Il Ponte tibetano
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Nevica. L’aria è freddissima, un vento fastidioso sibila in sottofondo.
Altrettanto fa il ponte tibetano. E secondo una credenza popolare ciò è foriero di sventura.
Nell’ospedale di montagna, già ex convento dei carmelitani scalzi, chiamato il Deserto, è una notte in cui si susseguono tanti piccoli inconvenienti. Dapprima squilla in corsia un campanello che fa capo all’obitorio, dove non c’è nessuno. Poi, una paziente girovaga per i corridoi, entra nelle camere, si avvicina ai malati che dormono e ne apre a forza la bocca. Infine, viene ritrovato, senza vita, il corpo del primario.
A investigare sulla sua morte, la procura invia un abile ispettore di polizia, riservato e di poche parole, dotato della necessaria sensibilità per comprendere la sacralità che il luogo emana. Nel corso delle indagini, incontra una giovane ricercatrice coinvolta in un progetto sperimentale per la ricerca di energia pulita, che ha come oggetto e fulcro un batterio sconosciuto.
Giusi Tamborini riesce a trasmettere ai lettori una misterica inquietudine molto piacevole da assaporare.
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Anteprima del libro
Il Ponte tibetano - Giusi Tamborini
giorno.
Prima parte
Il numero della morte
1
Una raffica di vento si sollevò dalla valle e le tenne dietro un sibilo, che avvolse l’edificio, come un filo di ferro legato attorno alle pareti, che le graffiava e ne sgretolava l’intonaco.
L’infermiera del secondo piano si trovava a pochi passi dalla camera 23, quando la lucina del campanello di fianco alla porta si illuminò, accompagnata da un suono stridulo, simile al culmine di un concerto notturno di rane in uno stagno affollato di maggio.
Accese la luce nella stanza. Le pazienti dormivano o, almeno, così sembrava.
Chi ha suonato?
chiese con voce chiara ma senza alzarne il tono.
Non avendo avuto risposta, passò tra i letti e giunse fino ai guanciali. Verificò la corretta posizione dei pulsanti legati alle spalliere e attese ancora un istante. Poi spense la luce. Non voleva rischiare di interrompere la loro passeggiata nei giardini fioriti dei sogni, dove non c’è posto per la sofferenza vera.
Davanti al quadro elettrico dei campanelli, posto a metà corridoio, l’infermiera si accorse con un certo smarrimento che il numero illuminato non era il 23.
Lo fissò con attenzione: quel 29, messo in fondo, per ultimo rispetto agli altri, lei non l’aveva mai visto.
Rivolse lo sguardo alla camera che aveva lasciato. Accanto alla porta, la luce del campanello era ancora accesa; ricordò in effetti di non averla spenta e ritornò sui suoi passi.
Premuto il pulsante, il quadro centrale si oscurò completamente.
Che strano fatto: il 23 acceso senza essere stato suonato e senza comparire sul quadro, dove si era invece illuminato il 29. In reparto non esisteva un tale numero, al quale si poteva collegare un letto, un bagno, una sala visita o qualche altro angolo.
Il 29 apparteneva all’obitorio.
Connesso a un pulsante che veniva avvolto attorno al braccio dei cadaveri e che sarebbe stato utile nel caso di un risveglio da morte apparente.
Il fatto era che quasi tutti in reparto conoscevano il compito al quale era legato quel numero macabro, tant’è vero che veniva chiamato il numero della morte.
Eppure Elettra, diplomata da poco, non ne aveva mai sentito parlare.
L’infermiera del secondo piano non era nemmeno a conoscenza del fatto che le volte, rarissime, nelle quali il numero della morte si era acceso, l’obitorio era vuoto e il pulsante collocato al suo posto. Alla fine la caposala aveva incaricato l’elettricista di correggere l’anomalia e, dal giorno in cui egli era tornato a riferirle che nel quadro elettrico era tutto a posto, effettivamente il 29 non si era più illuminato invano.
Elettra era una ragazza dallo sguardo luminoso, nonostante gli occhi fossero scurissimi; come i capelli, una manciata appoggiata sulla fronte e tutti gli altri nascosti sotto il velo. Per lei, alla base della scelta di diventare infermiera, non c’era stata qualche motivazione forzata, ad esempio per qualcosa da redimere nel suo passato, o una certa leggerezza non sapendo cosa fare di preciso da grande; ma una vocazione reale, sostenuta da un desiderio insopprimibile di essere vicino a chi soffre e da ragioni morali che le erano state trasmesse fin dall’infanzia.
Elettra prese la decisione di non parlare con nessuno dell’accaduto. Ma il suo senso di responsabilità, molto spiccato, gliene tratteneva il ricordo nella mente.
In infermeria, le terapie di mezzanotte, preparate per tempo, erano allineate sul carrello, in successione, per ordine di letto. Mancava una mezz’oretta, eppure, non dimenticando che la tempesta, in ospedale, è come la marea, che sale all’improvviso travolgendo colui che non è pronto ad accoglierla, decise di approfittare della calma e di iniziare a mischiare la polvere di antibiotico dei flaconcini col solvente delle relative fialette. Impiegò più del tempo previsto, perché la polvere a ogni aspirazione in siringa si scioglieva con fatica, rimanendo qualche piccolo grumo sul fondo di tutti i flaconcini.
Il primo piano, invece, in apparenza più stabile alla furia del vento, stava assistendo a uno strano fenomeno: ogni angolo era invaso da echi petulanti simili a lamenti di persone disperate.
Armandino, l’infermiere di turno, fu tentato a un tratto di aprire vetri e persiane e di farle entrare, così che si placasse la loro disperazione e lasciassero in pace il sonno dei malati. Ma, appena girata la maniglia, si trovò di fronte un’oscurità silenziosa, non abitata da nessun lamento, come se fosse bastato il suo gesto per mettere in fuga le voci o indurle a nascondersi sotto il davanzale.
Il vento era un retaggio dei monaci. Sembrava strano che dei monaci avessero lasciato in eredità dei beni materiali: tutti sapevano che era la povertà a santificare le loro esistenze. Ma il vento era un’entità che apparteneva allo spirito, la quale, però, si manifestava all’uomo con ogni tipo di voce. Inoltre lo infastidiva, gli scompigliava i pensieri, lo rendeva irrequieto e gli sporcava l’ambiente. All’opposto, in cielo puliva l’aria e rendeva i contorni delle vette nitidi e lucenti. Nel Deserto dei monaci, le cui mura secolari erano state costruite per aspiranti alla vita eremitica su indicazione celeste, si pensava che era più di un vento terrestre, quando, a ogni ora del giorno e della notte, l’aria volteggiava intorno al passaggio degli angeli, provenienti dal Cielo poco al di sopra.
In aggiunta era arrivata la neve, della quale nessuno conosceva il tempo di permanenza sulla valle; nella peggiore delle ipotesi, fino a primavera inoltrata; nella migliore, per qualche giorno soltanto. Anche se essa portava immagini di rara bellezza e giornate di vero silenzio. Il gelo che le faceva seguito, poi, fin dal tempo dei monaci, era considerato un toccasana come anestetico e disinfettante di ferite e infezioni respiratorie.
Infatti la conca sempreverde, nel tempo di una mattinata, era già scomparsa, sotto uno strato di neve spesso che aveva cancellato ogni traccia di vita. Poi, a sera, le vette, impettite e altere, erano state avvolte rapidamente dall’oscurità. Più tardi era giunto il vento, discreto eppure stuzzicante quasi molesto, per il gioco dispettoso che faceva con le tegole, con le persiane, i vetri, le porte e le piccole folate attraverso gli infissi.
In lontananza, un’infinita varietà di gemiti simili a lamenti o a echi di salmodie nella valle.
Ora che, dopo secoli di solitudine, il Deserto non era più solo, ma, vuoto e arido, gli era stato costruito intorno un ospedale, l’aria boschiva intrisa di goccioline di una inebriante fragranza divina continuava a introdursi nell’atrio degli edifici, diluendo i miasmi della malattia e della vecchiaia, l’odore pungente dei disinfettanti, il sentore artificiale delle medicine e mantenendo tra le mura un buon odore di casa.
Quello che ci si aspettava accadde: ai canti seguirono le danze e le recite. Gli attori, fino ad allora dietro le quinte, entrarono in scena. E non bastarono: Elettra dovette far scendere al primo piano una delle sue inservienti per aiutare a rispondere ai campanelli.
2
Al termine della conferenza di Medicina, il primario, dottor Lucio, salutò i relatori giunti dalle varie città e si avviò verso l’uscita. Erano circa le venti.
Il traffico, insieme al sole del pomeriggio, aveva completamente sciolto il sottile strato di neve sull’asfalto. Era, però, rimasta tra gli edifici un’aria gelida, che investì, a uno a uno, i conferenzieri e gli uditori, mentre lasciavano a gruppetti l’hotel Crystal.
Risalire il monte appariva a Lucio, al momento, un’azione audace. Ne era convinto, dal ricordo dell’immagine che i suoi occhi avevano fissato, quando, nel pomeriggio, era sceso a valle: quella della neve che scendeva a larghe falde, come ricami stellati su una tenda di tulle distesa tra il finestrino e il paesaggio.
In auto, il primario tirò un sospiro di sollievo, per non essersi trovato faccia a faccia col direttore del centro ricerche. Anzi, a pensarci bene, non aveva fatto alcuna fatica a evitarlo; era, infatti, convinto che nella sala ricevimenti il collega non ci fosse proprio. L’acceso colloquio che aveva avuto con lui nel pomeriggio era stato sufficiente a turbarlo per l’intera serata; vi si era aggiunto il timore di qualche rivelazione compromettente davanti agli addetti ai lavori, che coinvolgesse anche lui.
A quell’ora avvertiva molta stanchezza, forse eccessiva in confronto a quella che provava al termine delle giornate più operose; bisognava inoltre tener conto del fatto che da alcune notti non dormiva bene e