La carne viva
Di Franco Enna
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La carne viva - Franco Enna
La carne viva
Immagine di copertina: Shutterstock
Copyright © 1960, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont
All rights reserved
ISBN: 9788728523100
1st ebook edition
Format: EPUB 3.0
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www.sagaegmont.com
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PERSONAGGI PRINCIPALI
PARTE PRIMA / SAN DIEGO
CAPITOLO PRIMO
Non ci mettevo piede da vent’anni. Il suo ricordo portava nella mia memoria lunghe strade livide sotto la pioggia e la stretta della mano di mio padre. Lui amava San Diego.
Allora ero un ragazzino, guardavo incantato i tassì gialli che sfrecciavano tra un riflesso e l’altro delle insegne, le case alte, i passanti sotto gli ombrelli, e mi sentivo penetrare dal fascino della metropoli notturna.
Oggi quel tempo mi pareva antico, e mi ci vedevo come uno sconosciuto.
Il pullman si fermò al capolinea, in Kettner Boulevard. Scesi con le due valigie in mano, uscii di sotto la pensilina e mi trovai afferrato dal feroce sole di luglio.
Il Torrance Hotel c’era ancora, rimesso a nuovo, imponente, con rettangoli verdi alle mura e una lunga insegna sul cornicione dell’edificio arabesco. Mi aveva aspettato. Una volta eravamo soliti sostarvi, nelle nostre rare visite dalla provincia, e anche Nickie vi aveva alloggiato per qualche giorno, un anno prima. Poi aveva trovato una camera nella Sedicesima Strada, e papà aveva finito con l’accettare la sua decisione di frequentare l’Università, convinto che mio fratello non sarebbe riuscito a mantenersi agli studi e che dopo uno o due mesi sarebbe tornato a casa.
Nickie invece era rimasto.
Entrai nel vestibolo dell’albergo, ne ebbi una folata fresca e, dal banco, il portiere basso e canuto mi salutò. Una signora pallida e un bambino aspettavano seduti su un divano, accanto a un mucchio di valigie.
Sarei andato più tardi da Maud.
Il pensiero di dovermi incontrare con mio cognato Gary mi metteva a disagio. Da quando lui era tornato dalla guerra in Europa straziato negli organi della sua virilità e con una gamba di meno, non riuscivo a sopportare il suo sguardo disperato su di me. Sembrava che mi rimproverasse di essere un uomo sano, di essere uscito dal furore della guerra senza una scalfittura. Da allora lo avevo visto due volte: all’Ospedale Militare di San Diego e a casa di mio padre, a Sierra Caliente, poco lontano da Tijuana. Benchè fossero passati parecchi anni dal primo incontro dopo la disgrazia, avvertivo ancora nella memoria l’odore di disinfettante che aleggiava nel lungo corridoio dell’ospedale e il profumo di giacinto di Maud. Non avevo mai potuto dissociare il ricordo di mia sorella dal delicato profumo che tanto le piaceva.
Il portiere mi assegnò una camera al secondo piano. Salii accompagnato da un femmineo fattorino, spalancai le persiane e restai un momento a osservare la gente che passava in Kettner Boulevard, la nave-traghetto che si staccava dalla banchina di Harbor Drive, il cielo limpido sui tetti, i colori sparsi delle cose.
Nulla mi richiamò al lontano passato. Il tempo aveva mutato la romantica città della mia adolescenza. Il caldo era soffocante e dal basso il sole mi aggrediva con candidi riverberi.
Feci una doccia fredda, mi cambiai d’abito e scesi a pianterreno. Il portiere stava parlando con due ben pasciuti signori messicani. Gli lasciai la chiave e andai in cerca di un ristorante. Avrei evitato, così, di sedermi a tavola con Gary e Maud.
Da quando mia sorella aveva abbandonato la casa paterna, nel trentanove, per seguire Gary a San Diego, dove lui faceva il cronista, Maud era diventata quasi un’estranea per tutti noi. Non ancora diciannovenne, aveva dato un dolore terribile a nostra madre, che meno di un anno dopo la fuga era morta. Non mi meravigliavo, quindi, che Nickie fosse andato a trovare molto di rado nostra sorella, quando era stato in grado di capire.
Nella Quinta Strada trovai un localino accogliente dove un cameriere messicano, svogliato come un pitone in letargo, mi servì una colazione alla mia maniera, come non ne gustavo da quando avevo lasciato la California. Chiesi a lui dove fosse la Sedicesima Strada e ne ebbi una risposta vaga e quasi stizzita, come se facesse fatica a parlare nella bionda immobilità della canicola.
Benchè il denaro che avevo indosso non mi permettesse di esagerare nelle spese, mi concessi un tassì. Sarei andato più tardi da Nickie, nella Sedicesima Strada. Prima era necessario che mi incontrassi con Maud, che molto probabilmente avrebbe saputo spiegarmi senza altri indugi la strana condotta di nostro fratello.
Ma, mentre l’automobile mi portava in Beech Street, capii che solo il desiderio di rivederla dopo tanti anni mi aveva indotto a visitarla per prima. Infatti, il babbo si era rivolto anche a lei per avere notizie di Nickie, prima di scrivere a me a Chicago, e Maud aveva risposto che da mesi non vedeva nostro fratello e che non sapeva immaginare dove potesse trovarsi.
Sperai, comunque, che nel frattempo Nickie si fosse deciso a riapparire, e con quella speranza lasciai il tassì.
La strada era calda e rumorosa. Mi trovavo nel quartiere spagnolo. Decine di ragazzi seminudi si rotolavano tra i piedi dei passanti, ignorati dalle donne che chiacchieravano ad alta voce davanti alle porte di casa.
Il duecentodieci era una casetta bianca e screpolata, di stile moresco, con certe finestre che sembravano ferite e una porta d’ingresso malferma sui cardini. Si trovava tra un giardino e un palazzo di parecchi piani, appartata come in sdegnosa solitudine.
Entrai in un andito malandato, dove ogni cosa era vecchia, più per incuria che per età; il resto non era mai stato portato a termine, a quanto si poteva capire dalle mura prive di intonaco e dalla prima rampa di una scaletta angusta senza corrimano.
A livello col primo pianerottolo, attraverso uno squarcio quasi rettangolare nella parete, una famigliola a tavola — padre, madre e figlia belloccia — mi guardò passare senza smettere di mangiare. Poi le grida dall’esterno mi presero di fianco, e mi trovai dietro una porta che recava una targhetta di metallo con la scritta Gary Poole, giornalista
.
Premetti il pulsante del campanello.
Venne ad aprirmi una ragazzetta pallida, forse un’aiutante di Maud, a giudicare dal camice bianco sporco di colori e dal pennello che teneva in mano. Un odore vivace di trementina m’investì nel riverbero della finestrella di fronte.
Maud era seduta a filo della luce, la schiena curva sul tavolo da disegno, come da tanti anni la ricordavo. Tra le dita agili e bianche teneva un largo pezzo di cartone, sul quale era disegnata una elegante figura femminile. Uno dei suoi modelli. La capigliatura abbondante, nera e un po’ arruffata, sembrava sommergerla.
La sua bellezza si era maturata in forme più decise, ma si risolveva sul volto affilato, forse un po’ magro, al quale gli occhi nerissimi davano una vivacità inquietante, fatta di fierezza e di volontà.
Mi parve uguale alla strana, dolce fanciulla che aveva diviso i miei giochi di ragazzo nella piccola vecchia fattoria dei nonni, a Sierra Caliente, e più tardi nei diversi alloggi delle stazioni ferroviarie dove aveva prestato servizio nostro padre. Gli occhiali, che portava un po’ sul naso come per conferire al volto la gravità di cui gli anni erano stati avari, mi fecero paura, mi diedero il segno duro del tempo: fu una ventata di ricordi che non potei evitare, e nel giro di un istante avvertii per la prima volta la perduta dolcezza di un tempo felice, quando lei fanciulla era solita prendere in braccio Nickie bambino per mostrarlo con orgoglio alle amiche. In quelle occasioni gli chiedeva scherzosa, per sentirlo rispondere con la sua esse falsa: Nickie, che cosa ti ha dato la maestra oggi?
, e lui, che frequentava la prima elementare, immancabilmente farfugliava: " Psufficiente e buono". Poi se lo stringeva al petto strillandogli un affetto caldo e rabbioso che la sfiniva.
Allora Maud aveva quindici o sedici anni, adorava i gatti, le bambole, le cianfrusaglie, e tutti coloro che le volevano bene.
Ricordo che una volta, per la morte di una gatta, emise certe grida da far accorrere tutto il vicinato. Eravamo già a Sierra Caliente, allora, dove lei rimase fino al giorno della sua fuga col giornalista di San Diego
.
Laggiù, nella fattoria dei nonni, quando il lavoro glielo permetteva, traeva di sotto il letto la sua cassetta di legno e ne tirava fuori il contenuto con geloso rispetto, una cosa alla volta: la prima brutta bambola di pezza, ritagli di stoffa, una scatola colorata che il cugino le aveva portato dal Messico piena di frutti canditi, talismani pagani, immaginette sacre, immagini di santi e fotografie di divi; c’era anche un cestino piccolissimo, forse di origine cilena, della cui provenienza non si sapeva nulla.
La sua ricchezza. Guai a disturbarla in quel rito, al quale Nickie soltanto era ammesso ad assistere. Un po’ tutti, allora, la prendevamo affettuosamente in giro per quella sua mania, e lei abbozzava un sorriso malinconico senza mai tentare di far capire agli altri che cosa la spingesse a custodire nella cassetta quelle piccole cose senza valore.
Lei stessa lo ignorava forse, ma oggi io potevo capirla: in quella brutta scatola di legno (verde, mi pare di ricordare), Maud aveva riposto i suoi sogni di adolescente solitaria, quei sogni per lei tanto preziosi che ancora oggi dovevano essere li dentro, ingialliti dal tempo.
Adorava Nickie.
In lei, ogni sentimento veniva manifestato per eccessi. Contendeva il fratellino alla sorella Mary e con lui giocava alla mammina, sotto lo sguardo divertito di nostra madre.
Altro carattere Mary, più calma, senza complessi, trasognata nella pavida visione di un avvenire migliore, meno vuoto di quel presente privo di agi e di svaghi: entrambe brune, di corporatura slanciata, un po’ più delicata Maud, i lineamenti marcati, esse aspiravano a evadere dalla monotona casa paterna, la stessa dove io ero nato. Una casa senza colore preciso, grigia nel basso, con una larga macchia d’intonaco paglino più in alto che si accendeva come uno specchio alle luci del tramonto, e altri toni sparsi qua e là. C’era una porta sgangherata che si lamentava come un moribondo ogni volta che l’aprivano, con un laccio per tirare il paletto e una staffa per bussare. Di giorno il laccio non veniva levato mai perchè nessuno dovesse aspettare in strada; ma nel mio ricordo echeggiava ancora la voce sottile della nonna, che all’ora di notte, cioè dopo il tramonto, era solita dire: "Levate il laccio e mettete il palo! Qualcuno sempre ubbidiva, e con una certa sollecitudine, perchè la cattiva gente aspettava il buio; e anche gli spiriti maligni, secondo la nonna, la quale aveva tramandato a noi nipoti buona parte della sua superstizione tutta spagnola.
Poi, un giorno, in quella casa era entrato Gary Poole, e Maud aveva cessato di cantare di stanza in stanza. Si era innamorata a prima vista di quel cittadino sempre in ghingheri, dalla parlantina facile e dagli occhi languidi, e non aveva esitato a fuggire con lui, quando i nostri genitori le avevano ricordato che era troppo giovane per sposarsi (in realtà Gary non piaceva affatto a mio padre, e il suo giudizio era condiviso dalla mamma).
In quel viaggio verso il futuro atroce, Maud aveva voluto portare con sè, e ne aveva trovato il modo, la sua cassetta piena di illusioni. I suoi sogni di provinciale però si erano spenti a uno a uno come le candele di una grande luminaria dopo la festa.
Il matrimonio era avvenuto alla chetichella, e troppo tardi Maud aveva scoperto che Gary Poole, pur essendo un bravo giovane, non era il gran giornalista che si voleva far