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Roma da morire: Storie nere di ieri e di oggi
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E-book277 pagine3 ore

Roma da morire: Storie nere di ieri e di oggi

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Info su questo ebook

Quindici storie a tinte più che nere dove rancore e follia, vendetta e avidità, invidia e perversione si intrecciano fino a sfociare nella tragedia. Quindici vicende di persone comuni impaludate nelle sabbie mobili del delitto da cui neanche i tutori dell’ordine riescono sempre a venir fuori. Quindici racconti thriller ambientati nella Capitale tra il 1959 e oggi. Unica eccezione, Civitina che non fa all’ammore: si svolge a Gaeta, ma al caso si appassiona un villeggiante romano, il commissario capo Umberto Soccodato presente in tutti i romanzi e in vari racconti di Emanuele Gagliardi.
LinguaItaliano
Data di uscita30 nov 2017
ISBN9788866904021
Roma da morire: Storie nere di ieri e di oggi

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    Roma da morire - Emanuele Gagliardi

    Emanuele Gagliardi

    ROMA DA MORIRE

    Storie nere di ieri e di oggi

    Emanuele Gagliardi, Roma da morire

    © Edizioni Esordienti E-book, 2017

    Prima edizione e-book: ottobre 2017

    ISBN: 9788866904021

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi.

    Copertina di Olinalda Carvalho dos Reis

    GIULIO DEVE MORIRE!

    (Roma, ottobre 1976)

    L’unione fra l’avvocato Giulio Abelardi e la moglie, Irene Masino, ha assunto da tempo le tinte fioche dell’abitudine. La nascita di Alessandra, otto anni fa, non ha migliorato le cose. Anzi. Le responsabilità e gli imprevisti venuti con la bambina hanno esasperato la routine trasformandola in sopportazione. La sopportazione è l’anticamera dell’odio.

    Silenzioso, l’odio vive come una creatura aliena nel ventre di Irene. Lei quasi non lo percepisce. Sì, qualche volta lo sente muoversi dentro, ma lo nega con il suo super-ego esatto. Però lo nutre. Quotidianamente. Con il rigore, con le censure, con i cedimenti, con il livore. E la bestia cresce.

    Giulio no. Lui non odia. Per odiare qualcuno bisogna conoscerlo, considerarlo: quantomeno… vederlo. Giulio la moglie non la vede proprio. Irene per lui è un animale domestico che ben ha assolto alla funzione riproduttrice generando Alessandra, per cui stravede. Ogni tanto il testosterone lo spinge ad avvicinarla. In quel momento la vede. Ma non è tipo da coccole, carezze o preliminari il parafangaro. Li chiamano così a Roma gli avvocaticchi che si occupano di Codice stradale. Quando ha voglia, ai suoi occhi Irene smette i connotati dell’animale domestico e veste quelli della puttana. Per il tempo strettamente necessario...

    Irene si sente rinascere quando il dottor Varriale, amico del suo datore di lavoro architetto Girotti, prende a farle il filo. È un medico cinquantenne, garbato, elegantissimo. Tutto un altro tipo rispetto a Giulio, ma anche a Carmelo, il collega impacciato. L’allocco. Il Fracchia dello Studio Girotti. L’irpino con la voce flebile e le mani sudate che la ama segretamente (secondo lui!), torturato dalla presenza del dottor Varriale con cui sa di non poter competere.

    Ma anche Varriale delude Irene. Dopo mesi di rose, versi e galanterie, quando lei gli rivela la propria situazione coniugale e azzarda auspicare un consolidamento del loro rapporto, il medico si irrigidisce, glissa e si eclissa per giorni.

    La sera di uno di questi giorni Giulio torna a casa e Irene gli legge in viso un’insulsa allegria. L’aria futile da peccatore veniale che conosce su quel viso stupido da zucchina quando ha certi appetiti…

    Alessandra, come ogni venerdì, è a casa dei nonni. Ci rimarrà fino a domenica mattina. Da otto anni Irene e Giulio concentrano in queste trentasei ore ciò che resta della loro coppia.

    L’avvocato estrae dalla borsa un disco. Un 45 giri.

    «Voglio farlo con questa musica» dichiara. Senza romanticismi.

    Irene si avvicina con occhi di speranza. Gli occhi sono l’ultima parte di Irene che racchiuda un po’ di speranza. Il resto è invaso dalla metastasi dell’odio. Solo fra le lunghe ciglia corvine filtra la luce d’una speranza ostinata fra macerie di sogni infranti.

    Lui le consegna il disco: Un amore così grande, canta il tenore Mario Del Monaco¹.

    «Mettilo», dice. E comincia a spogliarsi come fosse in un ambulatorio.

    Irene ha già ascoltato il brano alla radio. Le piace. Del Monaco l’ha registrato prima dell’estate. Dell’estate ’76 le è rimasta impressa Non si può morire dentro, di Gianni Bella. Il titolo le sembrava un invito a non cedere. Del Monaco, invece, canta un amore perfetto. L’amore perfetto vagheggiato da bambina e cercato da ragazza. L’amore perfetto che Giulio ha sgretolato con la ruggine dell’indifferenza.

    Sento sul viso

    il tuo respiro,

    cara come sei tu,

    dolce sempre di più,

    per quello che mi dai

    io ti ringrazierei

    ma poi non so parlare…

    Un amore così grande, un amore così…

    La copula accompagnata dalla voce del tenore assesta l’ultimo colpo alla speranza che baluginava negli occhi di Irene. Giulio la prende con freddezza, come sempre. Senza concederle la minima partecipazione, come sempre. L’idea di far l’amore a suon di musica deve essergli venuta chissà come. Forse suggerita da un collega, da un film, da un libro… Si è incuriosito e ha deciso di metterla in pratica con la donna che ha a disposizione. Tutto qui. Entusiasmo e foga si spengono nel tempo della canzone: 4 minuti e 52 secondi.

    Irene capisce. Capisce mentre Giulio gode meccanicamente. Capisce mentre Del Monaco canta l’amore che le è negato.

    I crescendo, gli acuti, le note tenute con disinvoltura fino allo spasimo le entrano in testa e non la lasciano. Neppure dopo che il giradischi tace e Giulio si allontana a farsi la doccia.

    …Un amore così grande, un amore così

    Tanto caldo dentro e fuori

    intorno a noi…

    Le parole, la musica accompagnano le lacrime di Irene mentre Giulio è in bagno. Le martellano la mente durante la notte, sveglia accanto al corpo addormentato dell’estraneo con il viso stupido da zucchina. E non la abbandonano quando s’accende il giorno. Un altro finesettimana di consuetudini, incomprensioni, arretramenti. Lenta autodistruzione resa più dolorosa dalla voce di Del Monaco che la mette al muro indicandole un’altra realtà. Quella ottusamente attesa dall’uomo con il viso stupido da zucchina.

    Poi la lite furibonda, qualche giorno dopo. Nasce, come sempre, da una sciocchezza: Alessandra sottrae un pennarello a una compagna e lo porta a casa nascosto nella tasca del cappottino. Irene la scopre e la sgrida con durezza. Alessandra piange. Promette che restituirà il pennarello. Irene rimane scossa dal piccolo furto. La sua mente travagliata, fra i cui pensieri s’accavalla ancora la musica dell’ultima frustrazione coniugale, ingigantisce il fatto. È come se con quel gesto Alessandra dichiarasse che non ha intenzione di crescere nella cinerea rettitudine che scolorisce la mamma! Quando Giulio rincasa, lei lo mette a parte dell’accaduto. Gli dice che pure lui dovrebbe rimproverare la figlia e magari astenersi dal consegnarle il regalino che suole portarle ogni sera. Al bar sotto casa Giulio ha comprato un lecca-lecca a fischietto.

    Ma Giulio non prende la cosa sul serio. Non solo dà alla piccola il lecca-lecca, ma le dice di non preoccuparsi del pennarello: se l’amichetta è stata così fessa da lasciarselo fregare, merita che lei se lo tenga! Così straccia del tutto la vacillante autorità di Irene. Alessandra, infatti, forte dell’appoggio paterno, le rivolge un irriverente sberleffo. Irene le molla un ceffone in pieno viso. Da qui l’alterco che si protrae ben oltre l’ora di cena. Solo Alessandra consuma il pasto. Giulio si chiude nel suo studiolo e Irene, dopo aver addormentato la bambina, si sistema sul divano in salotto. Non sopporterebbe neppure il calore del corpo estraneo nel letto.

    Congestionata di ira e di pianto, al buio, adesso Irene sente nettamente l’alieno dentro lei. Pasciuto dalle lacrime, dai risentimenti, dalle frustrazioni… e dalla musica che rintrona il cervello:

    Un amore così grande, un amore così…

    Tanto caldo dentro e fuori

    intorno a noi,

    un silenzio breve e poi

    in fondo agli occhi tuoi bruciano i miei

    Quella stessa notte decide: Giulio deve morire!

    Se l’uomo col viso stupido da zucchina continuerà a vivere, per lei non ci sarà speranza. Avvizzirà. Invecchierà. Finirà.

    Giulio deve morire! Sennò passerà il tempo e lei si seccherà come una pianta dimenticata.

    Giulio deve morire! Perché le ha sottratto il rispetto della figlia.

    A nessuno importano i suoi sogni. Coraggio per tradire non ne ha. E poi… a che servirebbe tradire? Che senso ha il sesso clandestino con uno che in fin dei conti lo fa perché ha i tuoi stessi problemi?

    Giulio deve morire! Con Varriale poteva venir fuori qualcosa? Ma è finita prima di cominciare per via delle insicurezze, dei timori, della sua maledetta disposizione a fare sempre e solo ciò che è giusto. Lo ha stancato, ecco.

    Irene vuole indietro il suo tempo. Giulio deve morire!

    Morto Giulio, ricucita la dignità, può sperare ancora di avere accanto qualcuno che la stimi, che la… veda? Forse. Con la mente libera potrebbe conquistare sul serio il dottor Varriale. Oppure un altro. Giulio deve morire!

    …La notte impazzirò,

    in fondo agli occhi tuoi bruciano i miei

    Un amore così grande, un amore così…

    Sta impazzendo? No. Chi vuol riprendere le redini della propria esistenza e smettere di subire non è pazzo. Sentirsi voluta da qualcuno che ti consideri una compagna di viaggio anziché un aspirapolvere non è follia. Irene non è pazza. Ha deciso di tornare a vivere. Giulio deve morire!

    Adesso, però, bisogna accantonare le emozioni e pianificare l’azione. Calcolare tempi, stabilire mosse e contromosse, costruire risposte. Per prima cosa deve creare le premesse. Dall’indomani, e per il mese a venire, spedirà lettere minatorie all’indirizzo del marito. Gli avvocati ricevono minacce. Pure i parafangari come lui. Spesso si tratta di mitomani. Ma una testa calda può sempre passare alle vie di fatto. Spedirà almeno due lettere a settimana. Otto in totale. La polizia sospetterà di lei, è ovvio. Perché è la moglie, anzitutto. E perché molti sono a conoscenza dei loro rapporti deteriorati.

    Giulio deve morire! E perché Giulio muoia, dovrà essere ucciso. Logico.

    Troverà il coraggio per farlo? Il travaglio di Irene ruota intorno a questo interrogativo. Per giorni la determinazione gioca un impietoso tiro alla fune con la sua anima lacerata. Un’altalena snervante che rischia di scaraventarla nella paralisi e consegnare alla polvere ogni prospettiva di riscatto. Come le accade da tutta la vita. Certo, se qualcuno lo facesse al posto suo…

    La soluzione arriva improvvisa. Ha il suono di una frase: Per te potrei anche uccidere…. Una frase buttata lì. Un’espressione comune. Un colpo a salve. Chi non ha detto almeno una volta lo ammazzerei rivolto all’avversario del momento? Una frase colta per caso. L’unica possibilità di realizzare un sogno altrimenti destinato a un cassetto già ricolmo di tranquillanti e singhiozzi. La sola chance di estirpare dal cervello la voce torturatrice di Del Monaco.

    Per te potrei anche uccidere…. Una battuta da romanzo rosa, da film hollywoodiano. Nella vita stinta di Irene non ci sono gli eroi di Liala o i cavalieri di celluloide alla Humphrey Bogart. Il dottor Varriale, l’architetto Girotti… nessuno di loro ucciderebbe per lei. Nessuno. Eccetto chi ha detto, e non sembrava scherzare, Per te potrei anche uccidere…

    «Pronto, Carmelo, sono Irene. No, anche oggi non verrò in ufficio, ma… avrei bisogno di vederti, di parlarti…»

    UN DELITTO GRIGIO

    (Roma, 23 agosto 1970 – Domenica – abitazione del commissario Umberto Soccodato)

    «Stavolta ci sarebbe tutto: vittima e carnefice reo confesso! Ascolta: "Addì 26 giugno 1970 – questo è il verbale – lo studente universitario Lo Bianco Gianluca, di anni 22, originario di Mileto in Calabria, residente a Roma in Via eccetera, eccetera… uccideva con 22 colpi di coltello la studentessa diciannovenne Valente Carla. Immediatamente dopo, il Lo Bianco si recava in un bar limitrofo al luogo del delitto dove pregava il proprietario di chiamare la polizia e attendeva l’arrivo degli agenti a cui si costituiva"…»

    «Beh, a parte lo stile con cui scrivete i rapporti, non vedo dove sia il problema! L’avete preso, ha confessato… sbattetelo in galera e buttate la chiave!»

    «Eh, no… troppo facile! Sei moglie di un commissario da vent’anni e ancora non hai imparato! Se il soggetto in parola, per dirla ancora in poliziottese, fosse stato un poveraccio, forse… Ma si dà il caso che il ragazzo provenga da una delle famiglie più importanti e facoltose di Mileto: il padre è il farmacista e la madre discende da antichi feudatari del luogo. Nobiltà calabra.»

    «E allora?»

    «E allora mamma e papà si sono rivolti a un professorone di psichiatria forense con l’intenzione di far risultare il ragazzo infermo di mente. Se la cosa andrà in porto, il malatino eviterà l’ergastolo, e tra una perizia e un ricovero coatto, tra qualche anno potrebbe pure tornarsene a casa.»

    «Finale all’italiana…»

    «In un certo senso sì. Anche se questo caso ha un suo aspetto singolare…»

    «Cioè?»

    «Può sembrarti assurdo, lo so: il ragazzo vuole stare in galera! Ma più insiste, più lo specialista pagato dai genitori ha elementi per dimostrarne l’infermità mentale che potrebbe rimetterlo in libertà.»

    «Credo di essermi persa…»

    «Insomma, il giudice istruttore, come puoi immaginare, non se l’è sentita di liquidare il caso alla spicciolata dopo che gli è arrivata sul tavolo la perizia firmata da un cattedratico con tanti di quei titoli che quasi non gli c’entrano sul biglietto da visita! Perizia di alta scuola, non c’è che dire, ma che al di là delle conseguenze sul futuro penale dell’omicida, mi ha lasciato l’amaro in bocca. Una profonda angustia dinanzi al tragico incontro della giovane con un uomo incolore, incartato e risentito contro il mondo al punto da vedere anche nella donna che gli piace una minaccia per la propria patologica, illusoria stabilità.»

    «Mi par di capire che il soggetto in parola non ti faccia pena!»

    «Mi fa pena una ragazza di diciannove anni che pensava di essere amata e invece s’è ritrovata ventidue coltellate in corpo!»

    «La perizia l’hai letta?»

    «L’ho letta e ho letto il memoriale dell’assassino. Sono un commissario di vecchio stampo, i giovani colleghi laureatini cum laude mi giudichino pure sorpassato, ma ti confesso che non so decidere se ritenere più delirante l’una o l’altro!»

    «E io ti confesso che mi hai incuriosita.»

    «Allora sta’ a sentire. Appena arrestato, lo studente è stato interrogato e senza reticenze ha riferito di aver conosciuto Carla più o meno un mese prima e di aver provato per lei viva attrazione. Lui stesso, poi, si è definito un tipo geloso e possessivo. Poiché, a suo dire, il comportamento di Carla, napoletana spigliata ed estroversa, non aveva corrisposto alle sue attese, i due avevano cominciato presto a bisticciare e alla fine lei aveva deciso di interrompere la relazione…»

    «Poveretta! L’avesse fatto subito!»

    «Adesso arriva l’aspetto inquietante. Sempre stando a ciò che l’omicida ha detto e scritto, non ha sofferto troppo per la decisione della ragazza, piuttosto ha cominciato a essere ossessionato dall’idea che la propria intera esistenza fosse fallita e che avrebbe avuto a pentirsi per tutta la vita di aver perduto Carla la quale, ricordo a memoria, sarebbe risultata insostituibile da un punto di vista estetico»

    «Estetico?! E che significa?»

    «Non saprei spiegartelo. Dice il luminare che la personalità di Lo Bianco aggrega un’altissima autoconsiderazione con una percezione fallimentare e ignobile della propria esistenza. Forse intende dire che la ragazza, che era davvero molto bella, era per questo degna di lui… boh! Io, da ignorantone che sono, scommetterei che ci fa, come si dice a Roma, per convincere i periti di essere pazzo; ma questo è in contraddizione con i suoi reiterati appelli a essere lasciato in pace in carcere… Ad ogni modo, andiamo avanti: sopraffatto dalla gelosia e dal senso di fallimento, Lo Bianco si convince di avere due sole vie d’uscita, uccidere Carla o uccidersi. Dice che per lui era indifferente morire o passare il resto della vita in prigione, l’importante era non dover continuare a vivere con gli altri

    «Guarda un po’! Dice che è indifferente uccidere o uccidersi, però alla fine sceglie di uccidere… A me questo non sembra tanto scemo!»

    «Ma te l’ho detto: lui non ha intenzione di passare per scemo, almeno in apparenza! Sono i genitori che con la dichiarazione di infermità vorrebbero risparmiargli, o piuttosto risparmiarsi, l’onta del carcere… Quanto alla dinamica del delitto, lo studente dice che sulle prime aveva deciso di strangolare Carla. Ha raccontato che aveva intenzione di acquistare un gran mazzo di rose rosse, poi l’avrebbe uccisa e avrebbe cosparso il cadavere di fiori. Successivamente si è convinto che il suo piano fosse soggetto a troppi imprevisti: Carla avrebbe potuto opporre un’inattesa resistenza, ad esempio. Allora ha optato per il coltello. Scelto, ha tenuto a precisare, tenendo sempre in conto le esigenze "estetiche".»

    «In che senso?»

    «Ha scelto un coltello la cui silhouette fosse simile a quella di Carla. Dice di aver trascorso un buon tempo a contemplare l’arma scorgendovi parecchie analogie con il corpo della futura vittima e, prima di andare a uccidere, ha profumato e baciato la lama.»

    «Sarò cinica, ma a me sembra la trama di un film horror di quart’ordine!»

    «Purtroppo non è un film! Lo Bianco si è recato a casa di Carla, che proprio come lui viveva in una camera in affitto, ha chiacchierato con la padrona di casa fin quando Carla si è presentata e appena ha avuto modo di restare solo con lei ha estratto il coltello e lo ha conficcato ventidue volte…»

    «Ventidue. Il numero dei suoi anni. Degli anni di lui, dico.»

    «Eh! Può darsi che il numero di coltellate non sia stato a caso. Da un complessato ossessivo compulsivo pare ci si possa aspettare questo e altro! Comunque: ha infierito su Carla e poi è scappato al bar sotto casa, come ti ho detto. Ai poliziotti ha rivelato subito di sentirsi "liberato", addirittura felice alla prospettiva di trascorrere il resto della vita in cella, lontano dalla insopportabile presenza degli altri

    «Sbaglio o il suo problema è il rapporto con gli altri?»

    «Hai fatto centro! Perché invece che la moglie di un commissario qualunque non hai fatto la criminologa? Pensa che il professore si è beccato otto milioni per la perizia…»

    «A proposito, dimmi un po’ che s’è inventato il professore per salvare ’sto disgraziato?»

    «Ha ricostruito la sua storia. Fino alla fine del liceo Gianluca vive a Mileto. Qui, come capita nelle piccole realtà provinciali, la vita dei ragazzini e dei giovanotti si svolge perlopiù in strada. Si formano gruppi, vere e proprie bande che non di rado arrivano a scontrarsi. Lui, mercé le nobili origini della madre, si ritiene predestinato al ruolo di leader ma non riesce a conquistarsi il rispetto sul campo perché nelle risse si rivela pusillanime e propenso a battere in ritirata. Ha persino paura di un ragazzino più piccolo che lo aspetta in strada per sbeffeggiarlo e picchiarlo. L’angoscia che gli deriva dall’incontro-scontro con gli altri sul palcoscenico della strada scompare solo quando entra nella farmacia del padre. Al di là del fatto che, come si sa, nei paeselli il farmacista è tra le principali autorità insieme con il sindaco, il parroco, il medico condotto e

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