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Enigma mortale
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E-book241 pagine3 ore

Enigma mortale

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Info su questo ebook

Un cadavere, apparentemente morto per impiccamento, viene trovato in un’area verde di Perugia. Sotto il corpo, disegnate in terra con una bomboletta spray, ci sono nove caselle vuote. Questo è il primo di una serie di omicidi che avranno le stesse caratteristiche .Responsabile dell’indagine è l’ispettore Riccardo Serra, tornato a Perugia dopo un folgorante avanzamento di carriera avvenuto a Milano. Viene supportato nelle indagini dagli agenti Russo e Bianchi e dal medico legale, dr Orsini. Dal ritrovamento del primo cadavere inizia la sfida con l’assassino: le lettere da inserire nelle caselle vuote compongono una parola utile per le indagini. Per ogni lettera indovinata l’assassino regala all’ispettore una settimana per proseguire le indagini, mentre a ogni lettera sbagliata corrisponde un nuovo omicidio.
LinguaItaliano
Data di uscita5 giu 2023
ISBN9791222414539
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    Anteprima del libro

    Enigma mortale - Francesca Fabiani

    CAPITOLO 1

    Era una fresca mattina di aprile.

    Anche se erano ancora le sette la giornata faceva già bella mostra di sé. In molti alberi che costeggiavano il percorso verde erano presenti tenere foglioline rigogliose mentre gli arbusti mostravano i propri fiori bianchi e rosa dove numerosi gruppi di insetti pasteggiavano in allegria, assomigliavano a piccole api, ma, diversamente da loro, si spostavano in maniera molto veloce, tutti insieme, quasi spaventati, ad ogni passaggio di uomini o donne che in quel momento si dedicavano all’attività fisica. Il cinguettio degli uccelli era quasi assordante, sembravano chiamarsi e rispondersi in continuazione, allegri e felici nel volare liberi in un cielo terso o a giocare a nascondino tra i rami degli alberi sempre verdi che avevano assicurato loro un rifugio sicuro durante il lungo e freddo inverno. Il percorso verde era senza dubbio il posto più comodo per praticare sport per gli abitanti della zona centrale e della prima periferia di Perugia. Si poteva parcheggiare a ridosso dell’area oppure poco lontano, nei pressi dello stadio Renato Curi, e poi andare a correre o camminare nei suoi percorsi che ospitavano anche una pista ciclabile e un ampio spazio adatto ai bambini. In molti si fermavano ad ammirare le numerose specie di palmipedi presenti in un piccolo stagno, gettando loro pezzetti di pane che venivano mangiati con avidità dai pennuti.

    Anche Anna e Valentina avevano deciso di andare a correre presto quella mattina, prima di iniziare le lezioni all’università. Sarebbero poi andate a fare una doccia veloce a casa di Anna per dare infine inizio alla lunga giornata di lezioni, ovviamente non prima di aver fatto una degna colazione nel loro bar preferito, proprio vicino alla facoltà. Valentina sosteneva di voler andare a correre proprio per non sentirsi in colpa nel momento in cui la magnifica brioche alla crema, della quale era golosissima, avrebbe incontrato le sue papille gustative.

    «Non vado a correre per dimagrire» sosteneva «ma ci vado per non ingrassare, per poter mangiare tutto quello che voglio.»

    E così, seguendo questa sua filosofia, ogni giorno si alzava alle sei, infilava la tuta e passava a prendere Anna, conosciuta seguendo lo stesso corso universitario e diventata la sua migliore amica. Anna non era di Perugia come invece lo era Valentina; era una studentessa leccese, una vera bellezza meridionale, mora e dalle curve morbide e abitava a circa un chilometro da Valentina, nella zona di San Sisto, con altre quattro ragazze, studentesse anche loro. Aveva scelto di venire a studiare ingegneria informatica a Perugia convinta dalla fama del suo ateneo, uno dei più antichi d’Italia, e qui aveva conosciuto Valentina che invece, essendo perugina, continuava a vivere in famiglia, in realtà con sua madre che non aveva il coraggio di abbandonare dopo la morte improvvisa del padre avvenuta un paio di anni prima. Potevano essere scambiate per sorelle; forse perché il padre di Valentina era di origine siciliana, ma entrambe avevano i colori bruni delle donne del sud ed erano pressoché della stessa altezza, non eccessiva.

    Le due ragazze correvano e, anche se con fatica, cercavano di parlare organizzando la loro giornata.

    «Valentina allaccia la tua scarpa prima di inciampare» disse Anna indicando alla sua amica la scarpa destra.

    «Ah! Non me ne ero accorta! Grazie. Aspettami un attimo, appoggio il piede su quella trave lì» rispose indicando una trave per fare ginnastica, di quelle che servono a camminarci sopra mantenendo l’equilibrio, posta alla loro sinistra.

    Fu solo quando la ragazza rialzò gli occhi dalla scarpa che vide qualcosa muoversi tra un gruppetto di alberi, poco più avanti rispetto al punto in cui si trovavano. Si mise a guardare in maniera più attenta e vide che c’era un gattino bianco e nero che saltava cercando di afferrare qualcosa che sembrava penzolare da un ramo.

    «Ma cosa sarà?» disse la ragazza indicando all’amica l’animaletto.

    Ormai incuriosite si avvicinarono un po’ di più per guardare meglio quando videro il corpo di un uomo penzolare, impiccato, da un ramo neanche troppo alto dell’albero.

    Le due giovani gridarono con tutto il fiato che avevano in gola mentre, come se avessero avuto una grossa molla sotto i piedi, fecero un salto indietro cadendo entrambe. Il loro grido attirò una piccola folla di persone, uomini e donne dediti al fitness, e qualcuno chiamò la polizia.

    CAPITOLO 2

    L’ispettore Riccardo Serra aveva appena iniziato il suo turno quando la sala operativa del 113 gli passò una chiamata: al percorso verde era stato rinvenuto il corpo di un uomo morto impiccato.

    «Arriviamo subito, ma mi raccomando signorina, non toccate nulla, né lei né chi è lì con lei. Mi ha capito?» disse l’ispettore cercando di utilizzare un tono di voce calmo. Sapeva ormai che era inutile alzare la voce con chi, in preda al panico, chiamava la sala operativa per segnalare furti, rapine, o qualunque tipo di infrazione del codice civile o penale. In caso di omicidio poi era indispensabile mantenere calmo il proprio interlocutore, invitandolo a non alterare la scena del crimine.

    «Sì, ispettore, ho capito» rispose la ragazza che aveva composto il numero del 113 e che ora parlava con una voce chiaramente incrinata dalla paura, dall’orrore di vedere davanti a sé un uomo morto «Nessuno di noi toccherà nulla né si avvicinerà a quell’uomo, però voi fate presto, vi prego.»

    La giovane donna era stata l’unica, tra i presenti, ad avere avuto immediatamente l’impulso di sfilare il cellulare dallo zainetto che portava sulle spalle e chiamare la Polizia. Gli altri erano rimasti così tanto sconvolti dalla vista di quel corpo penzolante da non riuscire ad avere la minima reazione: erano bloccati lì, immobili, con gli occhi spalancati, incapaci di fare qualunque cosa che non fosse il pianto. Maria, questo il nome della giovane e piccola ragazza con le trecce bionde, forse poco più che maggiorenne, divenne così la responsabile di quel gruppo di persone fino all’arrivo degli agenti di Polizia.

    «Siamo già partiti signorina, non si preoccupi.»

    L’ispettore e gli altri uomini erano infatti già in macchina. La telefonata gli era stata passata direttamente sul suo cellulare e le due volanti si stavano recando a sirene spiegate verso il percorso verde. Il tragitto non era lungo e il traffico, a quell’ora della mattina, non era eccessivo. L’unico rallentamento che incontrarono fu all’altezza della stazione, dove un autobus si era fermato senza accostare sulla destra per permettere a un gruppetto di ragazzi di salire, tutti diretti a scuola, a giudicare dai pesanti zaini che incurvavano le loro giovani schiene.

    Riccardo Serra, classe 1978, era noto a tutti per aver risolto pochi anni prima una serie di efferati omicidi, vittime cinque trans del milanese, a opera di un funzionario della protezione civile, inappuntabile burocrate di giorno, giustiziere implacabile di notte, che, dietro l’affermazione di volere una Milano pulita da far vivere ai propri figli, e ai figli di tutti, dava sfogo alle sue peggiori perversioni dopo il calar del sole, adescando, abusando e torturando fino alla morte i malcapitati trans che si prostituivano in quel tratto di strada da lui percorso.

    Era stata un’indagine lunga e difficile da portare avanti per l’allora sovrintendente Serra, arrivato a Milano dopo aver vinto un concorso necessario per aspirare ai gradi più alti della Polizia di Stato e non abituato a muoversi in una grande metropoli, che si trovò ad affrontare un mondo torbido e sommerso, squallido e doloroso, nel quale erano coinvolte molte più persone in vista di quanto avrebbe mai creduto possibile, persone pronte fare qualunque cosa pur di non far apparire il proprio nome coinvolto in una storia di sesso e droga, spaccio e perversione. Padri e madri di famiglia che di giorno vivevano una vita sobria, al di sopra di qualunque chiacchiera o diceria, e che di notte erano disposti a vendersi o far vendere altri per appagare i desideri più morbosi da persone che non avevano problemi a pagare molto pur di lasciarsi andare ai loro piaceri più nascosti. Durante l’indagine tanti erano stati i pensieri e le difficoltà incontrate da Riccardo Serra da far letteralmente ingrigire i suoi capelli neri. All’inizio gli sembrava impossibile che queste due cose potessero avere una correlazione, però il fatto era evidente: i suoi capelli nero corvino erano velocemente diventati quello che da molti veniva definito un colore sale e pepe. Documentandosi a tal riguardo, l’allora sovrintendente, aveva letto che la causa di questo fenomeno era da ricercarsi in una stimolazione eccessiva, sotto stress, del sistema nervoso simpatico che a sua volta instaurava una depigmentazione dei peli e dei capelli.

    «Sistema simpatico un corno» aveva pensato più volte Riccardo Serra, guardando la sua chioma ingrigire.

    Gli ci vollero quasi due anni di indagini per inchiodare l’assassino ai suoi crimini, ma alla fine venne consegnato alla giustizia. Il processo era ancora in corso, la Procura aveva chiesto per l’indagato la condanna a cinque ergastoli, ma tutto questo ormai non rientrava più nelle responsabilità di Riccardo, che nel frattempo era stato promosso a ispettore. Era stato poi trasferito alla Questura di Perugia, dove fu accolto calorosamente. D’altronde lui era perugino di nascita e tutti erano orgogliosi di quel concittadino che, arrivato da una città piccola come Perugia, era riuscito a far carriera nella grande Milano.

    Riccardo Serra, rientrando nella propria città, aveva ritrovato l’affetto della sua famiglia e dei suoi amici e aveva attirato l’attenzione di molte signore, sensibili al fascino di quell’uomo brizzolato, con gli occhi azzurri come il ghiaccio tanto da farli sembrare gli occhi di un russo, dalla pelle olivastra, forse un po’ in carne, ma con il peso ben distribuito nei suoi centonovanta centimetri di altezza. Da ragazzo aveva giocato in una piccola squadra locale di basket e probabilmente avrebbe potuto avere un mediocre successo, se durante la terz’ultima partita di campionato non fosse atterrato malamente dopo un canestro rompendo lo scafoide del piede sinistro e il tendine di Achille. Gli ci erano voluti due interventi chirurgici per riparare il danno e molti mesi di fisioterapia e riabilitazione durante i quali Riccardo capì che non sarebbe stato il basket il lavoro della sua vita. Fece quindi il concorso per entrare nella Polizia e così iniziò la sua carriera.

    Arrivarono al percorso verde alle sette e cinquanta minuti precisi. Il traffico cominciava ad aumentare intorno a quell’area verde di Perugia, complice l’ingresso a scuola degli studenti di un vicino istituto superiore, distante meno di un paio di chilometri da dove si trovavano, ma l’ispettore e gli altri poliziotti, grazie alle sirene accese, ottennero la precedenza da tutte le auto che avevano incontrato durante il tragitto e non ebbero difficoltà ad arrivare in maniera piuttosto celere nel punto esatto dove era stato ritrovato il cadavere. Il corpo si trovava poco lontano da una strada interna dell’area verde, a poche decine di metri dall’unico chiosco presente all’interno del percorso, e gli agenti, seguendo le indicazioni di Maria, vi arrivarono con le loro auto senza difficoltà. Una piccola folla formata da una ventina di persone, tutti giovani ragazzi amanti del fitness fatta eccezione per una coppia di nonni con una bimba di forse un anno seduta in un passeggino intenta a succhiare il ciuccio, si era nel frattempo radunata intorno a quel macabro spettacolo e tutti parlottavano tra di loro piano, dando luogo a un brusio che si interruppe istantaneamente all’arrivo delle due volanti della Polizia. I poliziotti fecero subito allontanare le persone che, forse spaventate dalla presenza di quel corpo penzolante, non si erano avvicinate troppo al luogo dell’omicidio, salvaguardando la scena del crimine. Due agenti posizionarono comunque il nastro bicolore di plastica in modo da creare un limite visivo intorno al luogo del delitto. Mentre alcuni poliziotti chiedevano chi fosse stato a trovare per primo il cadavere, l’ispettore Serra si avvicinò il più possibile al corpo, facendo molta attenzione a dove metteva i piedi.

    Anna e Valentina si presentarono visibilmente scosse all’agente che si stava informando sul ritrovamento del cadavere.

    «Lo abbiamo ritrovato noi agente» disse Anna parlando a nome di tutte e due.

    «Ci siamo fermate un attimo dalla corsa perché Valentina aveva una scarpa slacciata. Per comodità si è appoggiata su quella staccionata» disse mentre indicava con il dito all’agente il punto dove l’amica si era fermata «e poi, alzando lo sguardo, ha notato qualcosa che si muoveva tra gli alberi in maniera strana, quindi ci siamo avvicinate e abbiamo visto l’uomo impiccato» proseguì la ragazza con la voce rotta dall’emozione.

    «La ringrazio signorina, ma se non le dispiace vorrei sentire il racconto di come sono andate le cose direttamente dalla sua amica.»

    Valentina deglutì, quindi riprese il racconto, con la voce tremolante.

    «Come le ha detto Anna ho appoggiato il piede su quella staccionata per allacciare la scarpa più comodamente. Poi ho alzato gli occhi, mentre mi stavo preparando per ricominciare a correre, e in quel momento ho visto un gatto che saltava ripetutamente in verticale, allungando le zampette anteriori, come se volesse afferrare qualcosa. Io e Anna ci siamo avvicinate incuriosite, e solo quando siamo arrivate qualche metro più avanti ci siamo rese conto che c’era un uomo impiccato e che il gatto cercava di afferrare la punta della scarpa di quel poveretto!»

    «E a quel punto che cosa avete fatto? Avete toccato qualcosa? Vi siete avvicinate? Avete cercato di portare soccorso a quell’uomo? Signorine, ho bisogno di sapere se la scena del crimine sia stata in qualche maniera inquinata.»

    «No agente, glielo assicuriamo!» riprese trafelata Valentina «Non abbiamo assolutamente toccato nulla! Abbiamo gridato con tutto il fiato che avevamo in gola e dallo spavento siamo addirittura cadute indietro! Poi si sono avvicinate altre persone e qualcuno, non so chi, vi ha telefonato. Non si è avvicinato nessuno, né noi né altri. Siamo rimasti tutti qui, sconvolti e inorriditi dalla presenza di quel cadavere, aspettando il vostro arrivo.»

    «Va bene signorine. Continuate ad aspettare qui. Sento l’ispettore Serra come vuole procedere e poi torno per prendere le vostre generalità. Dovrete comunque seguirci in Questura per mettere per scritto tutto quello che mi avete raccontato.»

    Le due ragazze annuirono e si misero sedute sopra la stessa staccionata dove Valentina aveva allacciato la scarpa.

    L’ispettore avrebbe voluto avvicinarsi di più al cadavere ma sapeva di non poterlo fare; stava comunque effettuando un sommario sopralluogo nelle sue vicinanze, e si era fermato a osservare una scritta fatta in terra con uno spray di vernice nera. Erano state disegnate nove caselle, tutte in fila, come se fosse la riga di un cruciverba; le caselle erano abbastanza grandi, la forma poteva essere definita quadrata, anche se ovviamente non erano molto precise. Il loro lato poteva essere di una decina di centimetri e al loro interno non vi era collocata alcuna lettera. Erano nove caselle bianche. Sotto di esse, forse a una quindicina di centimetri di distanza una scritta, inquietante, enigmatica…

    Fai la tua mossa

    L’ispettore Serra era rimasto a fissare quella scritta macabra. Per qualcuno la morte di quell’uomo rientrava in un gioco. Pur lavorando da anni nella sezione omicidi non si era mai abituato all’idea della morte procurata volontariamente da un uomo verso un suo simile. Era arrivato ad accettare le morti nelle quali non c’era un evidente intenzione di uccidere una persona, ma questo, come molti altri, era chiaramente un omicidio premeditato. Qualcuno si era divertito a uccidere quel povero uomo, vittima inconsapevole del delirio di un pazzo.

    Anche l’agente che aveva interrogato le due ragazze, avvicinatosi all’ispettore, si era fermato a osservare quella scritta in terra e, vista la concentrazione dell’ispettore nell’osservarla, non lo aveva interrotto dai suoi pensieri per sapere come procedere con i testimoni.

    Riccardo si era accucciato e, indossati un paio di guanti, toccò la scritta e i riquadri con la punta delle dita per capire se la vernice fosse ancora umida, ma ormai si era completamente asciugata. Si rialzò e quindi attentamente, guardando bene dove appoggiava i piedi per non cancellare con il suo passaggio nessun tipo di indizio, quale poteva essere l’impronta di una scarpa, si avvicinò di un paio di metri al corpo dell’uomo.

    Poteva avere tra i sessanta e i sessantacinque anni, aveva i capelli bianchi e indossava jeans blu scuro e una camicia azzurra il cui colletto sbucava da sotto un maglioncino blu, di quelli a maglia rasata, non troppo caldi né troppo leggeri, adatti per i primi giorni di primavera, ma che era anche venuta fuori dai pantaloni, coprendo in parte la cintura nera che li teneva allacciati, e aveva ai piedi un paio di mocassini neri con i lacci che si erano sciolti, diventati probabilmente l’attrattiva per quel gattino che aveva attirato l’attenzione di Valentina. Una giacca grigio fumo, slacciata e parzialmente sfilata dal braccio sinistro, completava l’abbigliamento dell’uomo. La pelle del volto era scura, forse grigiastra, ma non era diventata bluastra, come accade generalmente nei casi di soffocamento. Le labbra e le palpebre erano gonfie, ma non troppo, e la lingua era rimasta all’interno del cavo orale.

    L’ispettore Serra si voltò e chiese a uno dei poliziotti che, vicino a lui, stava osservando la scena del crimine, se fosse arrivato il fotografo per immortalare ogni particolare del luogo del delitto e se fosse stato chiamato il magistrato per il sopralluogo. «Stanno arrivando ispettore» rispose l’uomo «anche se la segretaria del magistrato ha voluto sottolineare che il dottore era impegnato, in quel momento, in un’importantissima riunione. Non vorrei che ci facesse aspettare un paio d’ore, come è successo l’ultima volta. Che dice ispettore, vogliamo appendere dei teli a un paio di metri da quell’uomo? Per evitare di lasciarlo sotto lo sguardo curioso delle persone qui intorno.»

    «Aspettiamo che arrivi almeno il fotografo, e appena lui avrà finito, se il magistrato non fosse ancora arrivato allora lo copriremo. Li abbiamo i teli?»

    «Certamente ispettore, li ho sempre nel portabagagli della volante. Non si sa mai.»

    «Benissimo. Che dici, mi avvicino stando attentissimo a non toccare nulla per controllare se ha dei documenti in tasca? Dovremo far sapere

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