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L'uomo che si tagliò la lingua
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L'uomo che si tagliò la lingua
E-book156 pagine2 ore

L'uomo che si tagliò la lingua

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Info su questo ebook

L'eroica storia vera di un missionario che, rinchiuso e torturato da guerriglieri maoisti, è disposto a tutto pur di non rivelare i segreti di cui è a conoscenza.Padre Alfeo Emaldi giunge in Cina nel 1926, diventando ben presto una delle figure di spicco fra i tanti missionari cattolici che vi operano in quel periodo burrascoso. L'Impero si è dissolto nel 1911, precipitando la nazione nell'anarchia militare e facilitando l'ascesca dei guerriglieri maoisti. Nel 1951, arrestato dai rivoluzionari con l'accusa di attività reazionarie e anticinesi, Emaldi capisce che la sua unica possibilità di essere liberato consiste nell'amputarsi la lingua, così da non poter più parlare.-
LinguaItaliano
Data di uscita17 ott 2023
ISBN9788728523056
L'uomo che si tagliò la lingua

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    Anteprima del libro

    L'uomo che si tagliò la lingua - Franco Enna

    L'uomo che si tagliò la lingua

    Immagine di copertina: Shutterstock

    Copyright ©1963, 2023 Franco Enna and SAGA Egmont

    All rights reserved

    ISBN: 9788728523056

    1st ebook edition

    Format: EPUB 3.0

    No part of this publication may be reproduced, stored in a retrieval system, or transmitted, in any form or by any means without the prior written permission of the publisher, nor, be otherwise circulated in any form of binding or cover other than in which it is published and without a similar condition being imposed on the subsequent purchaser.

    www.sagaegmont.com

    Saga is a subsidiary of Egmont. Egmont is Denmark’s largest media company and fully owned by the Egmont Foundation, which donates almost 13,4 million euros annually to children in difficult circumstances.

    AVVERTENZA

    L’avventura drammatica del missionario saveriano P. Alfeo Emaldi, «l’uomo che si tagliò la lingua», è narrata in queste pagine dallo scrittore Franco Enna dopo aver avuto alcuni colloqui con il protagonista. Se, pertanto, la verità dei fatti, nella loro sostanza, non è contestabile, è naturale che la responsabilità della loro presentazione risalga unicamente all’autore del libro.

    In modo particolare, spetta all’autore la impostazione del racconto e il «montaggio» degli episodi. Egli non ha seguito l’ordine cronologico presentando i fatti più salienti della biografia del P. Emaldi, ma ha preferito prospettarli in una rievocazione tumultuosa, nelle ore che hanno preceduto la tragica scena della mutilazione. Siccome il suo scopo era quello di seguire e manifestare l’itinerario interiore che ha portato il protagonista al suo gesto tremendo, egli ha veduto tutta la sua vita in funzione di quell’atto definitivo. Ha infatti creato un «crescendo» di episodi e di motivi che preparano la soluzione finale, la preludono e psicologicamente la giustificano.

    Evidentemente, lo stesso protagonista non si sarà forse reso conto degli stati d’animo che lo hanno portato gradualmente alla sua decisione e, per questo, non si riconoscerà sempre negli atteggiamenti interni che l’Autore ha descritto; ma era compito di quest’ultimo quello di tentarne una rappresentazione, senza menomare la verità storica dei fatti.

    Dato che il racconto della vita del protagonista di queste pagine viene fatto a mezzo di rievocazioni e senza seguire pertanto l’ordine cronologico, crediamo opportuno notare le tappe principali della vicenda missionaria del Padre Alfeo Emaldi nel suo lungo soggiorno in Cina.

    Padre Emaldi giunge in Cina nel maggio del 1926 e dopo alcuni mesi di soggiorno prima a Cheng-kow e poi a Loyang, egli viene avviato dai Superiori a Pechino e Tien-tsin durante i moti rivoluzionari del 1927. Ritornato in Missione, alla fine del 1927 viene nominato Rettore della Missione di Loyang e alcuni mesi dopo, viene trasferito a Cheng-kow come Direttore del Distretto omonimo. Dopo quattro anni, nel 1932, è nominato sostituto del Superiore religioso a Loyang e direttore del Distretto. Dopo sei anni, è nominato cappellano dell’ospedale italiano di Tien-tsin dove rimane altri sei anni. Rientrato in missione, egli viene destinato alla provincia dello Shantung in vista dell’apertura di una nuova missione affidata ai Saveriani.

    Impedito dalle condizioni politiche del tempo e sotto la minaccia comunista, egli si porta, nel 1949, di nuovo a Tien-tsin dove rimane fino alla fine del 1951 quando, dopo la mutilazione, egli viene espulso dalla Cina e rientra in Italia. Complessivamente, egli è rimasto in missione per circa 26 anni.

    PREFAZIONE

    Cinquecento anni prima di Cristo, Confucio intraprese un viaggio di propaganda oltre i confini del marchesato di Lu, sua patria, allo scopo di divulgare le dottrine politiche che erano germinate nel suo spirito durante l’esercizio delle funzioni di Intendente dei Granai, Ingegnere in capo e Guardasigilli, presso la corte del suo signore.

    Un giorno ebbe la ventura di incontrarsi con Laotze, bibliotecario imperiale, l’uomo che stava lanciando nel mondo cinese le idee che maggiormente sono in contrasto con quelle confuciane. Gli annali non ci hanno trasmesso un resoconto del memorabile avvenimento, ma ci assicurano che esso ebbe luogo a Loyang, allora residenza del «Figlio del Cielo».

    Loyang era la capitale del Celeste Impero anche all’epoca della venuta del Redentore sul lembo opposto dell’Asia e, alcune decine di anni più tardi, credette di accoglierne, forse, i rappresentanti nelle persone di due bonzi indù, portatori del Buddismo.

    Gli illustri ospiti, non potendo essere ammessi nella città imperiale, interdetta agli stranieri, furono installati in una costruzione situata nelle vicinanze, la Pagoda del Cavallo Bianco, ancora esistente, denominata così in memoria del quadrupede che portò sul suo dorso i libri sacri della nuova religione.

    Nella storia religiosa della Cina, Loyang occupa dunque un posto di primo piano. Confucio, Laotze e Budda, quasi contemporanei e dominatori assoluti del pensiero cinese per decine di secoli, poterono guardare a Loyang come a un simbolo dell’unione, veramente sbalorditiva, che dovevano formare le loro dottrine fondendosi in una sola religione — la religione del popolo cinese —, pur essendo in molti punti contraddittorie e pur dando spesso luogo a discussioni e a battaglie mortali.

    Il Buddismo ha impresso a Loyang e dintorni impronte indelebili. Oltre alla Pagoda del Cavallo Bianco, monumento di primaria importanza per la storia della diffusione in Cina del pensiero dell’Illuminato Indù, esistono ancora altri monumenti celeberrini del Buddismo cinese.

    Le grotte di Lung-men, a pochi chilometri dalla città, sono meta di turisti e scienziati di ogni parte del mondo. Enormi statue ricavate dalla parete rocciosa di una montagna da artisti di indiscutibile valore e di profondo senso estetico, testimoniano ormai da quindici secoli l’entusiasmo dinamico che Budda ha esercitato nella società cinese. Solo nella vicina provincia dello Shansi esiste un altro esempio del genere, ma le colossali sculture del Lung-men portano una impronta di bellezza che le rende uniche nel loro genere. Sembra che nella culla della sua espansione, il Buddismo abbia voluto sfoggiare tutta la forza artistica del suo contenuto.

    Tra le innumerevoli pagode che danno al territorio di Loyang, come del resto a tutta la Cina, l’aspetto di un cielo costellato di astri di varia grandezza, alcune hanno fama che trascende i confini della provincia.

    La Pagoda del Piccolo Bosco, a qualche decina di chilometri dal centro, è meritatamente una delle più importanti e caratteristiche della Repubblica Cinese. Là visse e insegnò il celebre principe indiano Bodhidharma, nel sesto secolo dell’èra volgare. Oggi sembra quasi naturale che anch’egli, quale rappresentante del Buddismo Zen, dovesse trovare a Loyang il punto iniziale della sua opera propagandistica. La Pagoda del Piccolo Bosco ne conserva la tomba venerata e, secondo le credenze popolari, anche l’anima.

    Ma anche sotto altri aspetti Loyang è ancora oggi famosa. Capitale dell’Impero sotto varie dinastie, la città ha conservato le vestigia grandiose del tempo in cui i destini dell’immenso paese erano decisi entro le sue mura. L’intero territorio è disseminato di sepolcri illustri. La dinastia dei Song ha nella sottoprefettura limitrofa di Kong-shien le monumentali tombe dei suoi imperatori attorniate da numerosi sepolcreti di nobili.

    Nel 328 dopo Cristo, Loyang cadde sotto la dominazione degli Unni, e un imperatore della nuova dinastia arruolò quattrocentomila uomini per la costruzione della sua residenza in città. Egli per primo, nella storia della Cina, affidò le cariche mandarinali alle donne, creando per esse ventiquattro nuove categorie nobiliari. Assunse quindi trentamila ragazze di Loyang e le impiegò comeufficiali nell’esercito imperiale. Il primo movimento per l’emancipazione della donna avvenne, dunque, a Loyang; le prime femministe furono sue cittadine.

    Allo scoppio della rivoluzione del 1912, che doveva far crollare per sempre il trono multimillenario del Figlio del Cielo, Loyang ricomparve sulla scena politica della nazione. Il generale Yuan-chikai, presidente della nascente repubblica, fece costruire nelle vicinanze di Loyang le vastissime caserme che tutt’ora sussistono, considerando la posizione della città importante per la sua strategia.

    Dopo la sua miseranda fine, Wu Pei-fu e, successivamente, Fong-yu-shiang, arbitri in certe epoche delle sorti della patria, occuparono le caserme di Loyang, dalle quali dirigevano le loro possenti armate.

    Loyang è situata precisamente al 112°,30’ di longitudine e al 34°,40’ di latitudine nord, sulle rive del fiume Lo, che le ha dato il nome. Loyang infatti significa «Civilizzazione del Lo», e trovasi a pochi chilometri dal Fiume Giallo. Tale ubicazione ha contribuito indubbiamente all’importanza della città. Il bacino del grande fiume dalle acque perpetuamente torbide è il luogo dove le tribù dei «cento nomi di famiglia» (come anche oggi si chiama il popolo cinese) fissarono i loro alloggiamenti, scendendo dagli altipiani occidentali. Di lì dovevano intraprendere la conquista dell’immensa regione che, ormai, da più di cinquanta secoli è la loro patria¹.

    Contrariamente alla vitalità che si riscontrava in molti aspetti della vita cinese e ai successi conseguiti nel tentativo di liberare il paese dai «trattati iniqui» con tutte le loro limitazioni all’indipendenza della Cina, verso il 1925 la Cina sembrava avvicinarsi al culmine della disunione interna e del caos. Gran parte del paese era retto dai «generali», alcuni dei quali avevano avuto sotto il loro controllo estesissimi territori e talvolta più di una provincia, mentre altri governavano solo una area limitata. Il brigantaggio era molto diffuso. Il Governo Centrale cominciava ad avere un’autorità sempre minore².

    Nel 1922, il generale Wu Pei-fu aveva sconfitto il suo principale nemico, Chang Tso-lin. Egli aveva cercato di riunificare il paese riconvocando a Pechino il parlamento del 1913 e affidando la presidenza a Li Yan-hung, convinto di mettere a capo della Repubblica quegli uomini sotto i quali essa era stata per l’ultima volta quasi interamente unificata.

    Comunque, l’anno successivo, la rivolta di uno dei generali subalterni di Wu Pei-fu, il generale «cristiano» Feng Yu-hsiang, potente e un po’ enigmatica figura, aveva indotto Li Yuan-hung a considerare insostenibile la sua posizione e a ritirarsi nella quiete della sua casa in una concessione straniera di Tientsin.

    Un altro generale, Tsao Kun, era riuscito a ottenere la presidenza mediante intrighi, sicché nell’ottobre del 1923 era stata promulgata la Costituzione che ottimisticamente era stata dichiarata «definitiva».

    Nel 1924, forze unite di Feng Yu-hsiang e Chang Tso-lin avevano rimosso Tsao Kun dalla sua carica, lo avevano imprigionato e avevano posto Tuan Chi-jui a capo dello stato, come Capo Provvisorio del Potere Esecutivo.

    Nel 1926, Wu Pei-fu e Chang Tso-lin avevano unito le loro forze e cacciato Feng Yu-hsiang da Pechino. Tuan Chi-jui, dopo questi avvenimenti, st era ritirato, come aveva fatto Li Yuan-hung, nel sicuro rifugio di Tientsin.

    La Cina ora non possedeva più nemmeno un capo nominale dell’esecutivo e i governi continuamente instabili, tollerati dai potenti generali, erano l’unica finzione di Governo Centrale. Le potenze straniere si stavano comportando con esso come se realmente rappresentasse la Cina, ma nessuno cadeva nell’inganno.

    Si sviluppò allora dal sud una nuova forza — il Kuomintang — che in meno di due anni riunì insieme parte del paese, diede ad esso il regime più forte di quanti si fossero avuti sin dagli ultimi anni dell’ottocento, e, fino a che non venne abbattuto dai Giapponesi, sembrò essere in grado di trar fuori la Cina dalla confusione degli ultimi decenni, con un governo che voleva combinare la tradizione confuciana con gli ideali liberali e democratici dell’Occidente, in modo da far fronte alla situazione cinese.

    Dall’aprile 1921, quando i resti del Parlamento del 1913 lo avevano eletto «Presidente» della

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