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L’aura ritrovata: Il teatro di Sylvano Bussotti dalla Passion selon Sade a Lorenzaccio
L’aura ritrovata: Il teatro di Sylvano Bussotti dalla Passion selon Sade a Lorenzaccio
L’aura ritrovata: Il teatro di Sylvano Bussotti dalla Passion selon Sade a Lorenzaccio
E-book351 pagine4 ore

L’aura ritrovata: Il teatro di Sylvano Bussotti dalla Passion selon Sade a Lorenzaccio

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Info su questo ebook

Nel panorama della musica d’avanguardia del secondo dopoguerra, l’opera e il pensiero di Sylvano Bussotti manifestano caratteri del tutto originali e in netta controtendenza rispetto alle correnti dominanti del tempo, caratteri che si chiariscono all’interno di un fondamentale e decisivo rapporto con la tradizione. Tale rapporto, costante e fondativo di tutta l’opera bussottiana, si definisce, sia in relazione alla storia e alla cultura occidentali, generalmente intese – seppur con particolare predilezione per alcune epoche –, sia riguardo alla specifica tradizione musicale. Di questa, poi, è soprattutto la peculiare linea italiana, che dal madrigale conduce al teatro d’opera, a interessare e a costituire la base di un apprendistato autodidattico decisivo per i futuri esiti compositivi. […] Nel CD allegato: Lorenzaccio (estratti). Registrazione parziale della trasmissione radiofonica della prima veneziana avvenuta al Teatro La Fenice di Venezia il 7 settembre 1972 nell’ambito del XXXV Festival di Musica Contemporanea della Biennale di Venezia.
LinguaItaliano
EditoreLIM
Data di uscita8 feb 2023
ISBN9788855432375
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    L’aura ritrovata - Daniela Iotti

    Capitolo I

    L’aura ritrovata

    1. Il rapporto con la tradizione

    Nel panorama della musica d’avanguardia del secondo dopoguerra, l’opera e il pensiero di Sylvano Bussotti manifestano caratteri del tutto originali e in netta controtendenza rispetto alle correnti dominanti del tempo, caratteri che si chiariscono all’interno di un fondamentale e decisivo rapporto con la tradizione.

    Tale rapporto, costante e fondativo di tutta l’opera bussottiana, si definisce, sia in relazione alla storia e alla cultura occidentali, generalmente intese - seppur con particolare predilezione per alcune epoche -, sia riguardo alla specifica tradizione musicale. Di questa, poi, è soprattutto la peculiare linea italiana, che dal madrigale conduce al teatro d’opera, a interessare e a costituire la base di un apprendistato autodidattico decisivo per i futuri esiti compositivi.¹

    Il rapporto con la tradizione, lungi dal definirsi nei termini di una qualsivoglia ripresa neo di stili o linguaggi del passato, o di recupero di elementi tonali o modali, viene coltivato piuttosto nel segno di un’affettuosa corrispondenza amorosa, riscaldata da numerosi riferimenti autobiografici, tra i quali assumono peso non trascurabile i natali fiorentini, enfatizzati nell’inevitabile rimando al contesto della città umanistica per eccellenza. E quanto la componente autobiografica conti nell’operare bussottiano, innalzando il trascurabile dato aneddotico a elemento fondante e portatore di senso (ma anche, come si vedrà, di impegno politico o quantomeno di reazione ai rischi di alienazione e omologazione insiti in una realtà che andava conoscendo i guasti della massificazione), è di fondamentale importanza cogliere e collocare oltre la dimensione di un narcisismo, non solo orgogliosamente esibito, ma scientemente sostanziato nella propria poetica.

    In tale amoroso commercio con un passato che volentieri circoscrive un ambito insieme metapoetico e metalinguistico dell’opera, si palesa con evidenza il dato in controtendenza rispetto alle suggestioni di un utopistico grado zero del linguaggio, di una auspicata tabula rasa nei confronti del passato, espresse dagli esponenti di punta dell’avanguardia musicale raccolta nei seminari di Darmstadt. E se Bussotti non si è mostrato disinteressato alle nuove tecniche linguistiche, facendo propria la ricerca sperimentale, sebbene collocata in testi e contesti assai diversi e personali, più critico è stato il suo atteggiamento nei confronti della serialità e dello strutturalismo.

    La tecnica dodecafonica, mutuata dall’insegnamento di Dallapiccola,² e ancor più specificamente dall’amicizia con Carlo Prosperi,³ costituisce un apprendistato di breve durata e non troppo significativo: adottata quasi esclusivamente nelle prime composizioni giovanili inedite, si fonde da subito con forme musicali del passato, il madrigale in primis.⁴ Ed è proprio lo studio della letteratura madrigalistica, del suo humus culturale, del fondamentale rapporto che nel madrigale si instaura tra parola e musica a risultare decisivo nella formazione del compositore. La stessa tecnica dodecafonica, passata sotto il filtro di Dallapiccola, si poneva già, peraltro, in relazione con il portato lirico della tradizione italiana, laddove cruciale si rivela il rapporto musica-testo, riconsiderato nel segno dell’esperienza madrigalistica, ovvero quella «contemplazione dell’intervallo attraverso la parola», per usare un’espressione dello stesso Bussotti a proposito del declamato vocale dell’Ulisse.

    Sarebbe tuttavia ingenuo voler riconoscere un’adesione acritica alla tecnica e al mondo estetico del madrigale, e tanto più una sua riedizione tout court in ambito contemporaneo; si intende qui porre in risalto da un lato un apprendistato significativo, dall’altro la peculiarità di un contesto compositivo che fin dagli esordi assume come dato centrale la voce e il canto, considerati veicoli di estroversione espressiva e di quella tensione teatrale che investe fin da subito anche le composizioni strumentali.

    Se Due voci, del 1958, per soprano, onde Martenot e orchestra, inaugura il catalogo bussottiano nel segno di una riflessione sul rapporto voce-strumenti-testo, non poche sono le composizioni giovanili, rimaste prevalentemente inedite o riutilizzate in composizioni più tarde, che fanno uso della voce. Il carattere emblematico che assume inoltre questa composizione, che Bussotti ha voluto deliberatamente indicare come opus uno, viene esplicitato dallo stesso autore nel dichiararne il carattere intimamente espressivo:

    Ho proposto il richiamo a quest’opus uno soprattutto per sottolineare una certa coerenza nel tono intimo della mia vocazione musicale così diversa da ciò che comunemente si pretende o si crede. Intimità assolutamente estroversa, in senso espressionistico, anche lirico, persino romantico, addirittura sentimentale; tutte qualifiche che non ho il minimo pudore a rivendicare proprio perché fanno generalmente vergogna al tempo presente che è tecnologico e corre al futuro.

    E poco oltre:

    La vocazione non soltanto vocale, ma consapevolmente operistica del mio «temperamento», come si suol dire, non ho mai cessato di perorarla; e pretendo che la si ritrovi in tutte le composizioni di questo primo decennio d’attività. Anche nelle musiche apparentemente più lontane dalla scena, come il monumento pianistico di Pour clavier del 1961 o le Fragmentations del 1962, per un arpista con due arpe (una normale, l’altra preparata); per non parlare di Torso o di Memoria, scritti fra il ’60 e il ’63, composizioni che durano ciascuna almeno un’ora, per elaborati complessi sinfonico-vocali. L’analisi attenta, anche il solo abbandono all’ascolto partecipe, riveleranno sempre, qualunque sia l’apparenza, procedimenti fortemente intenzionati verso il palcoscenico.

    Quanto poi alle componenti mimetiche e semantiche che il rapporto musica/testo porta con sé, ovvero il ruolo che l’extramusicale assume anche in composizioni strumentali, si tocca qui un luogo cruciale della poetica di Bussotti, potendo affermare che tutta la sua produzione ne sia interessata. Con «extra» - titolo anche della rubrica mensile tenuta sulla rivista «Discoteca» tra il 1965 e il 1969, Extra: pubblichiamo il privato - Bussotti intende il contenuto imprescindibile di ogni sua composizione che si definisce attraverso una stratificazione di significati, di riferimenti, di simboli relativi alle motivazioni che ne stanno all’origine. In tale concetto rientra anche l’aspetto emozionale e privato, nonché l’elemento strettamente autobiografico, inteso anche in quegli aspetti aneddotici che fanno da côté all’opera stessa. Sotto il titolo di «extra» va rubricato, ancora, quell’infrangersi dei confini tra le arti e i generi tale per cui il dato musicale si amplia in quello pittorico, visivo, testuale, grafico, ricomponendo in questo allargamento la propria identità e il proprio senso. Così l’autore:

    (... pubblicare il privato urgeva come dire: depennando man mano di persona una dialettica extra - extra è termine ormai divenuto estremamente orecchiabile; lo si legge nei quotidiani, anche in quelli della sera o nello speciale del giovedì e della domenica; appare in una rivista patinata [l’Autore si riferisce a «Discoteca» sopracitata], presa a caso al n. 57, p. 26, rigo 17 - concretamente la vicenda musicale pubblica, che dell’umano è inseparabile alone, ogni vicenda pubblica dell’arte, si fa storia sempre più insidiata da una contaminazione di elementi presupposti estranei all’atto estetico. E i fatti collimano sempre meno; non fanno più storia? Futilità, filosofia del frivolo (quel tedescaccio del sud perfidamente calunniando Adorno), corrosivo delirio di singolari circostanze intorno a noi, pitture cantabili, musiche da guardare, sculture sonanti, apparecchi che irridono all’umano, invenzioni, tetre trovate, millenniluce di sinustono emanati con cecità dal metallizzato cervello che in blu-17 si illumina, illude... ed ora l’ambito tuo privato è anche invaso da strumenti per tale indagine senza rispetto. È così che la pagina diviene specchio a quei frammenti, schegge, di quella indagine riflessa con la parzialità già caldeggiata da Monsieur Croche Antidilettante, oggi ancor più immodesta nel rendersi, quasi quasi diaristica, come una rimanenza d’autobiografia, partito preso da ogni sua esperienza sentita come rara; e d’una rarità extra, la sola, l’inenarrabile...).

    In altri scritti meno ellittici, ma pur sempre a carattere intimo e diaristico, redatti in quella sua tipica prosa frammentaria, che pare ordinata, o dis-ordinata, in endecasillabi sciolti, piuttosto che espressa tramite una sintassi lineare e consequenziale, Bussotti approfondisce per appunti il concetto di «extra». Ci riferiamo a due testi, Extra, ed Extrapiù, pubblicati in questa successione in Disordine alfabetico ma risalenti il primo al 1981, il secondo al 1965. Riferendosi in particolare al rapporto tra musica e testo, il compositore intende chiarire quello che egli considera come un equivoco di fondo che parrebbe metter in discussione la sua poetica dell’extramusicale, la sua dedizione quasi esclusiva alle risonanze letterarie e la sua predilezione per la musica vocale. La ragione di tale equivoco andrebbe ricondotta proprio a quella componente fisica, carnale che pone lo strumento riproduttivo della voce in una posizione di assoluto privilegio in quanto «punto di contatto più diretto con l’uomo», e dunque strumento che propone al musicista

    un mezzo direttamente ricavato dalla natura, insito nella stessa carne dell’uomo, che attinge, per i suoi eventuali artifici, ai propri mezzi meccanici e psicologici e che, in ogni caso non si saprebbe conformare a nessuno strumento o altra invenzione di qualunque natura esistente oggi per la produzione musicale [...]. Credo che un equivoco estetico e secolare, e dei più dannosi, trovi origine e spiegazione in questo fatto. L’equivoco del rapporto suono-parola.

    Sarebbe dunque proprio la vicinanza, l’emanazione naturale della voce dal corpo umano a generare l’illusione di una traduzione agevolata di senso dal suono alla parola. Questo nesso, che l’autore non intende peraltro né sminuire né ridimensionare, ma solo chiarire, si dà su base intellettuale: appartiene, cioè, a una decisione precompositiva, intraducibile sul piano specificamente musicale, ma non per questo meno costitutiva del senso dell’opera.

    Credo anche che non ci sia in tutta la storia della musica un solo esempio probante che un rapporto estetico obiettivamente e razionalmente analizzabile e riconoscibile come tale, possa realmente esistere fra una qualsiasi espressione verbale e un’altra qualsiasi espressione musicale.

    I musicisti del mondo intero, da sempre, s’ingannano e ingannano il loro pubblico a questo proposito; inganno forse consapevole e disilluso poiché ogni analisi positiva o riposto parallelo, ogni intima stabilità in tal senso fra i due elementi è falsa o, per lo meno, non è completamente vera (il che significherebbe lo stesso).

    Il medesimo dualismo di musica e verbo è del resto un vizio [...].

    A rigor di termini non c’è autentico rapporto che su un altro piano.

    Di natura eminentemente intellettuale, quest’altra dimensione sarebbe tanto extramusicale quanto extraletteraria.

    Si tratta della scelta, preventiva, operata generalmente dal compositore, del testo poetico, letterario o di ogni altro materiale verbale che verrà utilizzato per la composizione.

    Parlo di scelta e di utilizzazione; di un’operazione, prima intellettuale e tecnica in seguito, attuata grazie ad una serie di trasposizioni mentali e materiali. Che impegna, del contenuto etico ed estetico dell’elemento verbale utilizzato, solo una parziale entità strettamente collegata agli impulsi soggettivi (spesso assolutamente privati) del compositore, da un lato, ed impotente, d’altro canto, a travasarsi concretamente nell’opera musicale se non attraverso il mero aspetto fonetico.

    Nella prospettiva così delineata si capisce come l’esperienza di Darmstadt (frequentata sul finire degli anni Cinquanta, periodo in cui, secondo il punto di vista dell’autore, la spinta propulsiva iniziale si mostrava già in fase discendente), sia vissuta in modo criticamente disincantato, e si riveli decisiva soprattutto per l’amicizia stretta con l’americano John Cage. La presenza di questo musicista ai seminari estivi della cittadina tedesca provocò un vivace confronto, sparigliando le posizioni in campo, soprattutto in merito al ruolo del caso e dell’indeterminazione nelle scelte compositive, e alle conseguenti problematiche legate alla musica aleatoria. Un’amicizia importante, che produsse influenze non secondarie, tanto che la critica del tempo riconobbe in Bussotti, soprattutto sulla base dell’adozione di consimili sistemi notazionali, basati su grafismi aleatori, una sorta di allievo dello statunitense. Vennero infatti sottolineati prevalentemente gli aspetti relativi alla componente provocatoria e negativa, al primato dello happening, trascurando un livello più profondo e inatteso di affinità tra i due musicisti, rinvenibile nella comune volontà comunicativa e nella fiducia che la musica possedesse mezzi adatti a realizzarla.

    Pur ponendosi dunque il rapporto tra Cage e Bussotti come problema critico aperto, individuato, ma non indagato, dalla musicologia corrente,¹⁰ si può qui portare l’attenzione almeno su un punto di contatto significativo, vale a dire la componente ludica, intesa non tanto come gioco - il che potrebbe ricondurre ad un aspetto provocatorio - ma in maniera più complessa come un far musica che si reinventa nel senso della rappresentazione, ludus appunto. In tale prospettiva, conseguenza determinante è quella di favorire un contesto di azioni espressive - musicali, gestuali, recitate, danzate - stratificate e riconsiderate all’interno di un inedito rapporto pubblico-esecutore-compositore; rapporto teso a definire una sorta di rituale, eversivo senz’altro, in relazione al concerto o alla rappresentazione teatrale tradizionali e ai rapporti che in essi si danno, ma non quanto alla possibilità di una nuova dimensione comunicativa. In questa ridefinizione del concetto di ludus, fondamentale è il richiamo al teatro di Artaud e di Grotowski soprattutto in relazione al tema dell’uso del corpo come fattore linguistico articolabile all’interno della composizione.

    Altro punto d’incontro si rivela essere poi, la critica allo strutturalismo e alla serialità e il conseguente superamento di quest’ultima all’interno di un’esperienza «aseriale».

    Il famoso critico tedesco Heinz-Klaus Metzger, di qualche mese più giovane di me ma tanto più maturo in sapienza ed esperienza dialettica, m’accompagnò a Darmstadt l’estate successiva [1958]. Devo dire che mi divertii un mondo. Gli italiani, in mezzo alla vasta internazionalità presente a quelle vacanze, s’organizzavano sempre in gruppi vistosi e compatti e si discuteva animatamente di serializzazione integrale; io compresi subito come quell’aria non mi confacesse e che l’unica personalità di statura eccezionale incontrata in quell’occasione fosse proprio John Cage, il quale svergognò spietatamente quell’avanguardia europea affondando le dita nelle innumerevoli piaghe della musica seriale e, paradossalmente, ricordando a me stesso la mia vera natura, pur così opposta alla sua, sensuale per eccellenza; negata alle matematiche severe, già sbeffeggiate dal Conte di Lautréamont, con le quali i compositori in serie si auguravano di aver sostituito per sempre il calcolo alla fantasia. Per conto mio avevo già iniziato da alcuni mesi la composizione che intendevo presentare, al pubblico e alla critica, come biglietto da visita per un esordio [si tratta di Due voci]. M’ero deciso ad accantonare per il momento tutte le esperienze precedenti per dar retta apparentemente a Boulez nel tentativo di superare la serialità imperante ed iniziare l’esperienza aseriale (così come dopo la musica tonale, fu la rivoluzione atonale a rinnovare il linguaggio) che, per ciò che mi riguardava, era l’unica via di progresso.¹¹

    Quanto all’altra punta dell’avanguardia musicale del dopoguerra, Pierre Boulez, conosciuto, ancor prima di Darmstadt, a Parigi, quando il fiorentino frequentava le lezioni di composizione tenute da Max Deutsch, essa viene vissuta nel segno di un rapporto problematico, ma all’interno di un dialogo, ora virtuale, ora reale, mai interrotto.

    Allora conobbi anche Boulez, il quale con fredda e rigorosa franchezza, pur riconoscendomi un vago talento artigianale, mi buttava a mare integralmente tutto quello che avevo composto fin qui; composizioni a suo parere largamente influenzate da quel canoro stile dodecafonicomediterraneo, da lui particolarmente detestato, che non faceva testo né moneta corrente in seno alle avanguardie del momento per le quali contavano soltanto leggi emanate all’annuale concilio di Darmstadt.¹²

    Ma a distanza di anni, il tributo di stima nei confronti di una personalità da lui tanto lontana si approfondiva in un’indagine della sua musica condotta con l’affettuosa presunzione di coglierne aspetti poco o per nulla sondati, in direzione di una sostanza espressiva presente malgré lui e di quella «totalité de l’insolite», per dirla con le parole del poeta Dieter Hülsmanns, usate anche nella Passion selon Sade, atta a liberare la conoscenza.

    Nell’opera di questo musicista il suono e soltanto il suono, sorge, dall’infinito dettaglio alle forme più vaste, dotato di coesione che diremmo innata con i molteplici elementi e del pensiero e del senso che generano la vita, per cui conosce, reca in sé la sintesi della propria storia in uno con l’atto di continuità che ogni sintesi autentica compie. [...] Edificando consapevolmente architetture inabitabili come la monumentale Cantata di cui tanto parlo [Visage Nuptial], nascondendone con la massima cura gli accessi, oscurandone le finestre e vie d’aria, portando orizzontalità e verticalità così oltre da vanificarne il contesto, creando il monolitico moto perpetuo, e concentrico, di una sola gittata, rendendo tutto ciò con metodo stretto, trasparente aereo e al tempo stesso impenetrabile ad una intelligenza parziale, trascinando l’udito verso una compenetrazione totale nel flusso sonoro che non lasci alcuno spazio indefinito, ma che compiendo il tutto all’estremo sacrifica la personale fisionomia per liberare la conoscenza verso la totalité de l’insolite, dotarla di un nuovo, ma perenne, dono, è parte di un atto formale che Boulez crea di sana pianta, e non dal nulla, ma dal possedere d’un sol tratto la forza arcaica di una semplice corda vibrante, il medievale taglio delle ombre, l’arte cortese delle polifonie, il fasto rinascimentale e poi barocco di squilli e decorazioni, la linea disincantata dell’illuminismo ed il tratto cantabile rubato ai pudori romantici, - piuttosto che agli eccessi suicidi - di un rapido, precipite oblio nel giuoco delle forme che aprirà il nostro secolo con la chiusura puntuale di un ciclo immane e desertico. Boulez raccoglierà in questo modo la storia, nel senso immaginario di ricomporre ogni lacerazione, al cuore di uno scrigno inviolabile, nell’emblema chiarito.¹³

    Ancor prima, a Leonardo Pinzauti che gli chiedeva a quale autore del passato o del presente si sentisse particolarmente grato per i suggerimenti ricevuti, sia sul piano della curiosità che su quello dell’apprendimento artigianale, Bussotti rispondeva che dopo Mahler, questi erano Dallapiccola e Boulez - e un Boulez indagato e amato nella concreta sostanza dell’opera musicale, oltre le polemiche fuorvianti, messe in atto da un dibattito teorico a volte ideologicamente inficiato.

    E se c’è tutto un periodo dell’opera di Dallapiccola che mi commuove come i Kindertotenlieder non c’è minima novità di Boulez, non ci sono dieci note di Boulez (fatte con tutta la fatica che si conosce, con i drammi che si vuole) che non suscitino in me un interesse enorme, ben oltre le chiacchiere e le polemiche in cui Boulez è sempre coinvolto.¹⁴

    Immediati risvolti ebbe invece la conoscenza dell’esegeta dell’avanguardia degli anni Sessanta, Heinz-Klaus Metzger, dedicatario della Passion selon Sade, che ai corsi estivi di Darmstadt lo introdusse, soprattutto per il costituirsi di uno scambio culturale che influenzerà, talora direttamente, le scelte relative alle opere immediatamente successive.

    Fatta salva la ricerca sperimentale sul linguaggio, Bussotti marca dunque la sua diversità con lo strutturalismo e la serialità all’interno del contrasto, polemicamente individuato, tra calcolo e fantasia, meccanico e umano, espressione soggettiva e rigorismo oggettivistico, ma anche accogliendo altre istanze scarsamente praticate o inattive sul fronte seriale. Tra queste, ruolo primario assume la letteratura, esperita attraverso il filtro personale della passione, e dunque degli amori letterari coltivati fin dalla fanciullezza, e ora fatta agire all’interno del proprio fare musicale, resa funzionale alla tecnica compositiva.

    È nell’ambito di questi interessi che viene a maturazione quella familiarità con la cultura francese già mostrata in età giovanile; un amore lontano, coltivato fin dai tempi del Conservatorio, come conferma il gustoso aneddoto del regalo da parte di Dallapiccola di un vocabolario di francese che avrebbe soddisfatto interessi letterari, se non prevaricanti, pari almeno a quelli compositivi.¹⁵ Tali interessi ridiventano attuali, emergendo come impulso necessario, proprio nella fase cruciale del rifiuto dello strutturalismo e si traducono nel ricorso - apparentemente fortuito, ma per la sensibilità bussottiana proprio per questo dotato di quella forza che ogni cosa emergente come d’improvviso dall’inconscio possiede - a un testo poetico di La Fontaine sulla voluttà:

    Ancora dagli amori giovanili ormai lontani per una certa letteratura francese, portavo in me il ricordo di un frammento poetico di La Fontaine - autore universalmente noto a causa delle Favole, in realtà uno fra i più grandi poeti romantici - che nell’impossibile tentativo di una traduzione italiana suonerebbe così: Voluttà, voluttà che un dì fusti Maestra.¹⁶

    Si tratta della già citata composizione Due voci che di La Fontaine utilizza qualche frammento poetico. L’emblematicità di questa prima opera del catalogo bussottiano, già rilevata a proposito delle valenze espressive connesse alla voce, si conferma dunque, in un altro aspetto, pure in controtendenza rispetto all’humus avanguardistico, quello relativo al contesto extramusicale che ne è alla base e ne costituisce motivazione e senso. Un «extra» in cui si ravvisa un tipico intreccio di interessi umanisticamente indirizzati.

    La scelta della coppia vocale, costituta da soprano e onde Martenot in dialogo-opposizione con l’orchestra, rimanda inoltre a suggestioni semantiche relative all’opposizione uomo-macchina, individuo-massa, voce naturale-voce artificiale, tecnologia-alienazione, tematica che costituirà un luogo importante anche nella poetica di Bruno Maderna, emersa già nel 1952 con Musica su due dimensioni per flauto e nastro magnetico.¹⁷ Ma tale coppia si richiama anche, come testimonia lo stesso autore, in un misto di sentimentale memoria autobiografica e gusto per la «reminiscenza manieristica», a un quadro di Botticelli raffigurante Minerva e il Centauro. Un riferimento in cui più che il valore del dipinto, peraltro giudicato modesto, conta il clima di suggestione favolistica suscitato nel compositore quando era bambino e richiamato poi, o meglio ricontestualizzato, con il relativo portato semantico, nella realizzazione musicale. Si coglie in questa prima opera uno stretto intreccio, destinato a fissarsi come una costante nella produzione futura, tra l’elemento culturale, filtrato attraverso un’auctoritas, per lo più antica, l’elemento autobiografico e le specifiche tecniche compositive o comunque l’articolazione linguistico-formale che le prime in qualche modo ingloba:

    pensai per prima cosa come mi ripugnasse l’idea della solita cantata col solista contrapposto alla massa orchestrale; è così che mi vidi costretto ad azzardare un accoppiamento giudizioso: dare al soprano una sorta di gemello siamese strumentale, affiancandolo con uno strumento insolito, capace di ampliarne, imitarne, corromperne, esaltarne ed anche criticarne la voce: uno strumento del genere, naturalmente non esiste. Le onde Martenot, che ho finito per scegliere in mancanza di meglio, è uno strumento che sfiora alcune di queste possibilità, ma che ha gravi limiti causati dalla sua natura di giocattolo para-elettronico, con la conseguente sgradevolezza di alcune tipiche sonorità prefabbricate e il vizio del glissando; ciò non ostante, la sua scelta fu uno stimolo di prim’ordine per indurmi a costruire tutta una rete di sottilissime riverberazioni orchestrali che impastassero insieme i due timbri, spesso inconciliabili, della coppia solistica. Questa coppia, dall’inizio alla fine della partitura, risulta avvinta in un amplesso ininterrotto. Intitolando Due voci la composizione non intendevo, infatti, significare che il «solista» in senso tradizionale, in questo caso si suddivideva fra due presenze distinte; il solista è qui una specie di centauro, mezzo donna e mezzo elettronico, dialogante a se stesso di fronte all’orchestra, la vera seconda voce, quasi come reminiscenza manieristica di un mediocre dipinto del Botticelli, Minerva e il centauro, ma che nell’infanzia m’aveva lasciato sognare incontri tanto favolosi.¹⁸

    Conseguentemente a tale rinvenimento letterario ed extramusicale, e alla riaffermazione di una sentimentalità soggettiva connessa all’espressione musicale, Bussotti si pone su un fronte opposto rispetto a quello occupato da quei compositori

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