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La violinista di Auschwitz
La violinista di Auschwitz
La violinista di Auschwitz
E-book419 pagine5 ore

La violinista di Auschwitz

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Info su questo ebook

Una storia vera

Ad Auschwitz ogni giorno è una lotta per la sopravvivenza. Alma è la detenuta 50381, il numero tatuato sulla sua pelle. È rinchiusa con migliaia di altre donne, strappata ai suoi cari, intrappolata in un labirinto di filo spinato. Questa tragica realtà non potrebbe essere più lontana dalla sua vita precedente. Stimata violinista, si esibiva lasciando il pubblico incantato. Ma l’orrore dell’Olocausto ha stretto l’Europa in una morsa e niente ha potuto salvarla. Quando la responsabile del campo femminile nomina Alma direttrice dell’orchestra, lei è tentata di rifiutare. Non ha intenzione di compiacere i suoi aguzzini, ma ben presto si rende conto del potere che quella posizione potrebbe offrirle: riuscirebbe a fornire alle ragazze affamate razioni extra di cibo e potrebbe strapparne molte dalle grinfie della morte. E così Alma si lancia nell’impresa. Ad aiutarla c’è Miklos, un pianista di talento. Circondati dalla disperazione, Alma e Miklos trovano un’inaspettata felicità nelle prove congiunte, nelle note segrete e nei concerti. Ma ad Auschwitz l’aria stessa è pregna di dolore, e la tragedia è l’unica certezza… In un luogo così disperato, può sopravvivere il loro amore?

Senza la musica non sarebbe mai sopravvissuta

La straordinaria storia di Alma Rosé, nipote del grande Mahler, deportata numero 50381

«Una storia straziante, ma indimenticabile. È nostro dovere non dimenticare storie come questa.»

«Il personaggio di Alma è descritto con una grazia e una delicatezza uniche. Un libro straordinario.»

«Le storie sull’Olocausto riescono a svelare ciò che è stato e ad avvicinarci emotivamente alle vittime di quella tragedia.»

«Una grande lezione sul significato della parola speranza.»
Ellie Midwood
È un’autrice di narrativa storica pluripremiata e bestseller di «USA Today». Deve il suo interesse per la seconda guerra mondiale al nonno, sergente della Seconda Armata Corazzata sovietica, che ha iniziato a raccontarle le sue esperienze in prima linea quando era una ragazzina. Crescendo, la sua passione per la storia non è diminuita. Dopo aver conseguito la laurea in Linguistica, ha scelto di dedicarsi alla scrittura a tempo pieno.
LinguaItaliano
Data di uscita1 lug 2021
ISBN9788822750730
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    Anteprima del libro

    La violinista di Auschwitz - Ellie Midwood

    Prologo

    Auschwitz-Birkenau, 4 aprile 1944

    Non ci sarebbe stato alcun inchino finale quella sera. Non per lei, almeno. Con lo sguardo fisso sulla crepa lungo la parete di fronte, Alma giocherellava con una fialetta di vetro piena di un liquido trasparente. Le ci era voluto un mese per procurarsela tramite uno dei prigionieri del Kanada. Per settimane lui aveva tergiversato, fatto storie e accampato ogni sorta di scusa: sarebbe stato felice di darle una mano, ma quello che gli chiedeva era introvabile, ce l’avevano solo i dottori tedeschi e non quelli del posto, e lui non sapeva quale tedesco corrompere; non erano in rapporti amichevoli, come poteva ben immaginare. Sperava che lei cambiasse idea. Alma era rimasta ad ascoltarlo, aveva annuito e aveva risposto con ostinazione che non c’era problema ed era pronta ad aspettare il tempo necessario, finché non l’aveva preso per sfinimento e lui aveva ceduto.

    «Eccoti quello che cercavi. È il migliore in circolazione, dicono. Funziona meglio iniettato in vena, ma puoi anche ingerirlo, se preferisci. Ci metterà solo più tempo».

    «Grazie. In cambio ti lascerò il mio violino, dopo…».

    «Non voglio niente». L’uomo scrollò la testa con decisione e puntò lo sguardo sul pavimento levigato dai piedi di migliaia di prigionieri, la maggior parte dei quali ormai spariti e dimenticati. «È mischiato a qualcosa, perciò sentirai davvero poco dolore prima di…». Non concluse la frase, limitandosi a fissarla con un’espressione tragica e supplichevole negli occhi azzurri, le mani ficcate in tasca.

    Con un sorriso appena accennato, Alma allungò la mano e gli strinse con delicatezza il polso, in segno di gratitudine per il suo aiuto.

    Dolore. Se solo avesse conosciuto l’entità del dolore con il quale aveva dovuto convivere nelle ultime settimane, non l’avrebbe tormentata così a lungo con quell’attesa immotivata. Questo… questo non le avrebbe inflitto dolore, semmai vi avrebbe posto fine.

    Un bussare insistente alla porta strappò Alma alle sue elucubrazioni. Si infilò in fretta la fialetta nella tasca dell’abito nero, strinse le mani e raddrizzò le spalle. «Sì?».

    Sbucò la testa di Zippy, mandolinista nonché confidente di Alma e amica che aveva imparato ad apprezzare come una sorella. «La Lagerführerin Mandl è arrivata! Siamo pronte per cominciare».

    Alma rispose con un cenno e prese dal tavolo la custodia del suo violino, la bacchetta da direttrice d’orchestra e uno spartito. Prima di uscire dalla stanza gettò un’ultima occhiata allo specchio.

    Le prigioniere che facevano parte dell’orchestra femminile erano considerate privilegiate, la cosiddetta élite del campo: indossavano abiti civili e avevano il permesso di non radersi i capelli. Erano quelle fortunate, che non dovevano spezzarsi la schiena nelle cave o temere le terrificanti selezioni. Erano gli animaletti dei nazisti, mangiavano di più e a loro venivano risparmiati gli abusi che le altre dovevano patire quotidianamente. «Un accordo magnifico. Che c’è da lamentarsi?», erano state le parole di Zippy. Eppure c’era ben poca dignità nel condurre un’esistenza tanto umiliante, quando ti strappavano la tua unica ragione di vita. Non si limitavano a portartela via, te la rubavano nel cuore della notte e nel modo più crudele: soffocata, bruciata, gettata in un lago, in un cumulo di ceneri, finché non ne rimaneva altro che il ricordo.

    Il ricordo e il dolore: sordi e costanti, le avvelenavano il sangue un po’ alla volta.

    Consapevole della fialetta riposta in tasca, Alma si sistemò i riccioli neri e il colletto di pizzo. Quella sera si sarebbe esibita per l’ultima volta. Tanto valeva presentarsi bene.

    Capitolo 1

    Auschwitz, luglio 1943

    Il Blocco 10 era caldo e silenzioso in quel nebbioso pomeriggio. Di tanto in tanto un’infermiera faceva i suoi giri, per controllare se nel frattempo fosse morto qualcuno. Ogni due giorni c’era qualche nuovo cadavere, non che Alma li contasse: aveva già la sua febbre di cui preoccuparsi. A tratti però, durante il dormiveglia, aveva sentito le infermiere che li portavano via. Alcune donne erano già malate quando, insieme a lei, erano state caricate sul treno a Drancy, il campo di transito francese. Altre si erano ammalate durante il viaggio e non c’era da stupirsene, perché erano ammassate come sardine: sessanta persone in vagoni destinati al bestiame. Altre ancora erano morte per gli esperimenti sconsiderati condotti lì ad Auschwitz.

    Alma lasciò vagare lo sguardo per la stanza. Era grande, con i letti così addossati gli uni agli altri che le infermiere faticavano a passarci in mezzo.

    La parte peggiore però era la puzza: quell’atroce e persistente fetore di sudore irrancidito misto ad alito pesante, carne putrescente e vestiti luridi che ti faceva venir voglia di vomitare.

    A differenza degli altri, il gruppo di Alma non era stato messo in quarantena all’arrivo e nessuno le aveva costrette a marciare dritte verso le camere a gas. Invece avevano avuto la dubbia fortuna di capitare lì, nel Blocco degli Esperimenti, un edificio di mattoni a due piani con finestre sbarrate per proteggere da occhi indiscreti i sinistri segreti custoditi al suo interno.

    Qualche volta le infermiere provavano pietà per loro e aprivano le finestre, concedendo pochi preziosi momenti di ricircolo dell’aria. Per lo più, tuttavia, non facevano che peggiorare le cose: attirati dal puzzo, sciami di mosche e zanzare si riversavano all’interno e aggredivano famelici i corpi emaciati, diffondendo altre malattie e torturando le donne doloranti con il loro incessante ronzio e con le loro punture. Più ferite infette, più cadaveri portati via dalle assistenti dalla testa rasata. Una di loro, invariabilmente, segnava il numero dei decessi sui documenti da presentare al superiore, il dottor Clauberg, membro delle

    SS

    . Il famigerato ordine tedesco applicato dai prigionieri ebrei. Alma comprese subito l’ironia di una situazione tanto pietosa.

    Il primo giorno, appena arrivata al blocco, aveva ingenuamente provato a chiedere delle medicine per la febbre, ma le avevano riso in faccia. Attingendo a tutta la dignità possibile considerate le circostanze (impresa non facile quando sei stata rasata come una pecora e identificata da un numero anziché da un nome), aveva indagato sulle macchine per i raggi

    X

    che aveva notato in due stanze al pianterreno, ma le infermiere l’avevano ignorata.

    «Fatti gli affari tuoi». Non aveva ricevuto altre risposte dalla capoblocco Hellinger, una bionda con un viso arcigno e la fascia di decana del blocco intorno al bicipite sinistro. Sembrava che le infermiere, nonostante fossero anche loro prigioniere, non avessero alcuna voglia di fare amicizia con le nuove arrivate.

    «Mi rendo conto che non siamo al Ritz, ma qui l’ospitalità lascia alquanto a desiderare», aveva osservato Alma con freddo distacco.

    Presa alla sprovvista, l’infermiera aveva alzato la testa dalla sua cartella e aveva sbattuto le palpebre. L’intero blocco si era zittito all’istante e tutte avevano puntato lo sguardo su di lei. Ne aveva dedotto che doveva capitare di rado che qualcuno rispondesse a tono.

    «Arrivata con il carico francese?», aveva risposto Hellinger, soppesandola con aria glaciale. Parlava un tedesco grammaticalmente corretto, ma con un pesante accento ungherese. «Avrei dovuto immaginarlo, le tipe più presuntuose vengono tutte da lì».

    «Sono austriaca», aveva sorriso Alma.

    «Meglio ancora. Vecchie ambizioni imperialiste. Le

    SS

    vi raddrizzeranno presto, Vostra Altezza».

    «Le piacerebbe, eh?».

    Lasciandola di stucco, Hellinger si era limitata a stringersi nelle spalle con noncuranza. «Per me non fa la minima differenza. Sono stata nominata capoblocco per tenere tutte in riga, non per preoccuparmi di voialtre. La metà di quelle che sono qui tirerà le cuoia entro la fine della prossima settimana e le altre finiranno su per il camino entro i prossimi tre mesi, sempre che siate così fortunate da durare tanto a lungo dopo la procedura».

    La procedura.

    Alma sapeva che esisteva un reparto di degenza post-operatoria accanto al loro, ma l’accesso era strettamente vietato.

    «Mi offro volontaria, allora», aveva risposto in un puro atto di sfida. Come un animale in trappola, stava mostrando i denti in un ultimo, vano tentativo di autoinganno, non tanto per ferire il nemico, quanto per persuadere sé stessa che non aveva paura. «Non fa differenza per me. Prima finirà, meglio è».

    Alma si era aspettata una punizione (lì si usava colpire le prigioniere alla minima provocazione), invece la capoblocco era rimasta stranamente in silenzio. Aveva avuto l’impressione che Hellinger stesse riflettendo su qualcosa, poi le aveva fatto cenno di seguirla. Occhieggiandola con sospetto, Alma l’aveva seguita lungo il corridoio dall’illuminazione fioca; la donna si era fermata accanto alla porta del reparto di degenza postoperatoria e gliel’aveva tenuta aperta. Quando Alma si era avvicinata con apprensione, le aveva rivolto un gesto beffardo con la mano: Dopo di voi, Vostra Maestà.

    Lì dentro l’aria era persino peggiore. Hellinger si era fermata al primo letto, sul quale giaceva una donna dalla pelle di un bianco così spettrale e così madida di sudore da farla somigliare a una maschera funeraria di cera sciolta.

    Con indifferenza raggelante, la capoblocco aveva sollevato l’orlo della vestaglia della donna e ad Alma si era contratto lo stomaco per la repulsione, ma aveva fatto appello a tutte le sue energie per non lasciar trapelare alcuna emozione. Una crosta nera copriva la pelle arrossata e la nuda carne dove le pustole erano esplose sull’addome della donna. Appena al di sopra dell’osso pubico, una lunga cicatrice irregolare si sollevava in orribili pomfi dai quali emanava un fetore nauseabondo.

    «Sterilizzazione incruenta», aveva spiegato Hellinger con voce distaccata, come fosse una professoressa al college. «Una massiccia dose di radiazioni applicata alle ovaie, seguita da rimozione chirurgica per vedere se la procedura ha avuto successo. I raggi sono così potenti da provocare ustioni. L’operazione stessa avviene praticamente senza anestesia. Come puoi vedere, questa qui ha una grave infezione, non che al dottor Clauberg importi qualcosa. Sta cercando di calcolare la dose ottimale di radiazioni per evitare le bruciature, ma sinora questo è stato il risultato». Aveva coperto di nuovo l’addome della donna e aveva fissato Alma.

    Lei era rimasta immobile a lungo. «C’è un sistema?», aveva chiesto alla fine, ritrovando la voce. «Per selezionare le prigioniere, intendo».

    «Sono tedeschi». Hellinger aveva sorriso per la prima volta, anche se ad Alma era parsa più una smorfia. «Tutto avviene in perfetto ordine numerico. Sinora hanno completato dal 50204 al 50252».

    Alma si era guardata il braccio sinistro, dove con inchiostro azzurro le avevano tatuato il suo numero: 50381.

    L’aveva guardato anche Hellinger e i suoi lineamenti si erano addolciti appena.

    D’un tratto Alma aveva rialzato la testa e la determinazione era tornata nei suoi occhi neri. «Potrei chiederle un favore?».

    Hellinger si era stretta nelle spalle.

    «È possibile procurarsi un violino qui dentro?»

    «Un violino?».

    A quanto pareva chiedere uno strumento musicale ad Auschwitz era inaudito quanto rispondere a un superiore.

    «Sei una specie di violinista?»

    «Una specie. Non lo suono da otto mesi e mi è chiaro che non mi rimane molto tempo. Mi piacerebbe suonare un’ultima volta, se possibile. Sempre che in un posto come questo si rispettino ancora le ultime volontà di un condannato a morte».

    Hellinger le aveva promesso che avrebbe fatto il possibile e aveva lanciato un’occhiata alla pallida mano di Alma, come se stesse valutando per un istante se stringerla, ma aveva cambiato idea all’ultimo momento e se n’era andata senza aggiungere altro. Dare speranza a un condannato a morte era semplicemente crudele.

    Alma era rimasta in piedi davanti al fantasma immobile di quella donna, invidiando chi era stato gassato all’arrivo.

    Stesse giornate infinite e identiche. Stessa routine che invogliava a svagarsi. Acqua sporca a colazione: i tedeschi la chiamavano caffè. Il dottor Clauberg faceva i soliti giri: «Apri la bocca, fammi vedere i denti». Una donna francese pregava in latino in un angolo, dondolandosi avanti e indietro e stringendosi le mani così forte da sbiancarsi le nocche.

    Altra acqua sporca a pranzo: i tedeschi la chiamavano zuppa. Le più fortunate ci trovavano dentro un pezzo di rapa andata a male. Sylvia Friedmann, una prigioniera ebrea diventata infermiera nonché prima assistente del dottor Clauberg, leggeva i numeri sulla lista. La donna nell’angolo si dondolava sempre più forte. Si dimenava e ululava mentre le due assistenti la trascinavano fuori dal reparto lungo il corridoio. Silenzio opprimente e soffocante.

    Hellinger raccoglieva lenzuola e camicie da notte per farle disinfettare. Donne nude e rasate in piedi sull’attenti. Ancora il dottor Clauberg, che questa volta strizzava loro le tette. Qualcuno doveva aver spifferato di una donna incinta. Il dottore, con un ghigno da avvoltoio, si sfregava le dita davanti al viso di lei: «Latte!». Silenzio da parte della donna. Niente assistenti stavolta.

    Ora di cena. Un pezzo di pane di segale con uno sbaffo di margarina, leccata con apatia dalle prigioniere. Una ragazza belga sul lettino a fianco, la testa sotto la coperta, piangeva piano per la madre: patetici singhiozzi soffocati nella lana, come a non voler disturbare nessuno con il suo dolore.

    Notte. Lacrime, lacrime da ogni lettino intorno a lei, preghiere sussurrate, nomi di persone amate ripetuti per ore in un infinito kaddish che non sopportava più di sentire.

    Silenzio, finalmente. La luce argentea della luna filtrava dalle sbarre illuminando le braccia di Alma. Un violino invisibile sulla sua spalla. Dita che volteggiavano sopra la tastiera come le ali di una farfalla. Un archetto nella sua mano destra, a baciare le corde. E, fuori, Sanka mascherate da camioncini della Croce Rossa portavano via i corpi del vicino Blocco 11. Alma le aveva viste di sfuggita attraverso le fessure delle sbarre, dirette alla volta del forno crematorio. Nella sua testa, le Storielle del bosco viennese di Strauss.

    Musica.

    Pace.

    Serenità.

    Un mondo in cui un posto come Auschwitz non aveva il diritto morale di esistere.

    «Alma? Alma Rosé?».

    La giovane infermiera dal bel visino che Hellinger aveva appena portato in reparto parlava un tedesco dal forte accento olandese. Alma si sentì sommergere da una calda ondata di ricordi risalenti a tempi più felici, quando parecchie famiglie olandesi l’avevano nascosta dai tedeschi. Le stagioni si erano avvicendate nell’Europa devastata dalla guerra, ma la lealtà dei suoi ospiti non era mai venuta meno. A rischio delle proprie vite, l’avevano tenuta nascosta alla Gestapo senza chiedere nulla in cambio, solo un po’ della sua incantevole musica. Alma era stata fin troppo lieta di accontentarli: doveva la vita e la libertà a quelle persone coraggiose e altruiste. Ripagare la loro ospitalità con la sua musica era il minimo che potesse fare. L’avevano spostata di casa in casa, ogni volta che le voci di un’imminente retata della Gestapo si facevano insistenti, ma ovunque andasse, immancabilmente, si era sempre sentita a casa.

    Ovviamente Alma aveva riconosciuto il viso della ragazza di fronte a lei; non avrebbe mai dimenticato il sorriso gentile di chi l’aveva protetta così a lungo. La ragazza però ci aveva messo più tempo a riconoscere lei. Erano giorni che Alma non si guardava allo specchio – o forse settimane? – ma non le era difficile immaginare che aspetto miserevole potesse avere. Non era più l’affermata violinista con indosso un elegante abito da sera che le lasciava scoperta la schiena… era evidente.

    «Magda, sai chi è? Alma Rosé in persona!», disse l’infermiera con aria raggiante, rivolgendosi con palese eccitazione alla capoblocco Hellinger. «È una violinista molto famosa in Austria!». Fraintendendo il silenzio di Alma, l’infermiera si affrettò a spiegare: «Mi chiamo Ima van Esso e hai suonato a casa nostra ad Amsterdam. Era il 1942, una sonata di Telemann. Ricordi?».

    Certo che ricordava. Una casa accogliente che disprezzava le disposizioni tedesche, un ritrovo clandestino di appassionati di musica, sedie eleganti non coordinate tra loro disposte a semicerchio, donne in abiti da sera e uomini in completo e tutti gli occhi puntati su di lei: la adoravano e, pur di sentirla suonare ancora una volta, erano disposti a rischiare di incorrere nelle ire della Gestapo.

    «Mi hai accompagnata al flauto», riuscì a dire Alma, in qualche modo. I ricordi si interruppero. Era strano stringere ancora la mano di Ima tra le sue. Fu un triste ricongiungimento, per tutte le ragioni sbagliate. L’ultima volta che si erano salutate, Alma era ancora una donna libera.

    Ima le rivolse un sorriso smagliante. «Sì! Che bello che ti sei ricordata. Ero una tale principiante… di certo avrai capito che ero ben al di sotto delle tue capacità».

    Alma avvertì il principio di un tremito al labbro inferiore e lo morse con forza. «Stupidaggini, hai suonato in modo egregio». Riuscì a mantenere un tono di voce calmo e ne fu orgogliosa. Il dolore che si era inflitta aveva funzionato, come sempre.

    Magda Hellinger fischiò tra i denti. «Abbiamo una celebrità quindi. Perché non l’hai detto subito, quando mi hai chiesto quel cavolo di violino?»

    «Si deve per forza essere famosi per poter suonare il violino in questo posto?», domandò Alma, in tono più tagliente di quanto avesse voluto.

    «Non per forza, ma è di aiuto quando se ne cerca uno», le spiegò Hellinger. «Organizzare le cose ad Auschwitz richiede un sacco di lavoro. Mi costerà parecchio procurarti un violino. L’unica persona che se ne intende di musica è questa piccola Fräulein qui. Non avercela con me, ma prima dovevo chiedere a lei per esserne certa».

    Ima stava già tirando Magda per la manica, mentre la guardava con aria supplichevole. «Oh Magda cara, ti prego, prendiglielo! Non crederai alle tue orecchie quando sentirai con quale maestria sa suonare. Una vera virtuosa, puoi credermi. Ti sembrerà di essere alla Filarmonica di Vienna non appena…».

    «Filarmonica di Vienna un cavolo», borbottò Magda tra i denti, gettando un’occhiata in direzione della porta. «Anche se riesco a procurarmene uno da Zippy, come farà a suonarlo in segreto? O suggerisci di allestire un concerto proprio qui, sotto al naso del dottor Clauberg?»

    «Il dottore e la Blockführerin delle

    SS

    vanno via alle sei». Ima non voleva arrendersi. «Non torneranno prima di domattina e non è necessario che l’intero edificio sia vuoto. Metteremo un paio di ragazze di guardia alla porta, così da avvisarci se dovesse arrivare qualcuno».

    «E che mi dici del Blocco 11? Pensi che non la sentirebbero suonare?».

    Dopo una pausa, Ima si strinse nelle spalle e sul viso le spuntò un sorriso gentile ma triste. «Là ci sono solo condannati a morte. Pensi davvero che andrebbero a riferire alle

    SS

    l’ultima cosa bella che hanno sentito prima di essere messi al muro?».

    Con grande sorpresa di Alma, il giorno seguente Magda le procurò il violino. Con uno sguardo furbo, la capoblocco lo sfilò dalla federa del cuscino e lo tenne sollevato davanti agli occhi sgranati di Alma con evidente orgoglio.

    «Zippy ti manda i suoi saluti».

    Alma afferrò il manico dello strumento con un’avidità che le altre prigioniere mostravano solo alla vista del cibo. «Chi è Zippy?», chiese, più che altro per educazione.

    Tutta la sua concentrazione si era riversata sullo strumento, dal quale pendevano ancora fili spezzati di paglia, indizio del nascondiglio da cui proveniva. Lentamente e con grande reverenza, le dita di Alma accarezzarono il profilo del violino. Erano passati otto mesi terribilmente lunghi da quando si era separata dal suo Guadagnini, l’amico fedele che aveva dovuto lasciare in custodia al suo compagno a Utrecht.

    Le si formò un groppo in gola nel ripensare alle mani calde di Leonard sulle sue guance bagnate e alle sue rassicurazioni che di certo sarebbe tornata in un battibaleno e il suo violino sarebbe rimasto lì ad aspettarla, proprio come lui…

    Con un gelido moto di cinismo si domandò quale letto il suo Leonard stesse scaldando in quel momento, proprio come Heini prima di lui. Nell’arco degli ultimi anni Alma si era abituata ai tradimenti. Solo i violini restavano fedeli. Il suo Guadagnini era con lei quando il suo primo marito Váša le aveva chiesto il divorzio, ed era con lei anche quando Heini era fuggito, abbandonandola a sé stessa nella Londra prebellica. Non gli andava giù che fosse lei a portare a casa il pane, così come il dover ripartire da zero con la donna che, solo qualche settimana prima di partire dalla nativa Austria, con il padre di lei al seguito, aveva giurato di amare più della vita stessa. Povero Heinrich, pensò Alma con un ghigno, non aveva neppure avuto le palle di guardarla in faccia prima di darsela a gambe. Era fuggita dall’Austria per salvarsi la vita, lui invece era tornato là di corsa per riprendersi la propria: un’esistenza agiata priva di inutili difficoltà.

    «Chi è Zippy?», ripeté Magda in un sussurro con aria cospiratrice. «Lo so io e non c’è bisogno che tu lo scopra. Ora mettilo via e non pensare neppure di toccarlo finché non ti dirò che è sicuro, chiaro?»

    «Sì».

    «Devi rispondere Jawohl, Blockälteste». Quando Alma le rivolse uno sguardo pieno di biasimo, Magda addolcì il suo ordine con un inatteso sorriso. «Non devi rivolgerti a me con quella stupida risposta militare quando siamo noi ragazze, ma solo se nei paraggi ci sono le guardie delle

    SS

    , il dottor Clauberg o il dottor Wirths. E devi rispondere a loro nello stesso modo o ti frusteranno sulla schiena. Be’, non il dottor Wirths. Lui in fondo è un uomo ragionevole e non è violento di natura. In effetti è grazie a lui se abbiamo lenzuola, camicie da notte, asciugamani e persino sapone. Gli altri però sono tutt’altro che caritatevoli. Tengono molto alla disciplina, le

    SS

    ».

    Come se non l’avesse sentita, Alma continuò a fissare il violino con un sorriso rapito.

    Magda Hellinger si era già voltata per andarsene, quando sentì un inatteso: «Grazie, capoblocco».

    Non poté fare a meno di sorridere. «Prego, Vostra Altezza».

    Quella sera il sole al tramonto colorò le nuvole di un rosa tenue. In tutto il campo, dopo che i prigionieri erano stati spediti ai loro blocchi, regnava il silenzio. I cani da guardia dormivano nelle loro gabbie, chiuse per la notte. Solo il Blocco 10 fremeva di aspettativa. Le donne che non erano costrette a letto spostarono i letti per fare spazio a un palco improvvisato sul davanti della stanza. Con il violino in mano, Alma spostava il peso da un piede all’altro per l’impazienza, i nervi tesi al massimo, come se ancora una volta dovesse esibirsi per l’élite di Vienna, anziché per quel gregge di anime patetiche e sofferenti.

    Finalmente tutto fu pronto e il silenzio calò sul Blocco degli Esperimenti. Prendendo posto dinanzi al suo pubblico, Alma sollevò l’archetto, lo appoggiò alle corde e chiuse gli occhi. La prima nota fu lunga e incerta, per testare la quiete della notte in arrivo. Si interruppe, esitante, e poi riprese forza, si sciolse in un crescendo di volate e, tutt’a un tratto, il nome stesso di Auschwitz smise di esistere per le sue vittime. Non si trovavano più lì; a occhi chiusi, con un sorriso trasognato sui visi esausti, le donne ondeggiavano piano a ritmo con la musica, ognuna immersa nel proprio mondo, dove la bellezza aveva riacquistato un senso, dove le coppie volteggiavano abbracciate e danzavano i passi di un valzer viennese, dove le persone che amavano erano ancora vive, nonostante tutto, perché la musica era eterna, così come i ricordi.

    In un angolo Ima piangeva in silenzio, tamponandosi la bocca con il suo fazzoletto da infermiera. Appoggiata alla parete, Magda si sfregava il petto come se avvertisse un dolore fisico, perché si era ricordata che esisteva qualcosa al di fuori di quel mondo crudele in cui le donne come lei venivano trucidate a centinaia di migliaia. Eppure sorrise, perché insieme al dolore si era riaffacciata ancora una volta la speranza che magari non fosse tutto perduto, se una tale bellezza poteva ancora farsi strada persino dietro le mura di Auschwitz.

    Con le dita vivaci come il ritmo della sua musica, Alma aprì gli occhi e rivolse un sorriso malizioso al suo pubblico incantato.

    «Che state aspettando?». La sua voce spezzò d’improvviso il silenzio reverenziale. «Suono forse per nulla? Non solo è scortese, è praticamente immorale starsene sedute immobili durante un valzer. Danzate. Allora? Alzatevi in piedi e ballate, signore! Mi rifiuto di credere che vi abbiano fatto dimenticare come si danza».

    Dapprima le ragazze si scambiarono sguardi esterrefatti: l’idea stessa pareva scandalosa. Ma poi Magda in persona fece un risoluto passo avanti verso una delle brandine, si inchinò con fare teatrale e offrì la mano a una delle donne con una galanteria che avrebbe reso orgoglioso un gentiluomo del Vecchio Impero.

    «Madame Mila, vuole concedermi l’onore?».

    Senza esitare, la giovane cui Magda si era rivolta appoggiò il palmo su quello della capoblocco ungherese. Ridacchiando divertite e incredule, le due iniziarono a volteggiare per lo spazio ristretto intorno al palco improvvisato, scalze e in un groviglio di camicie da notte. Ben presto un’altra coppia si unì alla loro, e poi un’altra ancora e Alma le osservò con gli occhi umidi, finalmente in pace per la prima volta dopo mesi. Con il potere della musica aveva reso libere quelle donne per pochi preziosi istanti. Ora poteva morire felice.

    Capitolo 2

    Agosto 1943

    «Vostra Altezza!». Nonostante il tono canzonatorio usato da Magda per rivolgersi ad Alma, ora nella sua voce c’era una chiara sfumatura di rispetto.

    Non solo, in qualche modo la capoblocco era anche riuscita a far sì che Alma venisse esentata dagli esperimenti, così che il blocco non perdesse la sua preziosa violinista, capace di far dimenticare gli orrori della prigionia ogni volta che suonava. Alma aveva il forte sospetto che un tale trattamento preferenziale avesse a che vedere con Sylvia Friedmann, la prima assistente del dottor Clauberg, che di recente era divenuta una sorta di presenza costante ai loro ritrovi culturali notturni. Di sicuro doveva essere stata lei a depennare il numero di Alma dalla lista del dottore, dopo che aveva suonato su richiesta dell’infermiera le sue canzoni slovacche preferite.

    «Che ne dici se stasera suonassimo per una platea un po’ diversa?». La voce di Magda era squillante in modo innaturale, ma il fatto che distogliesse lo sguardo tradiva il suo disagio. Alle sue spalle due nuove arrivate, magre come spaventapasseri, spostavano il peso del corpo da un piede all’altro. «Queste due fanno parte dell’orchestra femminile», proseguì la capoblocco. «Sono loro che senti suonare al mattino quando i Kommando escono dai cancelli. Il lavoro vi rende liberi e tutte quelle boiate lì. Le

    SS

    pensano che andare al lavoro a passo di marcia sia un’occasione da celebrare con la musica». Alzò gli occhi al cielo in un gesto eloquente, chiara indicazione della sua opinione riguardo al famigerato slogan inciso sul cancello d’ingresso:

    ARBEIT MACHT FREI

    . «Ecco perché hanno allestito un’orchestra del campo».

    Alma rimase in silenzio.

    «Buon pomeriggio, Frau Rosé». La donna più giovane fece un passo avanti. La veste a righe che le ricadeva sulle spalle non faceva che enfatizzare il suo stato di prostrazione. Stranamente non aveva il capo rasato: Alma riusciva a scorgere dei riccioli ramati sotto il fazzoletto. «È un tale onore fare la sua conoscenza. Siamo tutte grandi ammiratrici del suo talento».

    «Mi chiamo Hilde e lei è Karla», si presentò la sua amica. Come Karla, anche Hilde parlava la lingua di Alma, ma con accento prussiano, più dolce rispetto al suo viennese. Anche l’altra donna indossava una veste a righe e un fazzoletto sulla testa. Alma pensò che dovesse essere una specie di uniforme dell’orchestra.

    D’un tratto presero a parlare una sull’altra:

    «Abbiamo saputo da Zippy dell’enorme successo dei suoi ritrovi culturali…».

    «Lei suona nella nostra orchestrina, sa?»

    «Io suono il flauto dolce e l’ottavino…».

    «E io sono percussionista, ma a voler essere onesta, al massimo arriviamo a produrre la peggior Katzenmusik che la Gestapo locale possa usare come forma di tortura e assordanti marcette che vanno bene giusto per accompagnare l’Aussenkommando».

    «Sofia, la nostra direttrice, cerca di organizzarci come meglio può, ma sembriamo scimmiette ammaestrate».

    «E guarda caso oggi è il compleanno di una delle guardie delle

    SS

    e pensavamo…».

    «No».

    Sorprese da un rifiuto così categorico (la prima cosa uscita dalle labbra di Alma, serrate in una linea sottile), le due si scambiarono uno sguardo ansioso.

    Accanto a loro Magda fece una risatina di scherno e in tono bonario disse: «Ve l’avevo detto che si sarebbe rifiutata. Sua Altezza non si è ancora resa conto di dove si trova. Se solo la assegnassero per un paio di giorni a un gruppo di lavoro esterno, con le

    SS

    che ti fanno spostare pietre da un cumulo a un altro per puro divertimento, imparerebbe la lezione abbastanza in fretta da non disdegnare tali opportunità. Ma ormai l’abbiamo viziata».

    «Non ho la minima intenzione di suonare per quei porci bifolchi», disse Alma. Notando i visi delle ragazze deformati per l’orrore di aver sentito quegli insulti pronunciati con tale leggerezza, fece un sorriso tetro. «Porci bifolchi», ripeté lentamente e con estrema soddisfazione. «È questo che sono. La feccia della Terra, strisciata fuori dalle fogne per inondare il continente con la propria immondizia. Vorreste che suonassi per loro? Perché dovrei sprecare il mio talento? Non saprebbero riconoscere la buona musica neppure se ci sbattessero il grugno».

    Pallida come un fantasma e con gli occhi sgranati, Karla stava già scrollando la testa con una tale foga che i riccioli ramati le scivolarono fuori dal fazzoletto. «Non deve dire certe cose qui dentro! La gente la denuncerà alla Kapo o a una Blockführerin in cambio di un tozzo di pane e sarà spacciata!».

    «Meglio. Denunciatemi voi, se volete. Per me non fa alcuna differenza». Non si trattava semplicemente di spavalderia: sul serio non le importava del modo in cui le

    SS

    l’avrebbero trascinata al muro e le avrebbero sparato per la sua lingua lunga.

    A quel punto Magda rise apertamente. Sul viso aveva stampata un’espressione che sembrava sottintendere: Avete mai visto niente del genere? «Vostra Altezza». Fece un passo avanti, verso il letto di Alma. «Non essere sciocca. Alzati».

    Alma non si mosse.

    «Be’, devo forse aiutarti a ritrovare le gambe? Che differenza fa se suoni per noi o per le guardie?», la incalzò Magda.

    «Fa un’enorme differenza per me».

    «Le ragazze hanno ragione: qualcuna ti denuncerà per esserti rifiutata di suonare, e per via della tua arroganza finirai nel blocco qui accanto, dove la Gestapo ti renderà la vita difficile».

    «Possono anche picchiarmi a morte,

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