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Da Schütz a Hindemith: Saggi su  musica e musicisti
Da Schütz a Hindemith: Saggi su  musica e musicisti
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E-book352 pagine5 ore

Da Schütz a Hindemith: Saggi su musica e musicisti

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Il vero e più profondo impulso a occuparmi di questa silloge di saggi è venuto dall’imperativo categorico di assolvere un debito di gratitudine e dall’implicita ammirazione per uno dei maggiori musicologi che la storia di tale disciplina annoveri. Studioso ebraico, nato a Monaco nel 1880, scampato alla furia nazista mediante la fuga prima anche in Italia, terra da lui fra tutte agognata, poi, a causa delle leggi razziali fasciste, negli USA, ove peraltro fu accolto onorevolmente e ricoprì prestigiose cattedre musicologiche universitarie (…).

In questa silloge di saggi pubblicata postuma, serpeggiano sottili, gradevolmente acri, venature di umorismo tutto ebraico, si direbbe tipicamente yiddish, pur espresso con pacatezza socratica. Nel complesso si coglie una fiamma che li avviva, che non si estingue, che brucia in perpetuo. La musicologia come vocazione, come investitura, radicata nella Mitteleuropa, percorsa sulle orme di Goethe, di Winckelmann, conseguendone la palese preferenza per singoli compositori. Già risulta eloquente il titolo complessivo Da Schütz a Hindemith, ossia al cosiddetto “Bach del Novecento”. Sugli scudi appunto il capostipite Schütz, trattato monograficamente, Bach, Händel, Haydn, Mozart, Beethoven, lo stesso Wagner, pur accanito anti-semita - nobile l’imparzialità di Einstein nel rilevarne comunque la grandezza. Tra gli italiani, la preferenza assoluta tocca ovviamente a Verdi

(dalla prefazione di Francesco Bussi)
LinguaItaliano
EditoreLIM
Data di uscita28 nov 2022
ISBN9788855432047
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    Anteprima del libro

    Da Schütz a Hindemith - Alfred Einstein

    1.

    HEINRICH SCHÜTZ

    "Heinrich Schütz nacque l’8 ottobre 1585 a Köstritz, un bel posticino situato sull’Elster nel Voigt, si trasferì con il padre Christoph Schütz nel 1591 a Weissenfels, ove il nonno, Albrecht Schütz, tesoriere comunale, era morto e aveva lasciato dei beni. Il padre è per un certo tempo borgomastro di Weissenfels; però per la sua bella voce il 20 agosto 1599 è assunto alla corte del langravio Moritz von Hessen-Kassel, e ivi è citato, per le varie lingue, le arti ed altre attività, fra conti, aristocratici e altri valenti per ingegno. Nel 1607 riceve il permesso di frequentare con suo fratello Georg e il figlio di lui, Henrico, l’università di Marburg, vi si dedica allo studium juris e in poco tempo dimostra con una disputa, De Legatis, di non aver impiegato male il suo tempo. Quando nel 1609 giunge a Marburg il langravio Moritz, egli si chiede per quale ragione il langravio l’abbia cercato: perché ha notato in lui una spiccata inclinazione alla musica, e se a Venezia fosse ancora in vita il celeberrimo musico Giovanni Gabrieli, egli (il langravio) sarebbe disposto a mandarvelo a sue spese perché potesse proseguire a dovere lo studio della musica. Accoglie con la più fervorosa riconoscenza la gentile offerta, l’anno stesso s’incammina per Venezia e vi permane presso il suddetto musico per quattro anni, più di quanto non vi si fossero trattenuti sino allora altri suoi compagni, riuscendo anche a far pubblicare un lavoretto musicale. Dopo la morte del suo maestro nel 1612, si rivolge nuovamente all’illustre langravio, che tosto gli elargisce 200 fiorini, in attesa di una sua sicura sistemazione; ma siccome a Heinrich non piace rimanere in tale situazione riguardo alla musica, preferisce riprendere in mano i suoi libri per recuperare quanto aveva perduto in Italia. Ma dopo che nel 1615 il Principe elettore di Sassonia Johann Georg I, battezzato come secondo Principe Augustus, lo convocò a Dresda e gli affidò la direzione della locale musica elettorale, egli se ne dimette. Per quanto gli fossero stati donati una catena e un quadro, e risolve di sposarsi il 1° giugno 1619 con Magdalena, figlia di Christian Wildeck, contabile ed esattore delle tasse per conto dell’Elettore di Sassonia, ne ha due figlie; il 6 settembre 1625 gli muore l’amata sposa; l’11 agosto 1628 gli è concesso di tornare in Italia. Il 25 agosto e il 1° ottobre 1631 gli muoiono il padre e il suocero. Nel 1629 fa stampare a Venezia le sue Symphoniae Sacrae con lo pseudonimo latino di Sagittarius. E malgrado l’incessante serie di eventi bellici, egli continua a viaggiare da un luogo all’altro, sempre con il consenso dei superiori; nel 1634 lo si trova a Copenaghen presso il sovrano di Danimarca; nel 1638 è a Braunschweig e a Lüneburg; e nel 1642 torna in Danimarca per dirigere la musica di corte. Alcuni anni prima della morte il suo udito decresce, laonde per cui trascorre la maggior parte del tempo nella lettura della Sacra Scrittura e di altri libri teologici, eppure realizza ancora magnifiche composizioni su salmi, soprattutto sul centodiciannovesimo; compone inoltre con grande cura Passioni secondo i tre evangelisti Luca, Matteo e Giovanni. Affetto da vari disturbi, riesce sempre a riprendersi mediante il ricorso a utili medicine; finché il 6 novembre 1672 la morte lo coglie all’età di 87 anni e 29 giorni, dopo essere stato per 59 anni maestro di cappella della corte di Sassonia."

    Il probo Johann Gottfried Walther nel suo Musicalisches Lexicon del 1732 ci esime dalla fatica di narrare nella nostra lingua più morta e più affinata la vita del più grande musicista tedesco del Seicento, morto da un quarto di millennio. La Vita, che egli, attenendosi al sermone funebre del predicatore di corte dell’Elettore di Sassonia Martinus Geier su Schütz, ci tramanda, non è affatto completa — oggi la possiamo integrare di molti particolari per il tramite degli atti e soprattutto delle numerose lettere di Schütz — ma ciò che essa ci comunica è per lo meno giusto e ci può bastare. Vi si traccia rozzamente il destino borghese di una personalità, che in tutto era il contrario del borghese, che era assolutamente aristocratica — se solitudine e isolamento nobilitano —e che si colloca quieta, vulnerabile, compassata in tempi duri, adempiendo un grande compito di mediazione e di esemplarità fra i più ardui ostacoli: onorato come padre della musica tedesca, ma incompreso, da giovane come innovatore avveniristico, da vecchio, artisticamente antiquato. Ci è pervenuta solo una minima parte della sua produzione, anche se tale minima parte occupa diciassette volumi; la maggior parte, fra cui tutti i suoi lavori di specie rappresentativa, sono andati distrutti negli incendi dei castelli di Dresda e di Copenhagen; e sino a oggi il destino non ha fatto abbastanza per la gloria postuma di questo straordinario uomo e maestro. Schütz spicca singolarmente tra tutti i musici veramente grandi, poiché in certo senso non è un musico, tantomeno un musicante: per così dire egli sovrasta la musica. È arrivato alla musica più tardi di qualunque altro maestro; alla corte del colto Moritz, lui pure competente dilettante di musica, ha respirato a pieni polmoni aria musicale italiana, soprattutto norditaliana, ma prima del suo ventiquattresimo anno di vita aveva coltivato la musica in senso puramente amatoriale. Due circostanze lo costringono alla professione, al mestiere del musico: anzitutto l’incitamento del suo signore a compiere i primi seri studi in Italia, indi il suggello che l’Elettore di Sassonia imprime sul destino musicale dell’indeciso con inoppugnabile forza. Ma ancora nell’anno 1651 l’ormai invecchiato, deluso, amareggiato getta ai piedi dell’Elettore stesso, uno zotico con la corona in testa, l’ammissione del suo pentimento — una volta assunta la direzione della cappella elettorale —, per avere prodigato il vigore della sua vita per l’arte della musica, misconosciuta e sottovalutata in Germania: quale musicista tedesco, da Ludwig Senfl a Bruckner e Reger, per i quali la musica era obbligo e insieme aria di vita, avrebbe potuto pronunciare tale parola! Per Schütz la musica non è un assoluto, bensì uno strumento, un mezzo finalizzato all’espressione, più potente della parola, sia esso biblico o mondano. Egli è il musicista più intellettuale che si conosca. Per lui la musica è uno strumento politico: la invigorisce mediante l’apporto di elementi stilistici plasmati giusto allora dalla artisticamente potente Italia (vedremo in quale forma lo attuò, lo volle attuare); si sente responsabile per l’estinzione della musica in tempi tremendi, che minacciano di annientarla in Germania: questo almeno hanno riconosciuto i contemporanei e lo hanno ringraziato e onorato, a detta di Wolfgang Caspar Printz, come padre della nuova musica tedesca e come il migliore di tutti i compositori tedeschi.

    I più importanti e decisivi eventi d’arte della vita di Schütz sono i suoi due viaggi d’istruzione in Italia. È uno dei grandi musicisti tedeschi, come Händel e Mozart, che si sono confrontati realmente con l’arte del sud, non l’hanno semplicemente adottata, come Hans Leo Hassler, che si è dato anima e corpo ai suoi modelli. La prima permanenza, dal 1609 al 1612, consiste nel periodo di apprendistato con l’allora più grande musicista italiano, Giovanni Gabrieli, organista in San Marco; la seconda, dal 1628 al 1629, scaturisce dall’impulso di crescita del già formato, che vuole apprendere come non meno sia mutato il modo di comporre in musica, lo stile, come si sia deviato in parte dall’antica maniera di esprimere e si tenda a titillare gli orecchi di oggi con un nuovo solletico (cognovi modulanti raionem non nihil immutatam antiquos numeros ex parte deposuisse, hodiernis suribus recenti allusuram titillatione). Entrambe le volte egli soggiornò a Venezia: Venezia, la protettrice di Fra Paolo Sarpi, l’unica città d’Italia in cui il protestante del nord si poteva sentire incontestato e accolto familiarmente: Venezia però anche — almeno al tempo del primo viaggio di Schütz — la città conservatrice in fatto di musica, che consentì e facilitò allacciamenti all’allievo proveniente dalla Germania. Le grandi dispute circa il nuovo stile monodico erano esplose da tempo a Firenze, Mantova, persino a Roma: ma Venezia non si affrettava a riconoscere la vittoria degli iconoclasti del contrappunto. Ciò che Schütz ha appreso da Giovanni Gabrieli, è l’antica arte del sedicesimo secolo; sul solido fondamento della polifonia si erge la nuova mirabile struttura degli elementi policorali splendidamente mischiati, vocali e strumentali, solitici e corali, omofonici e polifonici, e proprio accanto a questo concertare delle voci singole sul basso continuo, benché anche in seguito tali procedimenti gli abbiano recato frutto. Tuttavia Schütz non ha rinnegato l’antica arte a cappella del sedicesimo secolo, e in un periodo in cui in Italia lo stile antico è diventato artificioso, rigido, pietroso, semiscolastico, semiarcaistico, pubblica ancora (1648) la Geistliche Chormusik: mottetti, che paiono scritti prima del peccato originale dell’arte concertante, così puri nello stile, che a Schütz può capitare d’inserire in buona fede nella sua opera a stampa, come propria creazione, una composizione del suo maestro Gabrieli datata 1587, in cui un tempo aveva sostituito il testo latino con uno tedesco. Tali mottetti sono scritti consapevolmente e dichiaratamente in opposizione al basso continuo e al concertare:

    Poiché […] per tutti i musici istruiti in buone scuole è fuor di dubbio che nello studio più arduo del contrappunto nessuno abborda in buon ordine altre specie di composizione, e che lo tratti come si deve se non si è esercitato prima abbastanza nello stile senza basso continuo, e non acquisisce bene i requisiti (questi e altre); Fugae semplices, mixtae, inversae, Contrapunctum duplex: Differentia styli in arte Musicâ diversi: Modulatio vocum: Connexio subjectorum, &c. E altro ancora: di ciò i dotti teorici scrivono estesamente, e nella Scholâ Practicâ gli studiosi di contrappunto vengono istruiti a viva voce; senza i quali nessuna singola composizione di esperti compositori (sia pure quella che sfugge a orecchi non ben coltivati, che potrebbe manifestarsi come armonia celeste) potrebbe sussistere, o essere apprezzata non più di una testa vuota.

    È un’ammonizione contro il dannato dilettantismo, che sta in agguato dietro al nuovo stile; la espressione di questi pezzi destinati al pilsiense coro della Thomaskirche per i tempi di festa dell’anno chiesastico si vincolano all’arte più elevata; il loro paradigmatico proposito perdurò efficacemente fino a Johann Sebastian Bach, che forse di Schütz non ha conosciuto una sola nota, però grazie a lui è cresciuto non in un’aula di scuola contrappuntistica, ma in un libero clima polifonico. L’uomo che termina così immerso in contemplazione, ha certo iniziato con ardore giovanile, il più giovanile possibile. Nel tempo di apprendistato con Gabrieli, 1611, pubblica un libro di madrigali su testi italiani; diciotto pezzi, dei quali cinque su frammenti lirici del Pastor fio di Guarini, non meno di dieci su testi del lirico-epigrammatico virtuoso Giambattista Marino. Quanto si è sbagliato il primo scopritore di Schütz nel diciannovesimo secolo (1834), Carl von Winterfeld, nel supporre che questo libro di madrigali a lui ignoto fornisce la testimonianza più della scuola severa secondo l’antica arte del comporre che dell’orientamento intellettuale-spirituale proprio del suo autore! Non c’è lavoro di Schütz che sia più audace, meno scolastico. È proprio il moderato dell’espressione a essere escluso, l’eccessivo, l’ultra-animato elevato a principio; l’irradiante sentimento si avvale del più forte e libero mezzo della declamazione, dei motivi contrastanti, dell’armonia: non è dato documentare un modello tanto immediato, qualcosa di così esemplare in Andrea e Giovanni Gabrieli, Gesualdo da Venosa, Monteverdi, Marenzio — questi pezzi sono meglio strutturati, meno giocosi, meno intrecciati, più profondi di qualunque altro italiano. Sono proposte nell’esempio 1 le prime tre righe di un madrigale.

    Esempio 1

    E che qui non si tratti di un errore di gioventù, di un peccato di gioventù, stanno a dimostrarlo la Cantiones sacras del quarantenne (1625), cioè l’autentico opposto del profano lavoro di gioventù. Se c’è un marinismo in musica — l’espressione del tormento e della dolcezza sino allo spasimo, l’esaltazione sino allo sbocco nel misticismo — questo lavoro lo dimostra appieno. Ma qui non si nota alcun segno di decadenza (e nemmeno lo si nota in Marino): inoltre è troppo potente e vivida l’arte di plasmare, che risulta dal controllo e dal raggruppamento di queste quattro voci individualizzate al massimo (l’omofonia è evitata del tutto) in un tutto organico. È d’obbligo mostrare in dettaglio come Schütz torna a impiegare motivi contrastanti:

    Esempio 2

    e come egli esaurisce tale contrasto in pura musica, senza minimamente scadere nel formalismo; come questo principio lo induce a coniare motivi dei più fini e penetranti; come egli, per accrescere l’incisività, inventa doppi motivi per una e una stessa immagine (n. 31, Veni, rogo, in cor meum). Ci si chiede invano a quale scopo chiesastico può essere servito un capolavoro di tale purezza; non è musica di chiesa, è piuttosto musica che si libra fra le confessioni. Per metà Schütz ha ripreso (?) i suoi testi dai salmi e dal Cantico dei cantici, per l’altra metà li ha desunti però dai Soliloquia e dal Manuale Divi Augustini del gesuita Heinrich Sommalius quale libro di contrizione. Qui Schütz s’inoltra nelle regioni del soggettivo, ove il vincolo confessionale non ha più ragione di essere. È qui anche il caso di parlare della singolare posizione di Schütz nei confronti del corale protestante. In un periodo di profonda depressione psichica, dopo la perdita della moglie, ha scritto Lieder spirituali a quattro voci, melodie basate sul rimaneggiamento strofico del salterio ad opera del predicatore lipsiense Cornelius Becker; non ha tenuto in gran conto questo lavoro — come del resto anche l’invenzione di melodie liederistiche —, benché sia stato quello di maggior successo; e malgrado il successo nessuna delle quasi cento melodie, benché rivestite in parte di preziose armonie, è divenuta un corale. E neppure ha riservato maggior apprezzamento per la tradizione del corale. Non si dica che allora si era ancora in tempi in cui il corale fruiva di creazione viva, attuale: il corale protestante era qualcosa di sacrosanto, in cui testo e melodia erano inscindibilmente uniti già per Hans Leo Hassler, e di sicuro per i contemporanei e amici di Schütz: Prätorius, Schein, Scheidt. Schütz scioglie tale legame, avvalora il testo e getta via la melodia come una buccia; oppure sceglie — abbastanza di rado! — la melodia in modo d’avere la mano libera per comporre in stile concertante o in stile mottettistico: per lui la melodia non è qualcosa di saldo, di intoccabile. In questo egli non è che un precursore di Bach, il cui albero genealogico risale a maestri che hanno coltivato un ideale esclusivamente strumentale; invece Schütz — del quale in verità non ci è pervenuto alcun pezzo strumentale autonomo — crea i suoi preludi e i suoi interludi solo in riferimento a una composizione vocale. La missione di Schütz consiste nel trasmettere l’arte del sud alla patria. Pensa alla Germania in Italia, all’Italia in Germania. La sua dedizione al modello italiano appare sconfinata. Ha impiegato in suoi lavori composizioni di Monteverdi e di grandi come segno di devota obbligazione; chi volesse scrivere una grande monografia su di lui, che ancora manca — nonostante gli Opera omnia curati da Spitta e i raffinati studi dello stesso Spitta su Schütz —, dovrebbe possedere una conoscenza esauriente della pristina arte veneziana, da Andrea sino a Giovanni Gabrieli, una quasi completa di tutta la produzione di Viadana, Monteverdi, Alessandro Grandi, Giovanni Rovetta e di molti loro vicini, e non solo di questi nuovi nord-italiani e veneziani, ma anche dei fiorentini, nonché dei napoletani (per i quali Schütz una volta manifesta epistolarmente particolare interesse). Egli riconoscerebbe, sorprendendosene, l’entità, la portata e la sconsideratezza dell’imitazione, ma anche il fatto che essa non comporti pericoli; infatti Schütz è infinitamente superiore ai suoi modelli se non come musicista, almeno quanto a profondità umana.

    L’opera che rispecchia l’influenza veneziana nel periodo di apprendistato sono i Psalmen Davids sampt etlichen Motetten und Concerten del 1619. Tale pubblicazione significa per Schütz il culmine della felicità umana e della fortuna artistica: egli appone alla dedica la data delle sue nozze; la grande guerra era agli inizi e non aveva ancora interessato la Sassonia; la cappella di Dresda disponeva ancora di tutti i suoi mezzi. Come egli stesso dichiara, Schütz ha musicato questi suoi salmi in stylo recitativo [che finora in Germania è quasi sconosciuto], perché a mio avviso per comporre salmi non c’è quasi modo migliore e si può continuare a recitare le parole in quantità senza continue ripetizioni — ma non si tratta di monodia, bensì di una potente recitazione corale, di composizioni costituite da due, tre, quattro cori strumentali e vocali alternamente concertanti, dei quali l’uno toglie all’altro la parola di bocca, sempre attenendosi a spiccata animazione ritmica. Solo in alcuni s’immischia la contrapposizione di solo e tutti, e tosto vi s’insinua l’elemento fioritura, che figura come addobbo estraneo, al pari dell’italianeggiante, scherzoso effetto d’eco del centesimo salmo. Ma è un caso raro: la maggior parte dei pezzi rappresenta quanto di più solido e potente Schütz abbia scritto d’imponente impianto architettonico, che si fonda sull’espediente del refrain corale, del contrasto nella dossologia di chiusa. Due di questi salmi: Ist nicht Ephraim mein teurer Sohn (a quattro cori) o Zion spricht (altrettanto), dotati del più ricco e fondo apparato strumentale, spirano una grandezza biblica, quale neppure in un Händel si riscontra. Nella cerchia di questi lavori s’inscrive anche una delle maggiori creazioni di Schütz, le Musikalische Exequien del 1636, composte per le onoranze funebri da tributare al suo sovrano Heinrich Reuss, in circostanze postume: un Konzert in Form einer deutschen Begräbnis-Missa, un imponente precursore del Deutsches Requiem di Brahms; basato su un assemblaggio di testi biblici liberamente trascelti, progredisce in intimo fervore dal cordoglio all’esultanza: è il lavoro di Schütz da cui traspare con la massima chiarezza quanto Bach gli sia debitore.

    I Kleine geistliche Konzerte del 1636 e del 1639, scritti dopo il secondo viaggio in Italia, costituiscono in senso puramente esteriore l’opaco o fosco contrario dei lavori suddetti. La guerra ha distrutto tutto, gli spazi, le risorse, festosità e la gioia, nel popolo e nelle architetture. Ecco allora che Schütz scrive piccoli e miseri pezzetti da una al massimo cinque voci su basso continuo; il complesso ridotto è un mero surrogato, la potenza espressiva è rimasta. Le due vere e proprie monodie — in stylo oratio — son autentiche gemme; impresse di aperta cantabilità, grazie alla ripetizione e alla moltiplicazione dei motivi, incluso il procedimento detto rosalia: eppure quali risultati retorici e più che retorici, davvero incredibili, Schütz ha conseguito con mezzi scadenti! Quale nuova e assolutamente non più italiana concezione del concertare ci viene da questi pezzi a due o più voci di Schütz! In Italia due o tre voci concertanti mirano quasi sempre (con le debite eccezioni) a passare da una palese funzione complementare, da una sorte di gioco della palla mediante motivi alla convergenza nella beatitudine dell’omofonia. In Schütz l’impianto di un pezzo in stile concertante è molto più serrato; le due o tre voci sono gelose l’una dell’altra; vi si riscontrano passi di specie geniale, come nel duetto Der Herr schauet, ove alla fitta, indi cantabile imitazione seguono tratti della più incisiva declamazione, e questi tratti sfociano infine in canone. Vi si trova anche qualcosa di assai italiano, come un corale elaborato a cinque voci (Ich hab mein Sach Gott heimgestellt) — una serie di variazioni concertanti su basso ostinato: invenzione sconcertante e quasi irrispettosa. Schütz ha elaborato similmente come ciclo di variazioni anche il corale Allein Gott in der Höh. Del tutto inattesa compare però in quest’opera la scena drammatica, l’Annunciazione a Maria — ideata molto realisticamente, ma alla fine trasposta in chiesastica luce oratoriale per il tramite di una sinfonia e della ripetizione a cinque voci delle ultime parole di Maria.

    La più superba, più moderna acquisizione, che Schütz abbia portato con sé in patria dalla seconda permanenza in Italia, fu il solistico mottetto concertante con strumenti: la Symphoniae sacrae, la prima parte, 1629, stampata ancora in Italia, le due altre opere tarde del 1647 al 1650. L’organo umano concerta con gli strumenti, preferibilmente con una coppia di strumenti; non mancano mere elaborazioni sinfoniche; le capacità virtuosistiche degli strumenti si riverberano sulla modellatura più adorna, più barocca, più ricca di coloriture della linea di canto. Tuttavia ci sono punti e interi pezzi, in cui gli strumenti non ostentano più alcun legame motivico con le parti vocali; e tali pezzi sono soprattutto le Szenen di Schütz: il Lamento di Davide per Assalonne, la cui potenza d’espressione lo innalza al di sopra di tutti i modelli italiani; la grandiosa composizione sulla parabola del seminatore secondo il Vangelo di Luca; l’inaudita scena della conversione di Saul, che decretò la fama di Schütz nel diciannovesimo secolo e cui l’intera arte figurativa non ha nulla di simile da accostare.

    Con ciò si è qui giunti a considerare i cosiddetti lavori drammatici di Schütz, che, tenuto conto della sopravvalutazione del drammatico in genere lungo il diciannovesimo secolo, forse hanno fruito di un riconoscimento eccessivo entro il vasto apprezzamento tributato al maestro. I profani: il Dialogo di Apollo con le Muse del 1617, la prima opera tedesca Dafne, rappresentata nel 1627 a Torgau, e le composizioni per Copenaghen, un balletto su morte e apoteosi di Orfeo, poi ancora l’Orfeo musicato per Dresda nel 1638 — lavori perduti. Si trattava di spettacoli di festa, misti di monodia, cori, balletti, ritornelli e sinfonie. Può riuscire consolatorio il fatto che l’operista abbia trovato un ostacolo del deficiente sviluppo e nella latitante scioltezza della poesia tedesca, similmente allo Schütz compositore profano, che, diversamente da Johann Hermann Schein, anche in questo settore ricerca passione, cupezza, forza e non può appagarsi di pastorali, scherzi e pantomime. Invece molto ci è pervenuto dello Schütz melodrammaturgo evangelico: Scene, Storie, Oratori, Passioni. In alcuni il dramma appare alquanto velato. Nella Storia della Resurrezione di Gesù Cristo (1623) i soliloquenti, Cristo stesso, si esprimono a due voci; nelle mirabili Sette Parole l’Evangelista svaria da una voce all’altra, dai soli al coro. Ma le tre Passioni e la Storia della Nascita di Gesù Cristo sono passioni, sono un oratorio in senso tardo, in senso nostro: non naturalistici, ma realistici, toccanti, coinvolgenti, penetranti, narrati e rappresentati pittoricamente; e tali sono anche i lavori, che più spesso ci hanno avvicinato a Schütz.

    Ma ci si dovrebbe accostare a Schütz in tutte le sue manifestazioni. Egli si colloca, in un certo senso, facilmente frainteso, tra due epoche; tra Palestrina e Bach, in un secolo di rivoluzione, di formazione di nuove forme. La sua posizione storica gli ha impedito di attingere classicità e compiutezza nel nuovo stile; quando è anziano, tale stile è quasi giunto a compimento in Italia, ma lui non lo accetta più, non lo vuole più accogliere. Il ponte fra vecchio e nuovo è aperto per lui; lo si può attraversare, ma non ci si può insediare. Eppure questa circostanza, questa situazione di incompiutezza ha consentito a Schütz una verità immediata, una più intima fusione di parola — parola tedesca —e suono, come a un maestro di tempi più o meno tardi, impresso di una forte impronta musicale, segnato pure da una netta separazione tra declamazione e strumentalità. Heinrich Albert, lui pure buon compositore, creatore del Lied tedesco, esalta nel suo apparentato Schütz quanto […] compiuto egli fosse in vivezza e in penetrazione. Non lo si potrebbe esprimere meglio. Si veda l’inizio del dialogo fra il Pubblicano e il Fariseo:

    Esempio 3

    – L’ingenuo simbolismo del bicinium , che risale al sedicesimo secolo; ma poi la potenza immaginativa nell’ideare il Tempio, la caratterizzazione dell’impari coppia: una mezza dozzina di misure immortali. Si condividano (Resurrezione) le parole del Risorto ai Discepoli:

    Esempio 4

    – E si badi alla forza della visione, nel momento in cui il Risorto mette il dito dell’Incredulo nella ferita; ma si badi pure alla conseguenza dell’imitazione nelle ultime misure, che non rifuggono nemmeno dalle settime parallele. In Schütz abbondano i passi del genere, che manifestano la forma del musicista, una potente fantasia, una profonda umanità. Sicuramente egli risorgerà.

    2.

    LA SCHÜTZ FEST A BERLINO

    La Schütz Fest a Berlino: —è una circostanza speciale per un ascoltatore di professione. Si tratta di due giorni — l’ultimo sabato e la domenica successiva — nei quali una volta tanto ci si sente dal tutto fuori dal solito, irregimentato, arbitrario binario tracciato dalla nostra pubblica natura musicale, nei quali si ascoltano solo lavori nati da un’intima o almeno esteriore esigenza: lavori improntati di un ideale sonoro più cheto, più mite, più umano; lavori di un’espansione più umana, perché ogni creazione soggettiva, in sé libera e assoluta, è controllata mirabilmente tramite l’impegno. Si è di umore conciliante, grato e del tutto acritico. (Naturalmente: qualche critica dovrà pur arrivare.) Si è riconoscenti all’Akademie für Kirchen- und Schulmusik, che ha offerto questa Schütz Fest della Neue Schütz-Gesellschaft — il direttore dell’Akademie ha lo stesso carattere del presidente di questa Gesellschaft: Hans Joachim Moser, cui questa manifestazione deve significato e impronta e che anche in una conferenza d’orientamento, Situazione e compiti della ricerca su Schütz, ha illustrato il tutto con scioltezza e rapidità.

    Quando si chiede chi era Heinrich Schütz, di solito si risponde: il più grande musicista tedesco prima di Bach. Vero e falso. Indubbiamente Schütz è venuto al mondo cento anno prima di Bach, ma se anche, in un certo senso, ha preparato indirettamente il terreno a Bach, con lui non instaura alcun rapporto; Bach non può essere commisurato a lui, né lui a Bach, egli è se stesso, incomparabile, tutto per sé. E quando si chiede perché si conosce così poco di Schütz, si può rispondere forse con una citazione.

    Egli si colloca, in un certo, forse equivocabile senso, fra due epoche, fra Palestrina e Bach, in un secolo

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