Delos Science Fiction 244
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Fantascienza - rivista (65 pagine) - È disponibile il numero 244 della nostra rivista di approfondimento, con uno speciale sulla terza stagione di The Mandalorian e servizi su Edgar Rice Burroughs e il suo romanzo Il continente perduto e la terza stagione della serie Star Trek: Picard.
La terza stagione della serie TV The Mandalorian dell’universo Star Wars creato da George Lucas è una delle novità più interessanti di quest’inizio della stagione televisiva. Creata da Jon Favreau, la serie si è guadagnata il favore dei fan e della critica, ma quel che è più significativo il plauso dello stesso Lucas, che più volte ha visitato il set. Ora, con la terza stagione il rapporto tra il mandaloriano e Grogu si è evoluto, e lo show sta ora raccontando soprattutto la cultura dei mandaloriani e di cosa sia successo al loro pianeta Mandalore.
A questa terza stagione è dedicato lo speciale del numero 244 di Delos Science Fiction, il nostro magazine di approfondimento. Curato da Arturo Fabra, lo speciale ci presenta i personaggi principali della serie, un’intervista a Jon Favreau e una recensione della stagione.
Nella sezione rubriche, Marco Settembre analizza il romanzo Ucronia di Elena Di Fazio, mentre Giuseppe Vatinno ci conduce per mano nel film La fuga di Logan. Infine, vi segnaliamo il nuovo romanzo di Ken Macleod e 5 anime da vedere almeno una volta nella vita.
Nei servizi, Carmine Treanni analizza il romanzo Il continente perduto di Edgar Rice Burroughs, pubblicato per la prima volta in Italia da Homo Scrivens, e Fabra la terza stagione di Star Trek: Picard.
L’anteprima di questo numero è dedicata all’antologia Incanti Alieni di Daniela Piegai, una delle più brave autrici italiane di fantascienza di cui Delos Digital sta ripubblicando le sue opere, mentre il racconto è di Ferruccio Rizzati, uno scrittore dell’800 che ha scritto alcuni racconti di fantascienza.
Rivista fondata da Silvio Sosio e diretta da Carmine Treanni.
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Anteprima del libro
Delos Science Fiction 244 - Carmine Treanni
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2001 versus Interstellar
Articolo di Arturo Fabra
Nella mia mente un legame connette 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick a Interstellar di Christopher Nolan ed è con questo spirito che li ho rivisti entrambi (non che ci sia bisogno di pretesti per rivederli).
Quello che accomuna istintivamente le due pellicole è l’immagine di un astronauta in tuta sullo sfondo delle stelle accompagnato da una musica ipnotica, e il senso che quanto che viene mostrato sia realmente possibile. In entrambi i film c’è, poi, un deus ex machina che interviene ad aiutare la razza umana: il monolito nel film di Kubrick, che compare nell’epoca preistorica, poi sulla Luna e infine nella stanza da letto di Bowman morente e, in Interstellar, Gargantua, la singolarità gravitazionale che compare improvvisamente 48 anni prima dello svolgimento della storia offrendo all’umanità un portale verso un’altra galassia, ma in nessuno dei due film conosciamo chiaramente l’identità di chi si cela dietro questi interventi che possiamo anche definire metafisici.
Il ritratto della società umana futuristica dei due film è, però, molto diverso.
Kubrick, ispirandosi al racconto di Arthur C. Clarke (che ha più volte ribadito come il racconto stesse al film come una ghianda ad una quercia
), trasporta la corsa allo spazio che si stava svolgendo negli anni in cui dirige la pellicola (1968) in un futuro pervaso dallo spirito di sospettosa collaborazione da guerra fredda
mostrando la perplessa reazione delle grandi potenze terrestri in merito al ritrovamento del Monolito sulla Luna. La tecnologia spaziale viene mostrata come il naturale passo successivo all’evoluzione dell’umanità sul pianeta e ci lascia intuire come le conquiste in questo campo siano state motore per lo sviluppo dell’intera umanità.
Nolan, con il suo film prodotto nel 2014, mostra invece un pianeta morente abitato da esseri umani spaventati a tal punto che, come dice il protagonista Cooper interpretato da Mattew McConaughy : Un tempo per la meraviglia alzavamo al cielo lo sguardo sentendoci parte del firmamento, ora invece lo abbassiamo preoccupati di far parte del mare di fango.
Tutta la prima parte della storia, pur se girata nella zona rurale degli Stati Uniti, quella contraddistinta da vaste praterie coltivate a cereali, invece di trasmettere il respiro degli ampi spazi, comunica oppressione e claustrofobia quando all’orizzonte compaiono le nubi della piaga
l’infezione da peronospora che sta uccidendo l’alimento base per l’umanità, suscitando tempeste di polvere che costringono tutti a tapparsi in casa e uscire all’aperto con quelle che solo sei anni dopo avremmo tristemente imparato a conoscere: le mascherine FFP2. Nemmeno in questo futuro l’umanità si presenta unita ma la divisione che ci viene mostrata non riguarda i blocchi politici o continentali. Infatti da un lato troviamo chi vuole sfruttare la singolarità e le possibilità di esplorazione e colonizzazione spaziale e dall’altro chi vuole usare i fondi solo per sopravvivere e forse solo prolungare l’agonia della razza umana. La scienza, e in particolar modo l’astrofisica e l’esplorazione spaziale, sono considerate inutili a tal punto da riscrivere i libri di storia in una visione woke
che non solo rilegge la corsa alla Luna come un espediente propagandistico che ha permesso agli USA di far rovinare economicamente la Russia ma, addirittura, afferma che l’uomo sulla Luna non c’è mai stato.
Kubrick presenta una umanità che sta per sbocciare, Nolan invece ce la fa vedere raggomitolata e sgomenta difronte ad una minaccia globale.
Il film di Nolan non si basa su un opera letteraria come quello di Kubrick ma sul testo di divulgazione scientifica del fisico Kip Thorne (che ha poi ricevuto il Nobel nel 2017): Black Holes and Time Warps: Einstein's Outrageous Legacy del 1994 e si presenta come una storia di stampo più classico che segue il protagonista Cooper, ex astronauta ed ingegnere ed ora costretto a fare l’agricoltore per motivi di sopravvivenza, che si unisce a quello che resta della NASA, ridotta ad un manipolo di scienziati / carbonari che inseguono il sogno dell’esplorazione spaziale, nel tentativo di trovare una nuova casa all’umanità. Kubrick, invece, offre uno sguardo allo stesso tempo oggettivo ed empatico sull’intera storia dell’umanità, partendo da Moonwatcher, la scimmia capo che impara ad usare l’osso come arma per guadagnare a se e ai suoi il predominio sulle sorgenti di acqua da bere. Nel famoso stacco dove l’osso che vola nel cielo diventa un mezzo spaziale è compreso l’intera storia dell’Uomo fatta di ossa/armi sempre più sofisticati per conquistare spazio vitale per la propria gente. Fino a scontrarsi con il Monolito che aspetta sulla Luna pronto ad inviare un segnale verso Giove che l’umanità insegue con l’astronave Discovery dove umano e cibernetico danno luogo ad un nuovo scontro fino alla enigmatica trasformazione del vecchissimo astronauta Bowman nel Children of the Stars. Kubrick, dal canto suo, ha sempre affermato che non esiste una sola e vera spiegazione del proprio film, ma di aver cercato di parlare all’inconscio dello spettatore e, probabilmente, quello che rende questo film un classico è legato alle sue ninfinite possibilità di lettura. L’impressione che io ho sempre avuto da 2001 e dal suo finale è quella di uno sguardo benigno verso l’evoluzione dell’umanità in esseri superiori, transumani, capaci di comprendere nuovi concetti e nuovi mondi attraverso nuovi canali di elaborazione e nuovi impulsi per ora incomprensibili.
Interstellar, a sua volta, mette in gioco la teoria dell’amore
, che il