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I poveri
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E-book231 pagine3 ore

I poveri

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Nel romanzo I poveri, ambientato nel mondo dell'industriale Diederich Hetzling, della sua fabbrica, della sua villa e del quartiere dormitorio dei suoi operai, ancora una volta Mann utilizza la narrativa per esplorare e criticare la società tedesca dell'epoca, mostrando spesso il lato oscuro e negativo della modernizzazione e dell'industrializzazione.

Heinrich Mann (1871-1950) è stato uno scrittore e saggista tedesco, noto soprattutto per le sue rappresentazioni critiche della società e della cultura tedesca durante la Repubblica di Weimar e l'ascesa del nazionalsocialismo.

Nato a Lubecca, in Germania, era il fratello maggiore del premio Nobel Thomas Mann. Ha studiato storia, filosofia e letteratura a Monaco di Baviera e Berlino, e ha iniziato la sua carriera letteraria come giornalista e critico teatrale. Il suo primo romanzo, "In einer Familie" ("In una famiglia"), è stato pubblicato nel 1894.
LinguaItaliano
EditorePasserino
Data di uscita3 apr 2023
ISBN9791222090542
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    Anteprima del libro

    I poveri - Heinrich Mann

    L’odio, l’amore

    I bambini gridavano correndo davanti alla grande casa operaia di Gausenfeld dove erano nati tutti; centinaia scappavan fuori dalla casa zeppa, saltellavano e si picchiavano sul prato verde. Gli uomini quando non lavoravano rimanevano, se c’era il sole, poggiati al muro della casa a guardare i bimbi. I più piccoli cadevano incessantemente nel fosso che divideva il prato dalla strada di campagna e madri e sorelle correvano in aiuto. I più grandicelli lo saltavano specialmente dalla parte dove esso, seguendo la strada, andava verso il cimitero; e dall’altra banda si spingevano l’un l’altro contro la tentennante staccionata della villa Klinkorum. Se si spezzava la staccionata correvan dentro in fretta a rubare le mele.

    Il proprietario sentiva con terrore e con rabbia lo scricchiolìo dei rami che essi schiantavano; ma con le sue gambe irrigidite, arrivava sempre troppo tardi e i monelli eran già lontani e di lontano gli mostravano ridendo i frutti acerbi, come se li avesser colti sulla strada. Allora egli teneva loro un discorso sulla proprietà e sull’educazione; sempre lo stesso discorso perchè non s’accorgeva mai d’aver a che vedere sempre con gli stessi ragazzi.

    Klinkorum era stato maestro, ma soltanto pei ricchi e, siccome gli eran già caduti i denti, s’era costruito una tana. Non appena Klinkorum s’era allontanato, i ragazzi correvan di nuovo oltre la staccionata. Il vecchio imbianchino che subaffittava una stanza al primo piano li guardava ammiccando. Solo le femminucce avevan dalle madri la proibizione di entrare nel giardino di Klinkorum.

    I ragazzi non eran la sola cosa che Klinkorum dovesse sopportare. Quando egli tornava dalla città, già vicino a casa sua, lo raggiungeva e sorpassava, per quanto egli s’affrettasse, l’automobile di Hetzling e lo copriva o di fango o di polvere. Il consigliere segreto dottor Hetzling guardava, ravvolto nel suo spolverino, sempre dritto davanti a sè e Klinkorum, schiacciato contro la sua staccionata, lo fissava con uno sguardo d’odio impotente fin quando non scompariva in una nuvola putreolente. Intimamente Klinkorum teneva in quegli istanti il suo secondo discorso contro la proprietà – «quando la proprietà è eccessiva». L’educazione poi era la prima cosa e doveva rimanere la prima. E saliva nel suo studio. Dal suo studio egli vedeva tutta Gausenfeld; oltre le case operaie il terreno sgombro, poi la foresta, poi la fabbrica. Si faceva sera e sui muri del cimitero s’accendevan le lampade e oltre s’accendevano i lumi allineati della fabbrica. Dalla fabbrica tornavano gli operai e il loro passo di folla minacciosa di lontano, si sentiva fin nello studio. E Klinkorum pensava non senza rispetto al padrone di quella folla, a Hetzling, proprietario di Gausenfeld, di una enorme ricchezza e di molte decorazioni e cariche.

    Come era arrivato a tanto un chimico fabbricante di carta? Con artifici e manipolazioni commerciali e politiche delle quali a Netzig, dopo sedici anni, si parlava ancora. L’uomo che s’era fatto da sè a ogni modo restava degno di rispetto. Ed egli sapeva d’altra parte rispettare valori e diritti superiori. Klinkorum aveva risparmiato fin quando aveva potuto costruirsi, sulla strada di campagna, la sua piccola casa solitaria, la gioia dell’ultimo terzo della sua vita, adagiata tra il verde, tacita come una sede delle muse, non disturbata dai rumori del mondo. Perchè passavano solamente lenti barrocci di contadini tirati da buoi dalla fronte ampia e Gausenfeld, la città della carta, era di là dalla foresta. Allora non la si sentiva.

    Ma cosa accadde? Il nuovo padrone di Gausenfeld ingrandì la fabbrica, tagliò la foresta, costruì case operaie... Sempre verso occidente, sempre più vicino a Klinkorum. E il peggio si era che il popolo dei lavoratori veniva a farsi seppellire proprio dietro la sua staccionata! E le grandi caserme dei proletari, enormi, gettarono la loro ombra sulla casetta del riposo del vecchio, la minacciarono con la polvere, con i cattivi odori, le grida, i rumori e con ogni rozzezza nemica dell’educazione.

    Adesso erano spente le luci nella fabbrica e accese invece nelle caserme e nelle cantine; di là veniva rumore. L’operaio Carlo Balrich, quieto, nella camera 101 della casa operaia B, era alla finestra anch’esso e guardava fisso davanti a sè e pensava, come il proprietario della villa Klinkorum, al mondo che l’attorniava. I rumori della casa, a destra e a sinistra, sopra, sotto, veramente gli frastornavano il pensiero e glielo distoglievano dalle cose lontane. Egli udiva, la domenica, quando riposava e le sere, prima di dormire, lotte e baci, conversazioni intorno a denaro e viveri, udiva tutto che accadeva nella casa tremante, la vita e l’agonia della vita, il rombo della vita e il suo ultimo gemito. Ma più spesso delle morti sentiva le nascite. E allora, le sere, egli ripensando diceva: «ecco un’altra recluta per i battaglioni dei proletari; Hetzling può ridere; è nato un altro imbecille».

    Perchè l’operaio Balrich, data la condizione delle cose, vedeva in Hetzling lo scopo più alto e il risultato ultimo di tutta la vita che lo circondava: del moto, della fatica, del dolore. Gausenfeld lavorava pei ricchi e viveva solo di Hetzling; anche la campagna attorno e la città vicina parevano dipendere da lui. L’esercito da lui. Il re era il suo buffone; egli lo teneva, ma per il suo guadagno. Poi che l’importante era il danaro.

    — Se tutto dipendesse dal danaro – pensava alla sua finestra il professore – allora Hetzling schiaccerebbe anche la mia vita nella stessa condizione dei suoi salariati.

    Il dottor Hetzling abitava poco discosto dalla valle di miseria e di pianto da lui costruita, ma protetto dalla vista e dal fumo, dietro un bosco, sopra una collinetta verde, nella sua chiara e fiorita «Villalta»; ivi abitava con il cuore leggero tra i suoi, il dottor Hetzling, il fondatore, il proprietario, lo sfruttatore di tutta quella porcheria sociale. Qualcuno aveva chiamato Gausenfeld così, pare, in casa Klinkorum. Dopo, il dottor Heuteufel e persino il consigliere concistoriale Zillich, ripeterono l’appellativo. Più cresceva l’educazione, più si sviluppava il sentimento sociale e con esso la comprensione delle sfide che il capitale lanciava al lavoro. Non era forse una sfida questo sbracarsi del lusso accosto alla miseria, questa corsa di automobilisti sfioranti i diseredati, questo ululato di hupes?

    La sorella dell’operaio Balrich pigliò uno schiaffo, su, da Dinkl, il suo uomo, che risuonò fin giù nella camera del fratello: essa si vendicò picchiando i figli. Quando tutti ebber gridato abbastanza e i vicini ebbero riso abbastanza, si prepararono a coricarsi.

    Balrich pensava: «Tutto dipende dal denaro».

    Allora, nel quartiere di sinistra, Herbersdorf cominciò a suonare l’organino e Balrich si accorse che con i pensieri non andava più avanti. Gli sembrava difficile di capire il vero andamento del mondo, la sua costituzione, le sue leggi. Gli oratori nei comizi parlavano da una strana lontananza. Per capirli con un qualcosa di più che non con il solo sentimento d’odio sarebbe stato necessario arrampicarsi fin dove essi si trovavan già dalla nascita. Come si poteva adesso acquistare tanta istruzione?

    I signori brontolavano nello studio:

    — Ha impedito la costruzione della ferrovia di Gausenfeld perchè non vuole che il mondo abbia contatti con la sua valle di pianto.

    — Egli non vuole che nessuno venga a curiosare in casa sua e cerca di proibire che i suoi operai vadano ai comizi in città e vi si abbocchino con i compagni,

    — La domenica vuol costringerli a restare nella sua cantina.

    — Essi debbono moltiplicarsi come in un Ghetto e nulla di loro deve andar perduto per lui. Misurare le conseguenze! La percentuale di ferimenti è più alta a Gausenfeld che altrove. Nessuno si meravigli se una mattina troveranno me, Klinkorum, in una pozza di sangue. Se io non fossi quell’uomo d’ordine che sono saprei trovare il modo per impressionare il pubblico...

    E gli istruiti brontoloni posero, alla quarta bottiglia di birra, una domanda interessante e cioè se un uomo con medie entrate, con una certa levatura spirituale, fosse veramente obbligato a mantenersi legato, con la sua esistenza e la sua felicità, all’attuale stato di cose. E quando la bottiglia fu vuota essi prevedevano già una catastrofe, un finimondo.

    — Io lo vedo, io lo vedo – gridò Klinkorum – vedo uno che sorgerà a vendicarmi.

    E si sedette in un angolo.

    L’operaio dette, su, la buona notte ai suoi due fratelli e, prima di chiudere la finestra, si sporse dal davanzale, strinse i pugni e inarcò le spalle come se sollevasse un peso e pensò ancora faticosamente, ancora a lungo cercò tentoni il suo destino, pensò dove correva insieme con gli altri nel mondo. Gli sembrava che il mondo fosse tempestoso, sconvolto dall’uragano come i campi deserti che egli guardava e che terminavano nel cimitero. Tra sè e il cimitero egli non altro vedeva se non se ingiustizia e odio.

    Avvicinandosi l’ora di lasciarsi, gli istruiti ripiegarono un po’. Naturalmente le classi presentavano una infinita utilità. E oltre i confini garantivano l’autorità, il prestigio della nazione, i confini. D’altra parte non tutti i ricchi erano come Hetzling e alla fin de’ conti anche l’attività di Hetzling non era da disprezzarsi. Al contrario tutta Netzig in fondo in fondo traeva un utile da essa. Le poche azioni di Gausenfeld che al tempo della sua grande operazione finanziaria, quando era salito a direttore generale, eran rimaste in mani estranee, eran diventate ormai una rarità e s’ereditavano di padre in figlio. Ognuno dei tre che parlavano sospettava che l’altro ne possedesse qualcuna, e siccome nessuno lo voleva ammettere per primo, così tutti, al riguardo, tacevano. Ma, salutandosi, ognuno chiese all’altro con indifferenza:

    — A quanto stanno adesso?

    E l’operaio Balrich pensava:

    — L’odio. Con quello t’addormenti e con quello t’alzi. Alle sei del mattino t’alzi e con il bavero della giacca sollevato vai, vai con altre centinaia verso la fabbrica tacendo e odiando. Odio dietro, odio dentro, odio avanti. Tutti curvati, sotto la stessa ingiustizia, tutti attorniati dalla pressione dell’odio come dal fumo delle macchine. E chi era il peggiore nemico? Hetzling, per il quale bisognava trascinarsi nella fatica, o questo Simone Jauner che si piegava anch’esso, ma che oggi aveva ottenuto il miglior posto presso la macchina della carta, il posto di Balrich, vicino alla porta donde veniva un po’ d’aria. Dover cedere il posto a uno che aveva avuto qualcosa a che vedere con la moglie del capo macchinista Polster!

    E per di più quella era la sorella di suo cognato Dinkl.

    Balrich sudò tutta la mattina più di rabbia che di caldo, ma quando l’ispettore passò domandandogli il perchè, strinse i denti. Quello era affar suo e i signori, di sopra, non ci avevano niente a che vedere. L’ispettore francamente ne sapeva qualcosa perchè con la moglie del capo macchinista adesso ci aveva qualcosa a che vedere anche lui. Per questo egli si fece annunciare all’ispettore capo e tutti e due assieme andarono dal direttore generale. E il capo macchinista fu chiamato su e uscì subito dall’ufficio, rosso in viso, e Balrich fu rimesso al suo posto.

    Hetzling era stato giusto.

    E tutti parlarono di questo, per strada, andando a colazione. E se passava un impiegato molti dicevano a voce alta che Hetzling era stato giusto; anche Jauner lo diceva perchè era così. Balrich, al quale molti oggi si accostavano, pensò alla faccenda tutto il giorno. Perchè Hetzling era stato giusto e così non poteva andare. Allora tutto il mondo si sovvertiva.

    Quando arrivò a casa c’era di nuovo litigio.

    Malli sosteneva di aver sorpreso Dinkl con Leni e, dall’alto del suo grosso ventre cui si aggrappavano tre bimbi, gli gridava:

    — Non illuderti di essere il solo...

    Leni singhiozzava e Dinkl impacciato faceva delle smorfie comiche.

    — Vergognati – disse Balrich alla sorella maritata. Io so che anche questa è una delle tue solite bugie.

    E trasse Leni a sè.

    Poi che sebbene egli non ne fosse certo, pure gli sembrava impossibile che la ragazza avesse fatto una cosa simile. Egli le voleva bene. Egli voleva molto più bene a lei che a Malli che riteneva cattiva. Poi Leni poteva ancora essere pulita, carina, leggera e Malli, la poveretta, non poteva esserlo più.

    — E quando io avrò moglie – pensava Balrich – sarò come Dinkl.

    Malli, prima del matrimonio, non mentiva. Adesso, subito dopo la preghiera del mattino, faceva scoppiare dei pettegolezzi che mettevano sossopra tutta la casa. Tutti nella casa erano, in fondo, buona gente, ma la loro miseria li spingeva ad agire come se fossero cattivi mentre invece i ricchi, anche se cattivi, potevano agire in modo da sembrar buoni.

    E adesso cominciarono i Polster a urlare che i Dinkl avevano rubato loro il latte. Di nuovo grida e lacrime e, per l’arrabbiatura, Malli fu presa dalle doglie. Allora la Polster l’aiutò subito come sorella, la svestì, la mise a letto, promise di dar da mangiare a suo fratello Dinkl e prese i tre ragazzi con sè. Lei di figli non ne aveva e per questo i Polster potevano tenere due belle camere pulite. In una c’era un divano di peluche e un fonografo che forse veniva dalle amicizie della donna. Ma se si fosse dovuto guardare a queste cose! Dinkl ebbe anche la fortuna che il felice evento accadde di domenica e che Malli, con ogni probabilità, avrebbe perso solo due giorni di lavoro. Nel pomeriggio, proprio nel momento in cui Balrich tornava a domandare notizie, venne una visita di altolocati: la signora del direttore generale Hetzling, con sua cognata, la signora Buck.

    Si fermarono sulla porta con certe facce come se avessero avuto bisogno di un gargarismo. Forse l’aria faceva quell’effetto lì, in casa, quando non ci si era abituati. Esse però ci rimasero male e cominciarono a parlare a Malli come se parlassero a un canarino malato. Sussurrarono assieme con la levatrice corrugando le ciglia. Balrich guardava la Buck così fisso che la Hetzling se ne accorse e chiamò a mezza voce: «Emmi», prendendola poi per un braccio... Emmi allora lasciò cadere sorpresa la borsetta e Balrich con un balzo la raccolse. Quando egli gliela offrì essa dapprima ritirò la mano, ma dopo uno sguardo della sorella, osò prenderla. Nel frattempo egli respirava il profumo di lei che odorava di viole.

    Ella era ancor bella e aveva il corpo come le operaie lo hanno solo fino a vent’anni.

    Anche i capelli di Leni erano dello stesso oro, ma quelli della Buck non erano impolverati. Finalmente quando ella si decise a prendere la borsetta lo guardò persino con un sorriso come se volesse addomesticarlo. Ma davanti alle ciglia di lui unite il suo sorriso si fermò, tornò indietro. Allora Balrich passò dietro il padiglione del letto di Leni.

    Dinkl lo raggiunse, gli urtò il gomito e gli domandò perchè si nascondesse. E fece due e tre motti di spirito perchè a lui la faccenda non interessava affatto. Balrich invece aveva nel petto un fuoco come quella volta che il padrone lo aveva licenziato. La Buck lo aveva trattato come una belva, un qualcosa che si teme, ma che non si piglia sul serio, almeno che non si piglia sul serio come un uomo.

    E andarono fuori insieme, Dinkl scherzando e tenendolo per il braccio. E allora accadde una disgrazia. Non erano ancora scesi che anche le signore scendevano e, a un tratto, la Hetzling cadde e perdette il cappello e una metà dei suoi capelli bianchi. Sul prato di faccia alla casa i figli di Dinkl si torcevano dalle risa. Dinkl capì e tese il pugno ai ragazzi. Poi aiutò la dama a rialzarsi. Per fortuna arrivava anche Herbersdorf e le signore furono subito rimesse in piedi.

    — Mio Dio! – esclamarono esse guardando i gradini – non c’è del sapone qui?

    Dinkl negò o trovò che la cosa in ogni caso era incomprensibile. Esse pregarono i due operai di cercare se era rimasto loro del sapone sugli abiti e, siccome i due operai non lo trovavano, lo trovarono esse stesse.

    — E adesso come si fa?... Dovevamo andare a prendere il tè in città. Dovremo andare ancora a casa a cambiar abito...

    Dinkl consigliò di far così.

    — Ma si perde mezz’ora di tempo! Che cosa dirà la moglie del generale?

    Interrogarono con la faccia per avere il suo parere anche Herbersdorf, ma questi fece un viso stupito. Arrivò la Polster che si perdette prima in lunghe esclamazioni, poi si offerse di lavar via tutte le macchie. Si tenne a questo proposito un consulto tecnico. Dinkl insisteva a consigliare il ritorno a casa e il cambiamento dei vestiti molto più che la automobile del direttore generale era velocissima.

    La signora Hetzling notò:

    — È una Charron!

    Dinkl trovò che si sarebbe dovuto preferire l’industria nazionale sempre, anche se le macchine erano un po’ meno veloci.

    Si convenne dall’una parte e dall’altra senza accendere una discussione. Quando le dame videro il loro chauffeur, allora dimenticarono ogni familiarità e quando poi furono sedute nella vettura risposero al saluto degli operai appena appena con l’angolo degli occhi senza volgere il capo.

    Dinkl, appena l’automobile fu scomparsa, rise in modo che a momenti gli si spezzavano le costole. I bambini che si erano allontanati ricevettero la loro porzione di busse, ma Dinkl rideva picchiando e i bambini facendosi picchiare e ridevano tutti: Polster, Herbersdorf e i vicini.

    Quando lo stormo risalì le scale trovò Carlo Balrich tutto occupato a studiare profondamente la macchia di sapone. Egli non rideva come loro. Aveva le ciglia corrugate. Il cognato gli picchiò sulla spalla e lo portò con sè nella cantina. Tanto alla

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