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Nebbia sul passato (eLit): eLit
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E-book276 pagine4 ore

Nebbia sul passato (eLit): eLit

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Info su questo ebook

L'oblio della mente.

Ami Donovan conduce un'esistenza tranquilla. Lavora come infermiera, ha un figlioletto di pochi mesi e un compagno affettuoso. Nulla sembra turbare questo idilliaco quadretto, neppure l'amnesia di cui soffre da un paio di anni. Poi, un giorno, un paziente ha una reazione anomala nel vederla. E tutto cambia...
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2017
ISBN9788858975954
Nebbia sul passato (eLit): eLit

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    Anteprima del libro

    Nebbia sul passato (eLit) - Debra Webb

    parole.

    1

    «Pressione del sangue?» gridò il dottor Roland, in un tono di voce imperioso che sovrastasse la consueta confusione che regnava nella sala emergenze del Pronto Soccorso.

    «Cento su sessantacinque» gli riferì prontamente l'infermiera Ami Donovan. «Il polso è settanta, ma continua a scendere.»

    «Dove diavolo è Mason?» volle sapere Roland.

    «Il dottor Mason sta arrivando» lo informò l'infermiera Jane, mentre infilava una radiografia nel pannello luminoso.

    Aggrottando la fronte, il dottor Roland esaminò attentamente l'immagine. «Conosciamo il suo gruppo sanguigno? Potrebbe avere bisogno di una trasfusione!» ringhiò, riportando la sua attenzione sulle due ferite da arma da fuoco che sanguinavano incessantemente sotto la spalla sinistra del paziente.

    «Sto già provvedendo» asserì Lonnie, il tecnico di laboratorio. In quell'istante, un fiotto di sangue caldo riempì la cannula che teneva in mano.

    «Settanta su cinquanta» intervenne Ami, ansiosamente. La sua pressione sanguigna, invece, aveva appena subito una brusca impennata. Se non fossero riusciti a fermare l'emorragia interna, avrebbero perso il paziente nel giro di pochi minuti.

    «Mettigli subito la seconda flebo!» le ordinò Roland. «Dobbiamo fargli risalire la pressione.»

    Ami strofinò una garza imbevuta di Betadine sulla parte interna del braccio del paziente e posizionò la cannula per inserirla nella vena. L'uomo che stavano cercando di strappare alla morte rispondeva al nome di Natan Olment e doveva essere una personalità di spicco, dal momento che avevano dovuto fare il diavolo a quattro per convincere le sue guardie del corpo a restare fuori della sala operatoria. Purtroppo, soltanto uno dei minacciosi gorilla si era rivelato in grado di parlare inglese e, dai frammenti di conversazione che lei era riuscita a distinguere quando il ferito era giunto al Pronto Soccorso, l'uomo sembrava essere stato vittima di un tentato omicidio.

    L'istante stesso in cui la cannula gli trafisse la pelle, l'uomo sobbalzò. Con movimenti rapidi e sicuri, Ami fissò il secondo catetere endovenoso, quindi regolò la valvola che determinava il flusso del farmaco. In quel momento, il signor Olment alzò lo sguardo su di lei, gli occhi spalancati sopra la mascherina dell'ossigeno, il respiro ridotto a una serie di ansiti, brevi e disperati.

    «Va tutto bene» gli assicurò Ami, nel tentativo di tranquillizzarlo. «Ci stiamo prendendo cura di lei. È in buone mani, mi creda.»

    D'improvviso, la porta a due battenti della sala operatoria si spalancò, e il dottor Mason, lo specialista in chirurgia toracica di turno, si unì ai colleghi. «Che cosa abbiamo?» domandò seccamente.

    «Due ferite da arma da fuoco al torace. Le radiografie indicano che...»

    Il resoconto di Roland fu interrotto bruscamente dall'inaspettato e repentino balzo con il quale il paziente tentò di mettersi seduto, dimenandosi come se volesse fuggire dal lettino. Ma, invece di fuggire, l'uomo cominciò ad agitare freneticamente la mano sinistra, nel tentativo di afferrare Ami.

    Lei trasalì, però ebbe la prontezza di riflessi necessaria per catturare il braccio dell'uomo, impedendogli di raggiungere il suo obiettivo. Olment le gridò qualche frase sconnessa, incomprensibile, la rabbia delle sue parole smorzata soltanto dalla maschera dell'ossigeno. Poi la respinse colpendola con il gomito destro, e nell'impeto quasi strappò i tubi delle fleboclisi. Allibiti, Jane, Lonnie e il dottor Roland unirono le loro forze per costringere l'uomo a stendersi sul lettino.

    Ma Olment non smise di divincolarsi e si liberò dalla presa di Lonnie. Le sue grida soffocate e disperate erano chiaramente dirette ad Ami, il suo sguardo terrorizzato era fisso su di lei. A quel punto, l'intera équipe medica si voltò a guardarla, i volti contratti in un'espressione di profondo sconcerto. Turbata dall'assurdità di quella situazione, lei indietreggiò di un passo. Era evidente, ormai, che lo straniero temesse più lei che le due pallottole che aveva nel torace.

    Quando finalmente Olment fu immobilizzato, con le mani e le gambe imprigionate da apposite cinghie, tutti tirarono un lungo respiro di sollievo, Ami compresa.

    «Porta un campione di sangue al laboratorio» ordinò Roland a Jane, la voce stanca. «Questo tizio deve essere sotto l'effetto di qualche sostanza stupefacente» aggiunse a denti stretti.

    Muovendosi con cautela, Ami riprese la sua posizione. Controllò gli attacchi delle flebo, misurò la pressione del paziente. Centodieci su ottanta. Bene, almeno i suoi valori stavano tornando a livelli norma

    li. I suoi occhi neri, però, infuocati da un'emozione indecifrabile, non si staccarono mai da lei. Continuarono a seguire ogni suo movimento con forte diffidenza.

    Ami si impose di resistere all'impulso di scrutare direttamente nella profondità di quello sguardo accusatore. Qualunque fosse il suo problema, si trattava di qualcosa che non la riguardava personalmente. E lei aveva bisogno di concentrarsi sul suo lavoro. Non poteva permettersi di sbagliare.

    «Lo portiamo in sala operatoria» sentenziò il dottor Mason. Immediatamente, l'équipe si preparò ad affrontare un'altra situazione di ordinaria confusione.

    Ami recuperò il maglione blu e la borsa dal suo armadietto, quindi chiuse l'anta con un colpo secco. Dio, era davvero contenta che il turno fosse finito. Quel pomeriggio, il Pronto Soccorso era stato preso d'assalto da un'insolita sequenza di casi più o meno gravi, costringendo ogni membro del personale medico e paramedico a lavorare senza un attimo di respiro.

    Oggi, deve esserci qualcosa di strano nell'aria, concluse, stringendosi stancamente nelle spalle. E questa notte avremo di nuovo la luna piena, sospirò. Le statistiche, infatti, dimostravano che nelle notti di luna piena molte persone perdevano ogni freno inibitore. Era come se una forza inconscia le spingesse a guidare sprezzanti del pericolo, a buttarsi in picchiata dai tetti dei palazzi, o a sparare a persone che in altri giorni consideravano amiche.

    Ami si tolse il fermaglio dai capelli, lasciando che gli indomabili ricci le cadessero liberamente sulle spalle. Ancora un giorno di servizio, poi avrebbe avuto quattro giorni interi di riposo. Un largo sorriso le illuminò il volto. Quattro giorni da passare insieme al suo bambino. E, forse, qualche momento di relax da condividere con Robert. Negli ultimi mesi, aveva la sensazione di essersi allontanata da lui. Era giunto il momento di rimediare. Lui era così buono con lei e con suo figlio e non meritava di essere trascurato a quel modo. Sì, decisamente, doveva sforzarsi di lasciarsi il passato dietro le spalle una volta per tutte. Doveva voltare pagina.

    «Oggi, abbiamo avuto un po' di trambusto al Pronto Soccorso, eh?»

    Ami alzò lo sguardo su Lonnie, il tecnico di laboratorio che aveva condiviso il turno appena concluso con lei. «Già» convenne. «Un po' troppo movimentato per i miei gusti.»

    Lonnie prese la borsa da palestra dall'armadietto e la lasciò cadere sulla panchina. Si allenava ogni giorno e i risultati erano perfettamente visibili sul suo corpo asciutto e atletico. Anche a lei sarebbe piaciuto ricominciare a frequentare una palestra. Da quando era diventata mamma, infatti, si era davvero trascurata. Ma il tempo non bastava mai.

    «Questa sera, c'è la luna piena, sai» aggiunse lui. «I matti devono avere deciso di uscire a divertirsi.»

    Ami annuì. «Sono contenta di non essere di turno questa notte.»

    «Siamo in due, allora.» D'improvviso, Lonnie si immobilizzò, una mano sull'anta dell'armadietto, l'altra intorno al manico della borsa da palestra. «Quella specie di sceicco ci ha fatto vedere i sorci verdi, eh?»

    Nonostante la stanchezza che la pervadeva, lei non poté trattenere una risata. «Non è uno sceicco. Secondo Jane, è una specie di braccio destro del primo ministro israeliano.»

    Lonnie chiuse l'armadietto e fece spallucce. «Boh. In ogni caso, era proprio fatto.» Un largo sorriso gli attraversò il volto costellato di lentiggini. Quando sorrideva a quel modo, le ricordava Kermit del vecchio Muppet Show. Anche se lei non riusciva a immaginare Kermit che usava il linguaggio colorito di cui Lonnie spesso abusava.

    «Confessa, che cosa gli hai fatto?» la stuzzicò.

    Ami strabuzzò gli occhi e trasse un sospiro insofferente. Nel corso della giornata, le era stata rivolta quella domanda almeno una decina di volte. «Io non gli ho fatto proprio niente. Probabilmente, questa mattina ha dimenticato di prendere i suoi tranquillanti.» Si infilò il maglione. «O, forse, ha esagerato con qualcos'altro.»

    «In verità» cominciò a dire Lonnie, facendosi improvvisamente molto serio, «era pulito.» Scosse la testa con perplessa lentezza, come se anche lui trovasse quell'informazione assolutamente incredibile. «Nessuna pasticca o acido. Niente cocaina. Niente di niente.»

    Ami lo fissò allibita. Un brivido gelido le percorse la schiena, insinuandosi nelle ossa. «Oh!» Fu l'unico commento che riuscì a esprimere. Se davvero il signor Olment non aveva assunto nessuna sostanza stupefacente, niente che gli impedisse di essere completamente lucido, allora era impossibile dare una spiegazione logica al suo comportamento. Né, tantomeno, al modo in cui l'aveva guardata e aveva tentato di aggredirla. La profonda sensazione di disagio che si era sforzata di tenere a bada per tutto il giorno si risvegliò prepotentemente, sollevando lo sgradevole capo, come un animale sottratto al sonno. Di nuovo, lei tentò di convincersi che la reazione di quell'uomo si spiegava con un misto di dolore e di paura. In ogni caso, perché concentrare tutta la sua furia su di lei? La sala emergenze era un andirivieni di personale medico e paramedico. Perché proprio lei?

    «Ci vediamo domani.» Lonnie sollevò il borsone sportivo e, scherzosamente, accennò un saluto militare sfiorandosi la fronte con due dita. «Siamo stati assegnati di nuovo allo stesso turno.»

    Con un enorme sforzo di volontà, Ami si impose di ignorare la sensazione di disagio che la avviluppava e ricambiò il suo saluto con un cenno della mano. Lonnie le piaceva. Oltre a essere molto competente e serio nel suo lavoro, era sempre disponibile a condividere un sorriso o una risata. E lei era contenta che i loro turni coincidessero anche per il giorno successivo. Se l'indomani fosse stato movimentato come la giornata che si era appena conclusa, tutti loro avrebbero avuto bisogno di qualcuno che sapesse portare una nota di allegria quando la tensione si faceva insopportabile.

    Ami si allontanò dallo spogliatoio e tornò verso il Pronto Soccorso. Era il tragitto più breve e diretto per raggiungere i garage. E lei si sentiva troppo stanca per girare intorno all'intero edificio. «Divertiti!» disse a Jane incrociandola in corridoio.

    «Lo farò, dopo che avrò ricevuto lo stipendio» ribatté l'amica con un sorriso mesto.

    Jane aveva prolungato il suo turno oltre il normale orario di lavoro per sostituire un'altra infermiera che aveva preso un giorno di malattia. Ami era contenta che il dottor Roland non avesse chiesto a lei di restare. Ma la sua collega e amica aveva delle buone ragioni per accettare di sottoporsi a dodici ore consecutive di fatiche tra le pareti del Pronto Soccorso. Per una mamma single come lei, qualche ora di straordinari in busta paga era sempre gradita.

    Mentre scendeva in direzione del seminterrato, i suoi passi riecheggiarono nella tromba delle scale, nel silenzio di quell'ora deserta. Quindi, attraversò con passi stanchi il quieto garage riservato ai dipendenti dell'ospedale, cercando, con scarso successo, di non pensare al signor Olment e alla strana reazione che aveva avuto con lei. Durante il turno, era stata troppo impegnata per soffermarsi a riflettere sull'accaduto, ma ora l'incidente tornava prepotentemente a squarciare il fragile velo della sua sicurezza. Non significava niente, ripeté a se stessa. Quella sera ne avrebbe discusso con Robert. Lui era un bravo psichiatra. E avrebbe trovato una spiegazione logica all'episodio. Robert aveva sempre una spiegazione per tutto.

    Ami salì sulla sua Volvo famigliare e guidò attraverso la città come un automa. Svoltò a destra, imboccando Piedmont Street e rallentò al cancello per permettere al guardiano di identificarla. L'uomo le fece cenno di proseguire e lei si addentrò nel tranquillo quartiere in cui abitava da circa un anno. Immediatamente, un senso di sollievo e di appagamento cominciò a sciogliere la tensione della giornata.

    La prima volta che Robert le aveva mostrato questo nuovo quartiere, esclusivo e protetto da un accurato servizio di sorveglianza, lei se n'era innamorata. Le abitazioni e i loro piccoli giardini privati erano eleganti e molto curati. Ma era stata l'idea di godere di un servizio di vigilanza a conquistarla. Con un bambino piccolo, la sicurezza aveva la priorità assoluta nella lista delle sue esigenze. Lo stesso era valso anche per Robert, ovviamente.

    Parcheggiò l'auto nel vialetto, accanto alla Taurus della signora Perry, abbassò il finestrino e, per un lungo momento, si limitò ad assaporare il profumo di casa. Le foglie, colorate con le prime sfumature dell'autunno, danzavano sul prato inglese. Era solo settembre, ma la maggior parte dei giardini, incluso il suo, era già decorata per Halloween. Zucche, spaventapasseri, le tradizionali foglie di granoturco e balle di fieno abbellivano il manto verde.

    Una piacevole ondata di calore la pervase, allontanando il gelo che la attanagliava dopo ogni turno al Pronto Soccorso. Questo quartiere era meraviglioso. Lei e Nicholas dovevano considerarsi davvero fortunati ad abitare qui. Una volta cresciuto, suo figlio avrebbe avuto molti amichetti con cui giocare. Nella casa accanto, per esempio, il figlio dei Petrey, che aveva spento la prima candelina un mese prima, avrebbe frequentato l'asilo nido insieme a lui. I Petrey erano brave persone. Il padre era un medico come Robert, la madre, un'insegnante. Una famiglia perfetta. Ami si guardò intorno. Ogni casa ospitava una famiglia perfetta che viveva in un quartiere perfetto.

    Quella consapevolezza le procurò un nuovo brivido che le salì lungo la spina dorsale, instillandole un oscuro timore. Tutto era perfetto... a eccezione di lei. Per quanto ci provasse, lei non sarebbe mai stata conforme alla perfezione che la circondava. Il suo passato continuava a essere un enorme buco nero che la tormentava incessantemente. L'immagine di Natan Olment tornò a tormentarla.

    «Smettila di ossessionarti, Ami!» si redarguì, mentre scendeva dalla macchina e si avviava lungo il via-letto. «La giornata è finita, tu sei a casa, ed è questo che conta.»

    Infilò la chiave nella toppa, aprì e varcò la soglia. «Buonasera!» esclamò. «Sono tornata.» Finalmente, aggiunse tra sé, con un sospiro silenzioso.

    I gridolini di gioia di Nicholas la raggiunsero, prima che la signora Perry avesse il tempo di fare capolino da dietro l'angolo dell'ingresso, seguita dal bambino che trotterellava con le braccia protese in avanti, pronto per abbracciare la sua mamma. Lei lo strinse tra le braccia e inalò il dolce profumo di shampoo e di talco che lo avvolgeva.

    «Ha già cenato e fatto il bagnetto» la informò la signora Perry, come era solita fare ogni volta che si occupava di Nicholas. «Spero che abbia avuto una bella giornata, signorina Donovan.»

    Ami continuò a sorridere, soffocando un moto di irritazione. Preferiva essere lei a fare il bagnetto a Nicholas. Lo aveva detto in più di un'occasione alla signora Perry, ma lei si ostinava a fare di testa sua. «È andata bene, signora Perry. E qui, tutto bene?»

    «Oh, abbiamo trascorso una giornata stupenda.»

    La donna si illuminò e la sincerità del suo entusiasmo cancellò l'irritazione di Ami. Come poteva arrabbiarsi con una donna che si prendeva cura di Nicholas con tanta gioia? Lei e Robert si ritenevano molto fortunati ad averla trovata. Le sue referenze erano impeccabili. Anche lei era perfetta.

    «Abbiamo fatto una passeggiata nel parco» continuò la signora Perry. «Abbiamo guardato Sesame Street, poi abbiamo letto il Dottor Seuss fino all'ora del riposino.»

    Ami adottò un'espressione sbalordita per suo figlio. «Oh, il mio tesoro.» Gli stampò un bacio sulla guancia. «Sembra proprio che tu abbia passato una bella giornata. Ma hai ancora voglia di divertirti un po' con la tua mamma?» I gridolini di gioia di Nicholas le scaldarono il cuore.

    «Ci vediamo domani, allora.» La signora Perry recuperò la sua borsa e la giacca impermeabile dall'appendiabiti dell'ingresso. «Le auguro una piacevole serata, signorina Donovan.»

    Ami aspettò che la tata di suo figlio si fosse sistemata nella sua macchina, prima di chiudere la porta. Poi sorrise a Nicholas, che, in quel momento, sembrava interessato al suo tesserino di riconoscimento appuntato sul camice da infermiera. «Hai voglia di fare un altro bagnetto?»

    Gli occhi scuri del bambino si illuminarono all'idea. La sua bocca si aprì in un largo sorriso, mostrando i pochi denti che si contavano sulle dita di una mano. «Pa-pa-pa...»

    «Ti va di giocare un po' nell'acqua?» Questa volta, suo figlio le rispose buttandosi felice tra le sue braccia. «Ma non lo diremo alla signora Perry, vero?» gli sussurrò Ami con aria complice. «Sarà il nostro piccolo segreto. E, nel frattempo, ci eserciteremo con qualche ma-ma.»

    Più tardi, Ami era in piedi accanto al lettino di Nicholas e lo guardava dormire come un angioletto. Poi il suo sguardo si spostò sull'orologio di Winnie-the-Pooh. Erano già le sette e Robert non era ancora tornato a casa. Probabilmente, era stato chiamato a tenere un consulto urgente o era stato trattenuto da un'emergenza. I pazienti affetti da disturbi psichici dovevano essere particolarmente inclini agli influssi della luna piena, concluse stringendosi nelle spalle.

    La sua attenzione si concentrò di nuovo sul bambino addormentato. Gli sfiorò una guancia rosea e morbida come la seta con la punta di un dito. Lo amava infinitamente, pensò con una stretta al cuore. Nicholas era tutto ciò che le restava della sua vita precedente all'amnesia che aveva cancellato tutto il suo passato. Osservò il suo faccino a lungo. Capelli folti e neri. Ciglia lunghe e scure. Pelle olivastra. Occhi neri.

    «Da chi hai preso questi colori?» gli domandò dolcemente. Lei, invece, aveva i capelli di un castano chiaro illuminato da così tante ciocche dorate da sembrare quasi un biondo miele. E i suoi occhi erano azzurri. Ami chiuse gli occhi e tentò di immaginare un uomo con le caratteristiche di Nicholas, ma l'unico risultato che ottenne fu la sagoma indistinta che tormentava i suoi sogni con una frequenza decisamente preoccupante.

    Sospirò e abbassò lo sguardo sul suo bambino. «Non ha importanza» disse. «Tu sei mio figlio. Non importa chi sia tuo padre. Adesso tu appartieni a me.»

    Alle dieci e trenta Ami era seriamente preoccupata. Robert la avvertiva sempre quando tornava tardi.

    Spense la televisione. Il notiziario aveva riferito della sparatoria che aveva avuto luogo nel corso della mattinata e del tentato omicidio di Frank Lowden, un importante consulente finanziario del governo americano. Accidentalmente, Olment si era trovato nella traiettoria della pallottola destinata a Lowden. Le immagini che le telecamere avevano catturato la fecero rabbrividire. Che senso aveva mostrare scene tanto cruente in televisione? Si rabbuiò. Dov'era Robert?

    Avvertendo un senso di solitudine che non provava da tempo, Ami allungò una mano per afferrare il telefono, con l'intenzione di chiamarlo sul cellulare, ma un rumore al piano di sotto la interruppe. Trattenendo il respiro, continuò a stringere il telefono, mentre un insolito brivido di paura la assaliva. Quello era un quartiere tranquillo, si rammentò. E in genere lei non si preoccupava mai che qualcuno potesse entrare in casa sua...

    La porta dell'ingresso si aprì, poi si richiuse. Ami si irrigidì, preparandosi a digitare il 9-1-1. Il rumore del chiavistello e il tintinnio delle chiavi contro il piano del tavolino dell'ingresso le annunciarono che Robert era tornato a casa.

    Ami lasciò andare il fiato che stava trattenendo e rimise il ricevitore del telefono al suo posto. Il ritmo familiare dei passi di Robert sulle scale dissipò gli ultimi residui di ansia. Scosse la testa, contrariata dal modo assurdo in cui si stava comportando. Che cosa le stava succedendo?, si chiese perplessa.

    L'incidente con il signor Olment al Pronto Soccorso, ammise tra sé, l'aveva turbata profondamente. Accese l'abat-jour sul comodino e si mise seduta sul letto. Discutere le sue emozioni con Robert le era sempre di grande aiuto. Lui sarebbe stato capace di spiegarle ogni cosa. Gli riusciva sempre. Lui era il suo prode cavaliere vestito Armani...

    «Sei ancora sveglia» commentò lui, quando si introdusse nella stanza, il volto corrugato in un misto di stupore e di preoccupazione. Lasciò cadere la giacca dell'abito sulla sedia più vicina, poi allentò la cravatta, mentre il suo sguardo in attesa cercava quello di lei.

    «Ero in pensiero.» Ami si passò le braccia intorno alle gambe piegate, appoggiò il mento sulle ginocchia e aspettò che lui si rendesse conto di non averla chiamata.

    Un'espressione cupa gli piegò le labbra all'ingiù. «Perché...?» Robert si lasciò sfuggire un'imprecazione, una cosa che gli succedeva davvero di rado. «Non ho chiamato a casa» ammise a voce alta. Si sedette sull'orlo del letto, accanto a lei, e premette la fronte contro la sua. «Mi dispiace, tesoro. C'è stata una riunione di emergenza del consiglio di amministrazione della clinica. Stiamo ricevendo molte pressioni per quanto riguarda la causa contro Jacobs. In quel momento, non ho avuto il tempo di pensare a nient'altro, ma giuro che saprò farmi perdonare.»

    Lei gli diede un bacio sul naso. «Sei perdonato.» Poi lo fissò con uno sguardo severo. «Ma non farlo più.»

    Una risata profonda gli emerse dal torace. «Vuoi che mi faccia perdonare questa sera

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