nemmeno salutare, l’Abate si voltò e raggiunse, a passi incerti, la propria cella. La reazione del suo diretto Superiore lasciò basito Bartolo, che cominciò a nutrire qualche sospetto su quell’aura di santità che veniva riconosciuta all’Abate.

    Il giorno successivo, il monaco e il suo giovanissimo discepolo si recarono nel bosco per dare degna sepoltura ai colombi:

    «Vedi, Costantino, l’abate non si preoccupa di conoscere ciò che potrebbe giovare veramente alla salute dei monaci. Lui ha bisogno di trovare un nemico su cui scagliarsi, senza studiare la natura, senza indagarla, né proteggerla. Non ama gli animali, ma non capisce nemmeno la fondamentale utilità del mondo vegetale. Le piante comunicano con noi, ci sono simili... bisogna ascoltarle».

    «Gli alberi e i fiori non parlano, in che modo possono comunicare?» gli chiese il piccolo, mentre smuoveva la terra per sotterrare l’ennesimo volatile.

    «Le piante, caro il mio ragazzo, sono organismi intelligenti, anche se utilizzano modalità diverse dalle nostre, ma non certo meno efficaci. Ad esempio, a noi gli alberi sembrano fermi, invece si muovono continuamente. Le loro radici scavano sotto terra, aggirano ostacoli, cercano nuove strade per espandersi... pensa poi ai fiori, che si orientano naturalmente verso il sole, la fonte di calore che dà la vita a ogni essere vivente: quanta intelligenza!»

    Fra’ Bartolo, quando parlava di alberi e di erbe, si entusiasmava al punto di perdere la nozione del tempo. Sentì la campana della vicina abbazia che scandiva, con i suoi rintocchi, il mezzogiorno.

    «È tardi e qui, purtroppo, abbiamo finito il nostro triste compito. Dobbiamo rientrare per il pranzo, poi andremo in laboratorio a lavorare.»

    «Sono stanco» protestò Costantino «che altro dobbiamo fare? Mi avevi promesso che mi avresti costruito uno scivolo per giocare, ma il tronco cavo è sempre là, che ti aspetta!»

    «Hai ragione, figlio mio, domani mi darò da fare per renderlo bello liscio e con la pendenza giusta. Ho già in mente di collocarlo su quella riva del giardino un po’ in discesa... sai che voli potrai sperimentare! Oggi pomeriggio, però, raccoglieremo delle erbe buone per farne dei decotti, capaci di combattere il tifo che si è diffuso tra i confratelli più fragili e alleviare le loro sofferenze.»

    «Quali sono queste erbe buone? Voglio trovarle anch’io!» esclamò il bambino, curioso di conoscere sempre nuovi segreti. Per lui il monaco rappresentava un mentore, una guida straordinaria capace di risolvere ogni problema; era il padre che non aveva mai conosciuto, piuttosto che un nonno – anagraficamente più credibile – data l’età di Bartolo.

    Quella sera i due lavorarono fino a tardi nel classificare e preparare le erbe officinali, che si erano procurati nel bosco e nell’orto del frate. Alcune radici preziose, che il monaco custodiva gelosamente, arrivavano da lontano, grazie ai viaggiatori e ai pellegrini che facevano sosta all’Abbazia.

    «Vedi, Costantino, il rabarbaro è molto efficace per curare i disturbi digestivi, così come la cicoria e lo zenzero, preziosissima spezia originaria dall’Oriente. Pensa che pare l’abbia introdotta tra noi Alessandro Magno.

    Hai sonno, piccolo? Ti vedo un po’ distratto! D’accordo, vai a nanna... continuo io. Voglio preparare il farmaco durante la notte, così domani potrò somministrarlo ai frati.» Il bambino, dopo un grande sbadiglio, baciò l’anziano maestro e si ritirò nella sua stanzetta, attigua alla cella di Bartolo.

    Quest’ultimo trascorse la notte nella sua bottega, illuminata dalla luce di alcune candele, tra alambicchi, provette e vasi comunicanti.

    Lo si sarebbe detto un mago, intento a preparare qualche filtro amoroso, tanto era ispirato, avvolto da fumi e fragranze odorose.

    All’alba Fra’ Bartolo uscì dal laboratorio con il nuovo farmaco, chiuso in un’ampolla: si proponeva, infatti, di raggiungere subito l’infermeria e offrire ai malati un cucchiaio del prezioso sciroppo.

    Dovette chiedere l’autorizzazione all’abate, che si dimostrò diffidente e alquanto scorbutico:

    «Fate pure, ma avrete capito che io sono molto scettico su tali sperimentazioni. Basti pensare alla triste fine che il vostro discepolo ha fatto fare a quei poveri colombi! Oggi poi non mi sento bene... provo una forte nausea e dolorosi crampi alla pancia. Scusate, ma devo proprio ritirarmi».

    Il monaco avrebbe voluto ribattere alle pesanti insinuazioni del Superiore, specie quelle rivolte a Costantino, ma lo vide così pallido e malconcio che non ebbe cuore di polemizzare. Andò dritto per la sua strada e cominciò a somministrare il medicinale a ogni confratello sofferente.

    La terapia iniziò a dare i suoi frutti nel giro di quattro giorni: scese la febbre e la dissenteria si arrestò, ridonando forza e speranza ai poveri ammalati. Fra’ Antonino, che era stato contagiato dall’epidemia, si rifiutò di assumere la tintura e andò sempre peggiorando fra sofferenze indicibili.

    Non ci fu verso di fargli aprire la bocca, affinché ingoiasse qualche goccia di sciroppo:

    «Sono stregonerie» sussurrava con un fil di voce «stregonerie, nient’altro che stregonerie!» ripeteva delirando finché, logorato dal male e dalla vecchiaia, si spense in pochi giorni.

    Come l’abate aveva previsto

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